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MONDO
Racconti dalla Cisgiordania: tra le colline di Masafer Yatta, dall’altro lato del filo
Reportage di un’attivista internazionale dal Sud della Cisgiordania. La resistenza non violenta delle comunità palestinesi contro le aggressioni, sempre più frequenti, dei coloni israeliani, protetti dai militari e dalla polizia
A inizio febbraio sono partita per la Cisgiordania, e ho passato circa un mese nel villaggio di At-Tuwani e nella regione di Masafer Yatta. La zona, a cui spesso ci si riferisce con il nome di “South Hebron Hills”, si trova nella parte sud della West Bank ed è popolata da diverse comunità e villaggi palestinesi, da decenni oppressi, insieme a tutta la Palestina, dal progetto illegale israeliano di occupazione, apartheid e pulizia etnica.
Mappa dei villaggi e delle comunità di Masafer Yatta
I primi insediamenti israeliani nella regione sono stati costruiti negli anni ’70; circa dieci anni dopo, una parte di quei territori è stata dichiarata dall’autorità israeliana “Firing Zone 918”, zona militare con accesso ristretto e vietato alle persone palestinesi. Nei decenni successivi i coloni hanno allargato gli insediamenti e ne hanno formati di nuovi, e comunità e famiglie palestinesi hanno visto demolire le proprie case ed espropriare le proprie terre, con attacchi e molestie che si sono intensificati sempre più nel tempo. Dallo scorso ottobre, la situazione si è aggravata ulteriormente, sfruttando la tensione dovuta a quanto sta succedendo a Gaza: i coloni sono armati e vestiti come militari, rifiutano di identificarsi, sono aggressivi e dettano legge tra le colline. In quelle settimane mi sono inserita nel gruppo di attivistə e solidali internazionali che spesso vanno nei villaggi per supportare le comunità palestinesi e la loro lotta e resistenza non violenta, praticando interposizione civile tra loro e coloni e forze armate israeliane con l’obiettivo di ridurre gli attacchi e l’aggressività degli stessi. Viaggio da Ramallah verso sud l’11 febbraio, insieme ad alcune compagne e un po’ di provviste. At-Tuwani dista 75 km; per le strade interrotte, i posti di blocchi e i check point, ci vogliono quattro o cinque ore per percorrerla, prendendo almeno tre mezzi diversi. Sono passati 127 giorni dal 7 ottobre.
Susya (West Bank, Palestine, 12/2/2024). A sinistra: coloni israeliani che, dopo aver distrutto la staccionata di un terreno palestinese, si allontanano in cima alla collina accanto a un avamposto. A destra: coloni israeliani armati e vestiti come militari che si avvicinano ad un pastore palestinese per cacciarlo dalle sue terre dove sta pascolando il gregge;
Susya
Uno dei primi giorni andiamo a Susya ad accompagnare al pascolo un pastore palestinese nella terra vicino casa sua. I coloni vengono spesso durante la notte, di solito quando sanno che non ci sono attivistə presenti: lontano dalle videocamere internazionali, si sentono più liberi di attaccare e aggredire. Corriamo quasi subito per raggiungere un secondo pastore vicino, che sta andando incontro a due coloni che hanno rotto una staccionata che delimitava la sua terra; non appena ci vedono arrivare se ne vanno, e raggiungono l’avamposto in cima alla collina. Raggiungiamo il pastore e suo figlio, che hanno appena chiamato la polizia israeliana, e aspettiamo. Come circa il 60% della Cisgiordania, Masafer Yatta si trova in area C, sotto completo controllo israeliano.
Il pastore ci dice che passa molto tempo a guardare i coloni invadere e distruggere la terra, aspettando la polizia che spesso tarda o non arriva. È molto frustrante, dice. Racconta che prima del 7 ottobre andava nei territori del ’48 a lavorare, usciva alle tre del mattino e tornava alle sette di sera. Ora non danno più i permessi, quindi lui, insieme ad altre 120.000 persone, non sta lavorando da mesi – nota: un permesso di lavoro costava circa 2500NIS (600 euro), pari a una settimana di paga. Molte famiglie hanno un piccolo gregge per arrotondare, ora unico mezzo di sussistenza, ma, a causa dei continui attacchi dei coloni e degli insediamenti che si moltiplicano, è impossibile ricavarci quanto serve per vivere.
La polizia quel giorno non arriva, si presentano delle persone vestite in mimetica, potrebbero essere militari o coloni: è difficile distinguerli, si rifiutano di identificarsi. Sono quattro, con passamontagna, scaldacollo e mitra. Parlano con il pastore e al telefono, aspettando istruzioni. Dopo un po’, decidono che possiamo stare dove stiamo e se ne vanno, con i primi due coloni che osservano tutta la scena dall’alto. Torniamo dal primo pastore, in un prato con moglie e figlie. Arriva in moto un colono giovane, di circa 15 anni; guida in mezzo al gregge per spaventare le pecore per una ventina di minuti prima di andarsene. Questa è la giornata tipo in quei villaggi, arrivo a cena molto arrabbiata e molto stanca. Passiamo la serata guardando Al-jazeera e mangiando semi di zucca.
Shab’ab al Butum (West Bank, Palestine, 13/02/2024). A destra in alto: colono israeliano che si avvicina con il suo gregge a pastori palestinesi, con l’intento di mischiare il suo con i loro e di rubare delle pecore; a sinistra: coloni israeliani armati e vestiti da militari che, col volto coperto, prendono in giro chi li sta filmando mettendosi in posa e facendo il segno della pace. A destra in basso: coloni armati e vestiti da militari, molti di loro col volto coperto da un passamontagna, che ci trattengono nella valle sotto il paese; a sinistra: coloni israeliani armati e vestiti da militari che, una volta saliti al villaggio per controllare le pecore che un colono ha detto essergli state rubate, bloccano l’accesso e lo sguardo al recinto degli animali
Shab’ab al Butum
Un altro giorno andiamo a Shab’ab al Butum, piccolo villaggio con poche case in cima a una collina. Una di queste è stata distrutta due mesi fa, probabilmente da coloni che vengono dall’insediamento illegale di Avigail, accanto al villaggio. Quel giorno accompagniamo cinque pastori palestinesi, non ci allontaniamo molto. Dopo qualche minuto, sulla strada che costeggia la valle dove ci troviamo, si avvicinano due coloni su un quad, subito seguiti da altri in tenuta militare. Ci prendono in giro perché stiamo filmando, fanno cuoricini e segni della pace con le mani. Arriva un colono giovane, con il suo gregge, che vuole mischiare le sue pecore con quelle palestinesi: è una strategia che spesso utilizzano per rubare gli animali. Chiamiamo la polizia israeliana, che tarda molto ad arrivare. Torniamo al villaggio dopo almeno un paio d’ore, ma la situazione non rimane calma per molto: gli stessi coloni armati, con qualcuno di supporto in più, salgono nel villaggio con un furgoncino per controllare le pecore, pronti a prendere quelle che, a detta dei coloni, erano state rubate.
Sono più aggressivi e irritati di prima, tutto il villaggio si affaccia per guardare e loro bloccano gli accessi e lo sguardo al recinto degli animali. C’è molta tensione, i pastori palestinesi urlano indignati, i coloni sono infastiditi da tutte le telecamere che li stanno puntando. Continuano a coprirci gli obiettivi con le mani, o a mettersi davanti per non farci filmare. Se ne vanno, dopo più di mezz’ora, senza pecore, con la minaccia che sarebbero tornati di notte.
Lo stesso giorno, più di 30 soldati attaccano il villaggio di Um Al Khair, bloccando le persone e frugando nelle case. Lo stesso giorno, un colono di Ma’on, grande insediamento della zona, è entrato a Tuwani per svolgere lavori illegali di trivellazione e costruzione, protetto da un drone e da cinque coloni armati e mascherati; hanno mostrato una mappa, disegnata arbitrariamente sul momento, con un grande cerchio rosso, e l’hanno dichiarata zona militare per i successivi 30 giorni. Un’altra giornata tipo tra le colline a sud di Hebron.
Wadi Tiran (West Bank, Palestine, 15/02/2024). Appena fuori dal villaggio, sulla strada verso At-Tuwani, troviamo sulla strada due auto, di cui una privata e l’altra dell’esercito, con quattro coloni armati militari che trattengono quattro persone, di cui un ragazzino, bendate e legate sul ciglio della strada (in alto). In basso a destra: primo piano di uno dei coloni, di cui riusciamo a vedere solo gli occhi; a sinistra: il colono sulla destra ha in mano una delle bende, che si sono preoccupati di togliere velocemente non appena abbiamo rallentato e ci siamo fermatə dall’altra parte della strada.
Wadi Tiran e Khallet al Dabah
Siamo a Wadi Tiran, dove vivono due famiglie sole in mezzo al verde. Il panorama è incredibile, ma la magia si rompe quando lo sguardo arriva alla cima delle colline attorno, dove si vedono insediamenti e avamposti illegali da ogni lato; il più vicino è Havat Yehuda, di fronte. Lì accanto, l’intero villaggio di Zanuta, composto da circa 150 persone, è stato costretto ad andarsene lo scorso 31 ottobre, per continui attacchi e minacce, così come altre 15 comunità in Masafer Yatta negli ultimi mesi. Le persone che vivono a Tiran hanno paura che presto succederà la stessa cosa anche a loro: gli attacchi da parte dei coloni sono aumentati drasticamente dall’inizio di ottobre, soprattutto la notte e la mattina presto; a volte entrano nelle loro tende col buio, minacciando di uccidere le famiglie; hanno danneggiato il serbatoio dell’acqua e i macchinari agricoli e hanno completamente distrutto l’unica strada che portava al villaggio; inviano spesso droni; aspettano che i bambinə, mentre vanno a scuola, attraversino la collina appena fuori dalla vista del villaggio, per inseguirlə con pecore e cani. Dormiamo in una tenda quella notte, c’è molto silenzio e si sentono gli aerei che vanno verso Gaza. Siamo molto vicinə. Non riesco a dire nulla, ma il cuore mi si stringe e piange in silenzio.
Ci incamminiamo verso Tuwani intorno all’ora di pranzo del giorno dopo. Sulla strada di ritorno, mentre siamo in macchina, vediamo un’auto di coloni armati e un’auto privata israeliana ferme sulla strada, con 4 persone, 3 adulti e un ragazzino, sedute sul ciglio della strada, con mani legate dietro la schiena e bendate. Non appena rallentiamo gli tolgono le bende, dopo un po’ gli ridanno le loro cose e li slegano.
La sera vado verso Khallet al Dabah, venti minuti a piedi da Tuwani; è il primo giorno in una settimana che cammino per più di cinque minuti per arrivare in un posto. La famiglia che ci ospita sta vivendo in una tenda e due bunker sotterranei, perché la loro casa è stata distrutta più volte. Dal 2017 il villaggio ha cominciato a subire abusi, e la loro casa, insieme a quella di altri, è stata distrutta cinque volte: cinque volte i coloni sono arrivati per distruggerla e cinque volte loro l’hanno ricostruita. Anche in questa zona, hanno approfittato della guerra per appropriarsi di sempre più terra: prima di ottobre, ci si poteva muovere liberamente per le loro colline, adesso non più. Nel villaggio ci sono alcuni graffiti, alcuni fatti su muri che sono stati poi distrutti e che verranno ricostruiti.
L’alba da lassù è bellissima.
Khallet al Dabah (West Bank, Palestine, 17/02/2024). Nel villaggio, sono stati realizzati diversi graffiti dove si leggono messaggi come ‘Free Khallet al Dabah’, ‘We deserve life’, ‘We will not leave’, ‘Families not firing zones, ‘This is my north my south my east and my west my working day and evening rest’, in arabo e in inglese. Alcuni dei muri sono stati distrutti: verranno ricostruiti e i messaggi verranno riscritti
Jawaya
Qualche giorno dopo, le notizie parlano dell’ennesimo veto messo dagli Stati Uniti sulla mozione dell’ONU per il cessate il fuoco a Gaza; nella Striscia è appena passata un’altra notte orrenda. Io vado a Jawaya, di fronte a Tuwani, al di là della strada principale fuori dal villaggio, con un pastore palestinese e due suoi figli. Quella stessa mattina, non molto lontano da lì, coloni armati hanno attaccato lui e la sua famiglia, hanno liberato i cani sulle pecore ferendone tre, sparando in aria e colpendo un bambino. Il pastore ha tentato di filmare, gli hanno puntato addosso un’arma e hanno minacciato di sparargli. Li riconosce, attaccano lui e il suo gregge quasi quotidianamente e lo hanno aggredito fisicamente due volte. 20 giorni fa l’hanno legato e bendato e lasciato buttato su un cumulo di rifiuti per ore. In passato hanno ucciso due pecore del suo gregge, una incinta.
Torno lì anche il giorno dopo; tre coloni militari si avvicinano, nervosi e aggressivi. Non hanno diritto di chiederci i documenti, non hanno mappe che mostrano che siamo in terre che non dovremmo calpestare e comunque sono loro che occupano illegalmente la Palestina; eppure si inventano regole e leggi e fanno quel che vogliono. Uno di loro era molto giovane, portava il passamontagna e si teneva il mitra bello stretto. Ci hanno spinto indietro nella valle, noi e il pastore, e sono rimasti per un po’ a guardarci da lontano prima di andarsene.
Il giorno dopo torno nello stesso posto. Quando arriviamo c’è un colono sopra un quad, ha chiamato la polizia e lui e il pastore palestinese la stanno aspettando. Arrivano gli stessi coloni di ieri, sempre armati e in mimetica, più aggressivi; uno di loro mi prende il passaporto e lo tiene in tasca per un po’. Arriva la polizia, due di noi vengono arrestati – e rilasciati dopo poco, viste le accuse inesistenti: l’ennesima dimostrazione di abuso di forza e potere. Una delle persone arrestate è una donna di 70 anni circa, che era stata trattenuta il giorno prima dall’esercito israeliano e dalla polizia di confine; viene fatta sedere per terra, e uno dei coloni armati presenti le si mette davanti, con il bacino all’altezza del suo viso, si abbassa la zip e comincia a toccarsi il pene.
Jawaya (West Bank, Palestine, 22/02/2024). A destra: colono israeliano militare, ancora una volta a volto coperto, che trattiene il mio passaporto minacciandomi di deportazione; a sinistra: colono israeliano su un quad che va per terre palestinesi e trova protezione nella polizia e nell’esercito
Um Dhorit
Un giorno andiamo a Um Dhorit. Nonostante sia potenzialmente raggiungibile a piedi prendiamo la macchina, è impossibile camminare per via degli insediamenti; ci sono dei grandi massi che bloccano le strade di campagna che portano al villaggio e bisogna continuamente costruirne di nuove. Nel villaggio vive una grande famiglia in case costruite un po’ alla buona. Hanno un orto e qualche pecora, e una stanza piena di materassi, con una grande stufa al centro, dove passano le loro giornate: mangiano, dormono, si lavano. Mi sembra un po’ di viaggiare nel tempo. Di fronte al villaggio, circa un mese fa, è comparso un piccolo insediamento illegale, come un distaccamento di quello più grande che sta sulla collina accanto, Avigail. Le famiglie palestinesi continuano a subire assalti e molestie, soprattutto quando non ci sono attivistə presenti. La settimana precedente, coloni ed esercito hanno bendato e legato il papà della famiglia e uno dei figli, con l’intento di arrestarli, spingendoli e ferendoli; qualche mese fa, nelle prime settimane di ottobre, sono arrivati e hanno distrutto le case, tagliando i cavi della corrente e spaccando porte e finestre. Hanno picchiato uno dei figli, rompendogli un braccio e tre costole. Circa tre settimane dopo, si sono intrufolati di notte nella terra della famiglia e hanno dato fuoco all’unica macchina. Passiamo lì la notte e la giornata, guardando i coloni nella collina di fronte, con l’esercito che li scorta e ogni tanto si avvicina, e i droni che ci volano sopra la testa. Quando ci allontaniamo da Um Dhorit, non passa un quarto d’ora che l’esercito attacca il villaggio.
Nel frattempo, a Susya un pastore palestinese è stato trattenuto, un altro è stato arrestato; a Shab’ab al Butum sono entrati i coloni armati, mischiando i greggi per rubare alcune delle pecore; a Khallet al Dabah c’è stato un attacco dei coloni, che si sono avvicinati ai pastori palestinesi sparando colpi in aria; la sera, soldati e coloni armati entrano a Tuwani, fanno foto per il villaggio e sono aggressivi e violenti con i palestinesi e gli attivistə che li filmano. Non è una buona giornata.
Um Dhorit (West Bank, Palestine, 24/02/2024). A destra: interno della casa della famiglia del villaggio, dopo l’attacco dei coloni di Avigail, insediamento vicino; a sinistra: esempio di uno dei tanti blocchi messi sulle strade per impedire l’accesso ai villaggi, pratica frequente dei coloni israeliani che porta le persone palestinesi a costruire continuamente nuove strade
At-Tuwani e Al-Rakeez
Passano così le settimane: si susseguono continuamente episodi di questo tipo, a cui si sommano le storie che ci raccontano, e tutte quelle che non fanno in tempo a raccontarci.
Passo molto tempo con la famiglia che vive nell’ultima casa del villaggio di Tuwani, una di quelle più esposte alle aggressioni dei coloni, che si avvicinano alla casa ogni notte per controllare e attaccare. Ci sono telecamere montate lungo il perimetro della casa, e, dal tramonto, facciamo turni di sorveglianza dal secondo piano – che non sono mai riuscitə a finire di costruire. Le intimidazioni e gli attacchi sono continui, e non solo notturni. I mesi di ottobre e novembre sono stati molto difficili, tanto che moglie e bambinə si sono dovutə allontanare: entravano e distruggevano e picchiavano. Uno dei fratelli di quella famiglia, di circa 50 anni, mi racconta di essere stato attaccato 35 volte nella sua vita, una volta con un’ascia, una volta gli hanno rotto una gamba, una volta hanno cercato di sparargli.
Uno degli ultimi giorni mi trovo, con due pastori palestinesi, ad Al-Rakeez, una delle comunità a rischio di trasferimento forzato; un mese prima, sfruttando il tempo di guerra, l’area intorno al villaggio è stata sigillata ed è stato chiuso l’accesso alla strada che porta a valle. Si avvicina un colono in abiti civili, con un mitra: si chiama Amichai, è conosciuto nella zona per le frequenti molestie e aggressioni. Pochi minuti dopo lo raggiungono tre coloni militari, scortati a loro volta dalla polizia di frontiera. Intimidiscono pastori e attivistə affinché si tirino indietro, e mentre parliamo un drone ronza sopra le nostre teste. Circa due mesi dopo quel momento, cominciano a costruire un nuovo avamposto proprio in quel punto.
Ar-Rakeez (West Bank, Palestine, 26/02/2024). A destra: colono israeliano Amichai, dell’insediamento di Avigail; è in abiti civili e porta un mitra, accompagnato da due coloni militari; a sinistra: i coloni israeliani si allontanano, dopo aver spinto via i pastori palestinesi dalla valle, mentre un drone sorveglia dall’alto la scena
Me ne vado qualche giorno prima che cominci il Ramadan; come sempre in quel periodo dell’anno, la tensione è alta. Nel mese che ho passato in Cisgiordania sono stata principalmente nei villaggi del sud, ma anche a Ramallah e in alcune delle comunità intorno, a Betlemme e al campo profughi di Aida, ad Hebron. La guerra e l’occupazione sono dappertutto; dopo il 7 ottobre la situazione, già difficile prima, è peggiorata ovunque e tanto è stato messo in pausa: ci sono più abusi, coprifuochi, violenze, droni, armi. Non parlo arabo; ho imparato a dire coloni (‘mustauten’ – مستوطن), polizia (‘shorta’ – شرطة) ed esercito (‘jesh’ – جيش) il primo giorno e non me lo sono più dimenticata, perché sono parole che utilizzavamo tutti i giorni.
At-Tuwani sarebbe un posto bellissimo dove vivere, se non fosse per quel filo invisibile che non si può superare. La lotta e la resistenza palestinese sono accese e vivono da 75 anni, nonostante i continui tentativi di spegnerle. Sogno di tornare un giorno senza occupazione in una Palestina libera, e rimetto piede in Giordania con questo difficile pensiero di speranza, e un pensiero più facile di rabbia.
Khallet al Dabah (West Bank, Palestine, 17/02/2024). Alba.
Tutte le foto sono dell’autrice
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