OPINIONI
Viveiros De Castro: in Brasile sta avvenendo un genocidio
Mentre il Brasile sta diventando uno dei principali epicentri della pandemia Covid-19, l’antropologo Eduardo Viveiros De Castro lancia un grido d’allarme sugli effetti devastanti della politica del presidente Jair Bolsonaro. E ci parla di come la pandemia ci renda tutti “indigeni”, espropriati delle nostre terre e dei nostri corpi.
Mentre traducevamo questa importante intervista all’antropologo brasiliano Eduardo Viveiros de Castro, una nuova sorprendente notizia è arrivata dal Brasile. L’entourage del presidente Bolsonaro è coinvolto in una nuova inchiesta, con un’accusa senza precedenti : quella di aver costituito un’organizzazione finalizzata alla sistematica falsificazione delle notizie. Ci sembra che le pagine che seguono possano essere molto importanti per comprendere il contesto nel quale queste accuse emergono e lo scontro istituzionale oggi in atto in Brasile. Al di là di questo aspetto, di grande interesse è anche l’interpretazione più generale della crisi del Covid-19 proposta da Viveiros de Castro. Un paese complesso come il Brasile incarna infatti con molta facilità tendenze che sono oggi assolutamente globali, soprattutto per quello che riguarda la gestione della crisi da parte dell’estrema destra mondiale e la sua connessione con lo scenario dell’Antropocene [ndt]
Lei è confinato da due mesi in campagna, nei dintorni di Rio de Janeiro, dove insegna abitualmente all’Università federale. Qual è la situazione in Brasile?
Eduardo Viveiros de Castro: La situazione è catastrofica e peggiora di giorno in giorno. Toccato più tardi degli altri, il Brasile sta diventando l’epicentro della pandemia. Ufficialmente, ci sarebbero a oggi 250.000 contagi e 17.000 decessi (al 19/5, ndt), Ma, secondo vari studi indipendenti, i contagi sarebbero da 2 a 3,5 milioni, uno dei tassi di contagio più elevati al mondo, e il numero delle vittime potrebbe elevarsi a circa 200.000 nel giro di qualche mese. Tuttavia, il Presidente della Repubblica insiste nel suo atteggiamento negazionista, opponendosi alle misure di distanziamento fisico e lockdown decise dai sindaci e dai governatori degli Stati e incitando i suoi sostenitori a metterle in questione. Tutto ciò mentre il personale della sanità lotta eroicamente contro l’epidemia. La situazione è davvero spaventosa.
Ciò che sta accadendo in Brasile – e lo dico cosciente del peso di queste parole – è un genocidio: un genocidio per negligenza o incompetenza nel caso di alcuni funzionari, un genocidio invece deliberato nel caso di altri.
Questo perché il governo di Bolsonaro sarebbe ben contento di potersi sbarazzare non solo degli indigeni – che resistono ai suoi progetti di sfruttamento dell’Amazzonia – ma anche di una parte della popolazione povera, quella che non avrà più accesso alle cure quando il sistema di salute sarà saturo. L’epidemia è destinata ad avere lo stesso effetto di una pulizia etnica per coloro che dipendono dell’assistenza pubblica. È terribile da dire, ma in Brasile, lo Stato è un alleato della pandemia. Senza contare la crisi economica, con la nostra moneta, il Real, in caduta libera. Ci troviamo in una perfect storm: una pandemia, una crisi economica mondiale, dei dirigenti politici mostruosi!
I ministri della Sanità sono stati licenziati o hanno dato le dimissioni. E il presidente Jair Bolsonaro è arrivato perfino a dire che siamo davanti a un «complotto internazionale per utilizzare la pandemia e instaurare il comunismo»…
Se almeno potessimo riderci su, ma non abbiamo nemmeno questa possibilità, tanto la situazione è tragica. Bolsonaro è un uomo sull’orlo della psicopatia, un pericolo pubblico. Basta guardare il suo mentore, l’ideologo Olavo de Carvalho, un astrologo-filosofo intriso di anticomunismo delirante che vive negli Stati Uniti, in Virginia, da dove lancia affermazioni pazzesche a milioni di followers su YouTube. Questo è il nuovo Rasputin del Brasile!
Lei ha evocato la resistenza di sindaci e di governatori dello Stato. Come si manifesta?
Le scuole primarie municipali, le scuole secondarie e le università amministrate dai governatori sono state chiuse. Anche le università federali hanno chiuso su decisione dei loro rettori, in opposizione alla loro autorità tutelare. Il Brasile è sempre stato un regime politico federale. Ma è la prima volta che sorge un conflitto di questa intensità tra il governo centrale e gli altri livelli del potere, sul lockdown in particolare. Dato lo stato del sistema pubblico ssnitario brasiliano e l’assenza di test e di attrzzature, è il solo mezzo per rallentare l’espansione dell’epidemia. Ora, che cosa si vede?
Un governo centrale che, con l’appoggio di una minoranza di sostenitori e di fanatici – anche se formano quasi il 25% della popolazione – agisce contro gli interessi della sua stessa popolazione.
Un governo che prova a obbligare la gente a ricominciare a lavorare, a colpi di false informazioni e menzogne su farmaci miracolosi, di minacce, di decreti (ancora in divenire).. E, nelle strade di Rio, di San Paolo e di altre capitali, degli adepti di Bolsonaro si spostano a bordo di vetture di lusso per arringare gli abitanti e incitarli a tornare al lavoro… Siamo in un’atmosfera da guerra civile in gestazione, con l’assunzione di discorsi razzisti sempre più espliciti. E si sta facendo tutto questo con l’appoggio del grande capitale, senza il sostegno del quale non si fa niente in Brasile!
Qual è la posizione dell’esercito?
È il terzo elemento nell’equazione. Gode di un prestigio molto grande e sostiene Bolsonaro. Bisogna dire che gli ha dato un posto d’onore nel suo governo, che conta più militari di ogni governo precedente, inclusa la dittatura. I militari sostengono le istituzioni più che il personaggio imprevedibile di Bolsonaro, ma lo apprezzano quando afferma di essere favorevole all’uso della tortura. Il Brasile non ha fatto i conti con il suo passato, attraverso prove e processi importanti, come ha fatto ad esempio l’Argentina. Subiamo le conseguenze di questa codardia politica che ci ha impedito di fare i conti col nostro passato.
Che cosa ne è degli indigeni d’Amazzonia che lei ha molto frequentato? È vero che sono particolarmente esposti all’epidemia a causa di un sistema immunitario meno abituato alle epidemie?
Storicamente, gli indigeni sono «esperti» di epidemie, ne sono stati decimati al momento dell’arrivo dei colonizzatori europei. Oggi, bisogna distinguere i gruppi indigeni isolati da quelli che hanno dei contatti regolari con la società che li circonda. Questi ultimi hanno circa la stessa resistenza immunitaria dei non-indigeni, sono vulnerabili quanto noi al Covid-19. In cambio, le popolazioni isolate, esse, sono molto più vulnerabili. Ufficialmente, sui 300 popoli riconosciuti come indigeni, 34, ovvero poco più del 10%, sarebbero già stati raggiunti. E ci sarebbero 308 indigeni già contagiati, di cui 80 sono morti. Ma anche qui le cifre sono molto probabilmente sottostimate.
Lo Stato di Amazonas è il terzo Stato più colpito dalla pandemia non avendo che un decimo della popolazione di San Paolo, lo Stato più colpito – gli altri stati già colpiti sono Rio e il Céará, quest’ultimo nel nord-est del paese. L’Amazonas ne sta uscendo devastato. E non solo le città amazzoniche.
La malattia si espande anche nella foresta. Con la quarantena, le ONG che proteggevano questi territori sono state fermate. Intere regioni vengono invase da cercatori d’oro illegali e missionari evangelici, a cui Bolsonaro ha dato carta bianca per infiltrarsi nelle terre indigene. Questo presidente da incubo prova a far passare dei decreti per legalizzare l’appropriazione illegale delle terre.
Un detto brasiliano dice che il proprietario di una terra in Amazzonia è colui che la disbosca. Fino a oggi, era una pratica molto diffusa ma illegale – che non voleva dire molto in termini pratici, ma almeno… Ora il governo sta legalizzando una procedura di auto-certificazione dove sarebbe sufficiente agli invasori dichiararsi proprietari di un terreno. Il Brasile sta per cadere nell’anomia, la disintegrazione sociale nel senso in cui la intendeva il sociologo francese Émile Durkheim. Una campagna di sterminio culturale contro gli indigeni è in corso già da molto tempo. Oggi, è come se il Covid-19 avesse aperto la possibilità di uno sterminio fisico definitivo.
Nel mondo intero, ci si attende dallo Stato che protegga le popolazioni, ma lo si critica allo stesso tempo per l’esercizio del dominio su di esse. Questa difficoltà sembra raddoppiata nel caso degli indigeni. Per i loro costumi politici, si tratta di società «contro lo Stato» per riprendere la formula dell’antropologo Pierre Clastres. Ma esse sono oggi costrette a chiamare lo Stato per proteggere le loro terre e i loro corpi contro la Covid…
Io direi che la contraddizione si trova nello Stato stesso piuttosto tra gli indigeni. Facciamo un’analogia. Immaginate una situazione in cui dovete pagare per essere protetti dall’istituzione di cui state comunque finanziando l’esistenza. Sarebbe come affrontare la mafia, non è cosi? Ebbene, è esattamente ciò che sta accadendo oggi con lo Stato brasiliano, non soltanto ai popoli indigeni ma a tutti. In quanto cittadini, ci dobbiamo proteggere contro questa macchina di potere le cui decisioni sanitarie minacciano in realtà la nostra sopravvivenza. E per gli indigeni, è ancora peggio. Lo Stato insiste da molto tempo nel separarli dalle loro terre e dai loro corpi. E non fa niente per proteggerli dall’epidemia. Al contrario, incoraggia coloro che costituiscono una minaccia diretta per essi, come i cercatori d’oro. Allora, può la contraddizione essere superata?
Oggi, in Brasile, di fronte all’incuria dello Stato, alcuni collettivi si organizzano per prendersi in carica i compiti sanitari, il rispetto delle regole della quarantena, ecc… Invece di aspettare di essere protetti, ci si protegge da sé.
Per rispondere nel merito, io credo che occorra operare una distinzione tra l’apparato di Stato, che è forse (che lo è sempre, siamo onesti) catturato da alcuni interessi e fazioni particolari, e la cosa pubblica, ciò che alcuni chiamano «il comune» che gli individui possono rivendicare e lottare per riappropriarsene.
Insieme alla filosofa Déborah Danowski, avete scritto un saggio, De l’univers clos au monde infini [Éditions Dehors. Il saggio non è tradotto in Italia, dove è stato però tradotto l’intero libro Esiste un mondo a venire ? Saggio sulle paure della fine, Nottetempo, ndt], che parla della trasformazione delle nostre categorie di pensiero al tempo della crisi ecologica e dell’Antropocene. Si sentirebbe di affermare che la Covid-19 è un evento dell’Antropocene?
Tutti gli eventi che si verificano nel nostro mondo appartengono d’ora in poi all’Antropocene, poiché è l’era nella quale viviamo. Ma tu mi chiedi se l’epidemia è concatenata causalmente agli eventi che hanno scatenato l’Antropocene. E, a mio avviso, la risposta è ugualmente positiva. Poiché la deforestazione, l’aumento degli scambi transcontinentali, la circolazione degli uomini sul globo, la disseminazione delle monoculture (vegetali e animali), l’intensificazione dei rapporti tra la specie umana e le altre specie animali, in particolare quelle selvagge… tutto ciò crea in effetti delle nuove generazioni di pandemia.
A mio modo di vedere, la crisi Covid-19 è solo un anticipo della grande catastrofe climatica che ci attende, una scorciatoia contratta di ciò che rischia di succedere nei prossimi decenni.
Essa ci lascia intravedere gli effetti moltiplicati che l’Antropocene provocherà sulle migrazioni, sulle risorse, sull’economia. L’Antropocene è un fatto sociale e ecologico «totale», come direbbe Marcel Mauss. Esso produce degli eventi «totali».
Lei ha proposto con il «prospettivismo» un esercizio mentale inedito che consiste nel tentare di adottare la prospettiva delle altre culture, in particolare quella indigena, sulla nostra. Quale sarebbe un approccio prospettivista di questa pandemia?
Non so davvero se ci sia un approccio prospettivista alla Covid. Ma è certo è che che esso mette in questione le grandi separazioni tra umano/non-umano, natura/cultura, vivente/non-vivente che sono le nostre. Il virus è all’incrocio del vivente e del non-vivente. E, al suo contatto, comprendiamo che siamo noi stessi attraversati da interazioni essenziali con altri esseri che ci compongono e ci decompongono, che fanno e disfanno il corpo.
Nel passato, gli indigeni del Brasile hanno rischiato di sparire sotto i colpi delle epidemie che i colonizzatori europei avevano loro trasmesso. C’è una lezione da trarre da questa tragica esperienza del passato, per loro come per noi oggi?
In Saudades do Brasil, Claude Lévi-Strauss affermava che stiamo diventando noi stessi degli Indiani: «Espropriati della nostra cultura, spogliati dei valor di cui eravamo innamorati– purezza dell’acqua e dell’aria, grazia della natura, diversità delle specie animali e vegetali – tutti indiani ormai, stiamo facendo di noi stessi quello che abbiamo fatto di loro». Questo è più che mai vero. Stiamo sperimentando, sotto l’effetto della nostra propria azione, quello che gli indigeni hanno vissuto. Non perderemo, come loro, il 90% della popolazione, ma gli effetti saranno profondi e durevoli.
Articolo pubblicato in francese sulla rivista Philosophie Magazine philomag.com
Traduzione in italiano di Antonio Manconi per DINAMOpress.
Foto di copertina: Nacho Yuchark. Foto nell’articolo: Gianluigi Gurgigno e Nacho Yuchark