EUROPA
Tutto quello che c’è da sapere sulle elezioni europee
Storia, funzionamento e temi principali delle prossime elezioni europee. Una breve guida per orientarsi meglio
Tra il 23 e il 26 maggio si voterà per il rinnovo del Parlamento Europeo nei 27 stati membri dell’Unione. Quest’anno si recano al voto ragazzi che hanno vissuto tutta la loro vita adulta nella crisi, il dibattito pubblico internazionale ed europeo è dominato da un clima razzista e sessista che fomenta l’odio, mentre nuovi leader-maschi neo-autoritari si presentano come i capitani coraggiosi che salveranno la nave. Con i porti chiusi e crescita zero in quasi tutto il continente, queste elezioni europee vengono presentate come un momento cruciale per la democrazia in Europa.
Il Parlamento Europeo è l’unica istituzione europea eletta direttamente dai cittadini ed è la più larga assemblea democraticamente eletta nel mondo. Le prime elezioni dirette del parlamento si sono tenute nel 1979, dopo una lunga campagna dei federalisti europei, prima di allora i rappresentanti dell’assemblea venivano nominati dai rispettivi parlamenti nazionali, nonostante già nel Trattato di Roma del 1957 ci fosse scritto che le elezioni dovevano avvenire con suffragio universale diretto secondo una procedura uniforme in tutti gli stati membri.
Nel 2014 abbiamo eletto 751 rappresenti, un numero a lungo dibattuto tra gli stati europei, e passato dai 785 del 2009 ai 705 di questo anno, venendo a mancare il Regno Unito (anche se siamo pronti a sorprese dell’ultima ora). Oscillazioni che nascondono la domanda su quale sia la giusta dimensione per mantenere un’equa rappresentatività generale e per stato membro. Al momento si segue il principio della proporzionalità digressiva, cioè gli stati più piccoli hanno proporzionalmente diritto a più seggi degli stati più grandi. Così la Germania ottiene un parlamentare ogni 805.000 abitanti, mentre Malta uno ogni 66.000, avendo rispettivamente 96 e 6 parlamentari.
Non esiste un’unica legge elettorale per tutti i paesi membri, ma secondo il regolamento elettorale varato nel 2002 i sistemi elettorali sono tutti proporzionali, ma con importanti differenze nazionali: in Austria si può votare a 16 anni, in alcuni paesi è obbligatorio registrarsi per il voto, in altri bisogna avere 25 anni per potersi candidare. Tema dibattuto nel corso dei decenni è stato il diritto di voto per i cittadini europei residenti in altri paesi europei, ancora oggi Repubblica Ceca, Irlanda, Malta e la Slovenia non lo permettono, nonostante sia un diritto riconosciuto.
Un discorso simile può essere fatto per i partiti politici che non sono dei veri e propri partiti politici transnazionali, ma dei raggruppamenti delle famiglie storiche dei partiti politici nazionali organizzati nei differenti stati membri. L’idea di assegnare i 73 seggi lasciati vuoti dal Regno Unito a liste transnazionali è stata affossata dal Parlamento Europeo lo scorso anno, così 27 seggi verranno redistribuiti tra gli stati sotto-rappresentanti, tra cui l’Italia che ottiene 3 seggi in più, e i restanti 43 verranno messi in stand-by. Lo stesso Diem 25 che aveva lavorato molto su questo tema non è capace di sostanziare la sua proposta transnazionale oltre la scrittura di alcune proposte da proporre ai vari partiti a livello nazionale, tra queste il New Deal per l’Europa.
Tra le proposte per rendere il voto più “democratico e trasparente” è rimasta in essere solo la designazione informale per ogni lista dello Spitzenkandidat, cioè l’indicazione di un candidato per la presidenza della Commissione Europea, che in caso di vittoria dovrebbe essere votato dall’intera coalizione vincente, così come è successo nel 2014 per l’attuale presidente Juncker. Il partito europeo dei Verdi e il partito della Sinistra europea hanno nominato un uomo e una donna, mentre “L’Alleanza dei Liberali e dei Democratici per l’Europa” una squadra di sette persone. C’è da chiedersi se questo meccanismo ha in qualche modo colmato il cosiddetto deficit democratico delle istituzioni europee o se invece non abbia dato ancora più centralità alla Commissione Europea.
Nonostante il Parlamento Europeo abbia acquisito nuovi poteri nel corso del processo di integrazione, in questi dieci anni di crisi nel gioco istituzionale hanno sicuramente vinto altre istituzioni esecutive, tecniche o informali: la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea, il Consiglio Europeo e l’Eurogruppo (la riunione informale dei ministri dell’economia dell’area euro). Le competenze del Parlamento rimangono condivise con altre istituzioni e la sua principale capacità dovrebbe essere quella di creare uno spazio di dibattito pubblico, capacità non sempre ben gestita come abbiamo visto nel corso di questi anni. Non è un caso, infatti, che le elezioni europee abbiano un’affluenza bassissima, considerate elezioni di secondo ordine e di conferma del governo nazionale.
Quest’anno tutti i sondaggi sono unanimi nel predire una perdita di voti per i due maggiori raggruppamenti europei – i socialisti e i cristiano-democratici – un rafforzamento delle forze conservatrici e di estrema destra. Qualche sondaggio punta sui verdi e pochi sulla sinistra. Ancora una volta il dibattito pubblico viene diviso tra europeisti e antieuropeisti, euro-sì o euro-no, brexit-sì o brexit-no, evitando in questo modo di approfondire i problemi che stano alimentando questi cleavage.
Nelle settimane che ci separano dalle elezioni cercheremo di far emergere alcuni di questi temi, dalle migrazioni interne che nessuno racconta, agli scontri sulle frontiere e nel mar Mediterraneo, dalla crisi finanziaria al rompicapo dell’euro e alle politiche di austerità. Lo faremo per cercare di costruire un dibattito che vada oltre la divisione di campo tra un sovranismo-nazional-populista e un europeismo sovrananazionale debole, dove si annacquano tutte le differenze, anche quelle tra destra e sinistra.