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“Quella che chiamano la maturità”. Le canzoni di Trevisan

È uscito nei giorni scorsi “Questo stupido gioco”, il secondo album di Trevisan, uno dei cantautori dalla scrittura e dallo sguardo più personale dell’attuale scena italiana. Che in queste nuove otto canzoni, dalle sonorità più pop che in passato, intreccia riflessioni in soggettiva e storytelling con inedita maturità e consapevolezza

«Essere libero costa solo qualche rimpianto» canta Vasco Rossi in Un mondo migliore. È uno dei suoi classici versi fulminanti che brillano per condensazione e profondità, per acume e sintesi. E si tratta di un tema che è da sempre, già da Liberi liberi, uno dei leit-motiv del cantautore di Zocca: la libertà non è mai una questione di libertà negativa – cioè di essere liberi da qualcosa, o di oltrepassare un limite, come nella tradizione statunitense – ma è sempre assunzione dell’angoscia di una scelta. E ogni scelta non può che avere una dimensione di definitività, e quindi un prezzo da pagare. Perché quando ci si trova di fronte a due opzioni dove è possibile pesare ragioni e torti, si può scegliere con cognizione di causa calcolando costi e benefici, ma cosa succede quando ci si trova di fronte a due equivalenti? Quando non è possibile “fondare” il proprio agire su un principio, una ragione, su un utile o un vantaggio? La psicoanalisi definisce “essere un soggetto” nient’altro che questo: un “salto nel vuoto”; o per meglio dire, un’esperienza angosciante di indeterminatezza. E quindi di libertà. E la libertà non può mai essere senza una parte di angoscia e non può che avere dei rimpianti, come dice Vasco Rossi: perché per darle una forma bisogna darle una determinazione. Perché scegliere vuol dire nello stesso tempo chiudere e aprire lo spettro del possibile. O per meglio dire, aprirlo proprio perché lo si chiude. È allora tanto più interessante andare a vedere cosa succede in quegli anni della vita in cui le scelte non sono più infinite ma si iscrivono in un tempo determinato. E inevitabilmente appaiono anche i rimpianti.

«Sono meno gli anni che vivrò di quello che ho vissuto» cantava Trevisan in Sono meno, uno dei pezzi più belli del suo primo album Stasera non esco, uscito nel 2016 per la Wild Honey Records. E uno dei versi che riesce meglio a condensare il senso del limite dell’esperienza soggettiva dell’ “età di mezzo”, una di quelle fase della vita che il giovanilismo del rock ha sempre voluto reprimere.  Cantautore bergamasco, cresciuto nella scena underground punk e rockabilly della sua città, non è un caso che Trevisan sia arrivato al suo primo disco solista a più di quarant’anni. E ha fatto di questa sensibilità “matura” e riflessiva la cifra del suo stile di scrittura e il valore aggiunto della sua poetica. Si tratta di una scrittura che in questo senso va in controtendenza rispetto a molti dei tic che contraddistinguono la canzone cantautorale indie contemporanea, che invece funziona per lo più per nicchie di auto-rappresentazione e per immaginari fortemente codificati (per “costruzioni di mondi” che però corrono sempre il rischio di diventare bolle autoreferenziali). Nel suo nuovo album, uscito in questi giorni per Edonè Dischi, e intitolato Questo stupido gioco, dimostra di aver fatto un ulteriore salto in avanti in termini di consapevolezza, e le tematiche del suo primo album hanno raggiunto ora una forma di espressione ancora più efficace, anche grazie al grande lavoro di produzione di Riccardo Zamboni e Federico Laini.

Ma torniamo al problema della libertà, e al suo modo di essere declinata come scelta, e finanche come angoscia soggettiva (Lacan diceva che l’angoscia è l’unico affetto che rivela qualcosa del soggetto, al contrario di tutte le altre “sensazioni” che invece possono ingannare, perché sempre rivestite di una veste simbolica-significante). Già dalla mia prima traccia Tutti fuori e dalla sua prima strofa

Forse la sto pagando per quella volta che ti ho lasciato

Forse è arrivato il conto che non pensavo così salato

Forse non ho la voglia, forse non ho i coglioni

Forse non ho capito nella vita chi sono i buoni

Forse se adesso piango, me lo sono anche un po’ cercato

Con tutto il male che ti ho fatto poi mi sono dimenticato

Con tutto il male che ti ho fatto poi mi sono dimenticato

si vede la tipica mossa della scrittura di Trevisan: vedere una condizione generale attraverso la propria inclusione soggettiva in essa e la conseguenza delle proprie scelte. Per usare un termine oggi quanto mai inattuale: vedere il reale attraverso il proprio “senso di colpa”. Se il primo movimento del punk è stato quello di vedere l’individualità come antagonistica rispetto al mondo esterno (era il sintomo di un neoliberismo che aveva dichiarato guerra alla società e ai suoi soggetti), il secondo movimento – contraltare negativo del primo – è quello della maturità e dell’adultità, in cui si vede il mondo attraverso la responsabilità del proprio farne parte. Il terzo tempo sarebbe quello della trasformazione non del soggetto, ma del mondo stesso (ovvero, spostare il senso di colpa dal soggetto all’oggetto): ma per quello c’è bisogno di cambiare le condizioni oggettive, e non solo il linguaggio del proprio punto di vista. Ed è compito della storia più che di una canzone.

La scrittura di questo album si sviluppa per lo più lungo tre direttrici tematiche, che spesso però si intersecano e quasi si fanno indistinguibili l’una dall’altra. La prima è – anche qui, in modo affatto originale – quella del lavoro. Trevisan, che è stato per anni delegato sindacale tra i lavoratori della logicistica dell’Hub dell’aeroporto di Orio al Serio, nelle sue canzoni menziona continuamente la propria condizione lavorativa, anche se questa significativamente rimane sullo sfondo e non diventa mai il tema dominante di una canzone. Viene colto però un aspetto oggettivo essenziale: nella stragrande maggioranza dei luoghi della produzione contemporanea, l’esperienza del lavoro non si accompagna a un’esperienza di lotta o di conflitto, ma semmai di frustrazione e di isolamento

Forse non sono perfetto, però al lavoro ci vado

E sono sempre più stanco ogni giorno, la vita io me la pago

E mi fa male la schiena, il caposquadra è una iena

E devo chieder permesso per andare al cesso, se faccio tardi la mena

E vorrei dirgli in faccia quello che penso, ma… sto zitto

O come avviene nella già citata Sono meno del primo album, a un’esperienza di solitudine

Al lavoro, mi tolgono i diritti che mi sono guadagnato

Sono solo, perché rispondo male e non gioco al fantacalcio

La seconda direttrice tematica è naturalmente quella dei rapporti sentimentali e delle relazioni con le donne. Ma è la terza che suona particolarmente insolita alla sensibilità contemporanea intrisa di libertà negativa, e riguarda l’Altro per eccellenza, e cioè quello famigliare. In Tutti fuori, dopo la strofa d’apertura citata sopra, la canzone continua con altre due strofe la cui progressione è particolarmente significativa

Forse era il vino bianco e forse ho un po’ esagerato

Forse non mi ricordo dove diavolo ho parcheggiato

Forse è arrivato un pezzo ma forse l’ho già suonato

Forse li ho tutti dentro in un angolo disperato

Forse se non li cerco, poi arrivano da soli

Forse è arrivato il giorno di tirarli tutti fuori

Scusami se ho fatto tardi, scusami se non ci sono stato

Scusami se ti ho delusa e non mi sono diplomato

Scusami scusami scusami per le parole che non ti ho detto

Scusami se troppo volte ti ho mancato di rispetto

Scusami se ho perso tempo dietro i libri e le canzoni

Di sicuro non ho saputo gestire le emozioni

Dalla prima strofa alla terza il narratore passa senza soluzione di continuità dall’indirizzo a una persona femminile che è evidentemente caratterizzata dall’essere una storia sentimentale («Forse la sto pagando per quella volta che ti ho lasciato»), a una figura femminile che è verosimilmente quella della madre («Scusami se ti ho delusa e non mi sono diplomato»). La stessa cosa accade anche in Dobbiamo andare, una delle tracce più riuscite dell’album, dove in seguito a degli spaccati di vita quotidiana

Ho detto adesso basta mi compro un cane

Che quando sono andati tutti lui rimane

Ho detto adesso scelgo da che parte stare

[…]

Mi piace stare a tavola per conversare,

per perdere il controllo, per litigare

Mi piace avere tempo per imparare

Si passa ex abrupto all’irruzione della figura paterna, e alla sua prematura scomparsa

Mio padre se n’è andato per un brutto male,

da lui ho perso la voglia di navigare

Ho perso troppo tempo tra il dire e il fare

Al contrario di altri cantautori che sviluppano le proprie canzoni attraverso narrazioni coese e quasi “cinematografiche” – l’esempio più eclatante è Springsteen, ma ci sarebbe molto da dire sull’influenza del cinema nella scrittura cantautorale contemporanea – Trevisan adotta una strategia eminentemente letteraria e poco “immaginaria”. Le sue canzoni mischiano in continuazione l’una nell’altra le tre linee tematiche principali, con l’effetto di vederle comparire l’una dentro l’altra in un gioco di scatole cinesi dove a venire espressa è la forma di una condizione soggettiva sempre plurale.

Questa forma della narrazione, più ancora del contenuto, permette di descrivere i rapporti amorosi come incontri produttori di rotture, a volte in modo persino traumatico, che spezzano la continuità della quotidianità della propria vita e che emergono in modo inaspettato. Raramente le canzoni di Trevisan raccontano una storia d’amore dall’inizio alla fine, più spesso appaiono come momenti e flash, che così come arrivano, sono destinati a scomparire in modo inatteso. È il tema questo di Fuori allenamento, titolo che esprime efficacemente l’essere costantemente “non in condizione” e “impreparato” per l’incontro amoroso

Ho cancellato i messaggi, pensando adesso cancello te

Ma mi è bastato vederti con le tue amiche in quel caffè

E forse dovrei piantarla con le canzoni, con i cliché

E questo stupido gioco che piace a tutti tranne che a me

Poi d’improvviso l’estate e il cado che piaceva a te

Hai poi risolto con l’altro, oppure a volte ripensi a me

Perchè no, non è uno scherzo. Cuore fuori allenamento.

Io spendevo i soldi e stavo bene, e stavo bene

Però poi cos’è successo, è così da un giorno all’altro

Vita mia risparmiami le pene e questo stupido amore

L’incontro d’amore in questo senso viene visto come qualcosa non solo che procura sofferenza – il narratore stava “bene” prima – ma che quasi sarebbe persino più sano allontanare da sé («questo stupido gioco che piace a tutti tranne che a me […] Vita mia risparmiami le pene e questo stupido amore») e augurarsi che non avvenga. Anche se poi, fedele a un’idea dell’amore non solo come incontro con l’altro ma anche come incontro con la propria verità soggettiva, in altre canzoni come Dobbiamo andare, Trevisan invece sembra mettere al centro l’idea che la verità dell’incontro amoroso valga la pena di essere vissuta indipendentemente da ogni logica di “benessere”

Ho detto sì alla gioia, ho detto sì all’amore

Ho chiesto fammi male, spezzami il cuore

Ho detto tanto noi prima o poi si muore, ci tocca andare

Ma che Trevisan con questo album abbia fatto un salto in avanti ulteriore in termini di maturità e consapevolezza compositiva, lo si vede anche da alcune canzoni, come Non una nave, che riescono ad andare oltre le tematiche canoniche del cantautore bergamasco. In questa traccia prende corpo – pur rimanendo sullo sfondo – la traumaticità dell’esperienza del Covid («È stato un anno poco divertente / C’è chi l’ha presa per niente seriamente»), che nella provincia di Bergamo ha senza dubbio lasciato delle tracce molto più profonde che altrove. E che per una volta viene visto non attraverso gli occhi della prima persona singolare – che rimane comunque il punto di vista privilegiato di questo album – ma della seconda. Si parla cioè di un “tu” nel quale si scorge una figura femminile per cui il trauma si è ribaltato in una decisione soggettiva di rottura con la propria vita precedente

È stato un anno poco divertente

C’è chi l’ha presa per niente seriamente

Tu in pochi giorni sei diventata grande

con le tue scelte

Hai preso un metro su questa vita e di promesse non ne fai più

E quando pensi che sia finita un altro amore ti tira giù

Emerge da questi versi la consapevolezza che i traumi non sono mai accadimenti che vengono da fuori, ma prendono corpo sempre attraverso una mediazione soggettiva, dove il “diventare grandi” avviene comunque tramite “le scelte”. L’interlocutrice del narratore di questa canzone sembra avere avuto un’esperienza di perdita radicale dell’Altro, inteso come perdita dei punti di riferimento che danno delle coordinate di senso alla propria costruzione individuale. E che ha come conseguenza l’impossibilità di vedere un futuro idealizzato («di promesse non ne fai più») così come di poter fare quell’esperienza che non può che nutrirsi di una minima speranza di futuro, e che è l’incontro amoroso («di carezze non ne dai più»).

La canzone è permeata da un forte senso di disincanto – aumentato da uno splendido arrangiamento minimale e malinconico – che trova il suo punto di condensazione nell’immagine che dà il titolo al pezzo: “non una nave”, intesa proprio come mancanza delle garanzie dell’Altro. «Che cosa aspetti qui non arriva niente/ Non una nave, non un salvagente»: il soggetto è dunque solo con le sue scelte, che possono avvenire solo “senza salvagente”, cioè senza garanzie e sicurezza. Si tratta di quell’esperienza radicale della libertà, che è nello stesso tempo esposizione a un baratro di insicurezza così come accettazione della vita, come si vede in altre tracce del disco come Ancora una volta o Dobbiamo andare. Il punto è che la polarità di chi dice «ho detto sì alla gioia/ ho detto sì all’amore» e quella di chi è rimasto «senza salvagente» e quindi senza speranze per il futuro, vanno tenute insieme nella poetica di Trevisan. Sono due polarità che non possono che intrecciarsi l’una con l’altra e che infatti spesso compaiono come due momenti della stessa canzone, come in Dobbiamo andare dove la morte del padre e l’accettazione della vita sono messe l’una accanto all’altra.

L’album si chiude con quello che è forse il pezzo dal punto di vista della scrittura lirica più denso e stratificato. Si chiama Sassi e inizia con una frase fulminante – «L’hai poi fatto alla fine quel figlio, l’ho scoperto una notte di agosto» – con il quale il narratore si rivolge a un amore passato del quale ha appena scoperto la maternità, segno di una definitiva emancipazione dalla storia d’amore precedente con lui. Ma quello che distingue questa canzone è senz’altro l’immagine di cui è composta: il campeggio, l’amico che gli confida en passant della maternità della sua ex, il fuoco davanti a loro, le stelle cadenti e la montagna che guarda

Me lo ha detto un mio amico in campeggio

Mentre le stelle ci cadevano addosso

Me lo ha detto davanti ad un fuoco

Quasi spento, quasi per gioco

Certi amori saranno per sempre

E tu davvero ci puoi fare poco

La montagna guardava in silenzio

Io bevevo per stare nel ruolo

Del cantante col cuore spezzato

Ma in fondo a quel cuore un po’ sorridevo

Qui Trevisan, come spesso accade nelle sue canzoni, evita subito qualunque tipo di indulgenza sofferente o di identificazione compiaciuta con la delusione amorosa, anzi il narratore si guarda immediatamente “da fuori” («Io bevevo per stare nel ruolo/ Del cantante col cuore spezzato») e sembra quasi non credere alla sua stessa sofferenza («Ma in fondo a quel cuore un po’ sorridevo»). La rivelazione riguardo all’amore passato sembra subito venire relativizzata dal contesto naturale nel quale viene fatta – la montagna che guarda, le stelle che cadono – che sembra creare una divisione tra la temporalità delle vicende umane e l’eternità di quelle naturali. Tuttavia qui Trevisan non sembra prendere né la strada dell’ iper-soggettivismo, per il quale a contare dovrebbero essere soltanto le proprie pene d’amore e dove la natura diventerebbe solo un’emanazione metaforica dell’individuo, né quella scientifico-disincantata dove il vissuto soggettivo sarebbe insignificante e “troppo piccolo” se confrontato con l’immensità della montagna e con i miliardi di anni di distanza delle stelle. Il poeta che guarda le stelle è naturalmente un topos antichissimo, ma anche rimanendo ad antecedenti pop recenti, Trevisan sembra non prendere né la strada dell’iper-soggettivismo di Billy Bragg di A New England – dove il narratore proletario abbandonato dalla propria ragazza esprime un desiderio guardando le stelle, per poi scoprire che si tratta semplicemente di satelliti, “metaforizzando” così nel cielo la propria disperazione soggettiva – né quella dell’iperbole scientista de I Cani di San Lorenzo – che vedono la caduta delle stelle come puro fenomeno fisico e che tacciano di arroganza l’atto di esprimere un desiderio guardandole.

Trevisan chiude la canzone dicendo che le stelle sono solo «sassi lanciati nel vuoto» e che la temporalità della nostre vite di fronte all’immensità della montagna che le guarda è davvero poca cosa («le nostre vite [saranno] per poco»). Eppure, c’è qualcosa di eterno nell’amore che anche di fronte a un narratore che sembra quasi prendersi in giro da solo e a un mondo naturale che sembra schiacciare nell’irrilevanza ogni dimensione soggettiva, comunque continua a rimanere. Ci sembra che qui Trevisan sia vicino a quello che dice spesso Alain Badiou riguardo all’amore: che sia cioè l’esperienza di come il caso –  l’incontro amoroso ha sempre un qualcosa di contingente e “banale” – possa trasformarsi ed essere piegato a una dimensione dell’eterno. Una dimensione eterna che nonostante gli stessi interlocutori sembrino ormai non crederci più («tu ci puoi fare poco» dice il narratore di Sassi alla ex che si è fatta un’altra vita) rimane comunque. Come una montagna o come dei sassi lanciati nel vuoto dell’universo.

Il release party di Questo stupido gioco si terrà Sabato 4 febbraio alle 21 all’Edoné (via Gemelli 17, Bergamo) con un concerto di Trevisan e a seguire il Dj set di Vinnie Barbarino.

L’album può essere acquistato in vinile o Digital Download su Bandcamp, e può essere ascoltato sulle principali piattaforme di streaming