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La destra e le masse tra Kultur e dialettica

Con “Cultura di destra e società di massa” recentemente pubblicato da Nottetempo, Mimmo Cangiano ricostruisce il rapporto conflittuale e contraddittorio tra la destra europea e la modernizzazione capitalistica a cavallo tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Tra nostalgia per una totalità organica perduta e fantasie irrazionaliste, rigetto del moderno ed estetizzazione della politica

La prima cosa che si pensa, terminata la lettura di questo denso ma avvincente volume, è che esso fosse, in potenza, già contenuto come possibile sviluppo dello studio di Cangiano sulla Nascita del modernismo in Italia (Quodlibet 2018). Si è dunque portati a notare come, con una certa coerenza interna, questo studio sulla cultura di destra espanda, in senso cronologico e geografico, il precedente lavoro. Tuttavia un allargamento di questo tipo, per chi come Cangiano dimostra che i presupposti di una vera comparatistica non possono che risiedere in un saldo ancoraggio storico degli elementi comparati, non si traduce in un libro sulla mens fascista, sulle strutture archetipiche dell “uomo di destra” o sulla conservative mind, anche se leggendolo con disattenzione se ne potrebbe trarre questa conclusione.

Ciò che invece domina la stessa struttura formale del libro è il processo di confronto con l’emergere della società di massa condotto dalle destre (nelle loro molteplici varianti e sfumature che lo studioso mostra di saper unificare in tratti comuni ma anche di saper distinguere nelle contrapposizioni). Possiamo dunque rilevare almeno due grandi cesure storiche che dividono il libro nelle sue tre sezioni introdotte da camei e minisaggi su singoli autori; la prima è senz’altro la Prima Guerra Mondiale, che qui emerge nel doppio aspetto di grande evento di mobilitazione di masse umane e nuove tecnologie e di distruttore del precedente ordine europeo, un ordine che era geopolitico, ma anche economico (sarebbe affascinate una lettura parallela con un libro come Moneta e Impero di Marcello De Cecco) e dunque culturale e ideologico.

Il preludio quindi, come l’autore lo chiama, non poteva che essere in Austria perché lì sarebbe stata più evidente la fine del periodo comunemente noto come Belle Époque, che Hobsbawm avrebbe chiamato Age of Empires e Cangiano forse età del conservatorismo antimodernista. L’impero infatti non ci sarebbe stato più e con esso la forma ottocentesca di un militarismo non nazionalista (Francesco Giuseppe scriveva ancora «ai nostri popoli»); in quelle terre avrebbe avuto maggior credito il rimpianto per una grande potenza unificante e totalizzatrice, cattolica ed erede della Christianitas, germanica e latina insieme, sconfitta prima dalla tecnica che desacralizzava antichi istituti (a Sadowa e poi simbolicamente nel 1870 diventando solo uno degli Imperi Centrali) e poi con un colpo di grazia dalle democrazie liberalcapitalistiche, espressione di un mondo di particolarismi senza sintesi se non nel comune riconoscimento della potenza del denaro.

Ecco perché Cangiano comincia parlandoci di Hofmannsthal: l’analisi è centrata su due nessi che saranno tipici dell’intero corpus di autori trattati: il risarcimento estetico per la totalità organica perduta e l’estetizzazione della politica non appena si decida di voler restaurare quell’organicità che quasi sempre viene spiritualizzata con il nome di Kultur (uno dei termini chiave del libro).

Ora nella gran parte dei casi analizzati, e quasi sempre fino al ’17, la comprensione della rottura di quell’organicità sociale viene condotta nei termini di quello che l’autore chiama «pensiero binomiale» (p. 125): la manifestazione di questa lacerazione viene metastoricizzata nei termini di un conflitto tra due opposti, fissati da Mann idealmente nei concetti di Kultur e Zivilization. La prima mossa, anteguerra, del pensiero di destra può rivolgersi verso l’elogio della Kultur in pericolo di fronte ai processi di massificazione che trasformano la vecchia comunità (Gemeinschaft) in una società anonima e spiritualmente vuota  dove l’elemento quantitativo (la produzione, il valore di scambio, il tempo monetizzato, ma anche la maggioranza dei suffragi) prevale sull’elemento qualitativo (l’autenticità, i valori, le tradizioni e le gerarchie, la morale tradizionale, ma anche il valore dell’individuo altoborghese). Cangiano nota poi che «Nonostante la varietà degli sviluppi sul tema, le caratteristiche assegnate ai rispettivi termini del binomio si ripetono identiche da un’analisi all’altra. Sempre, dove uno dei termini risulta legato alla catena metonimica dell’essere e ai concetti di universalità, saldezza, rigidità, unità, il secondo riferisce alla sfera del particolare, dell’apparenza, della disgregazione, della fluidità» (p.125). Sono tematiche presenti fin da Hofmannsthal, ma nello scrittore austriaco, e in altri come il poeta tedesco Stefan George, prevale il ricorso a un medioevo idealizzato e all’equazione tra bellezza, verità e moralità (la verità che giace in superficie) quale antidoto alla perdita di un orizzonte di valori certi e di garanzie di senso. Non a caso è il teatro qui a giocarsi le ultime carte con il recupero dei misteri medioevali e dei drammi religiosi nel festival di Salisburgo e la tragedia greca in chiave postnietzschiana, ma Jedermann, Elettra, Sigismondo e altre simili creature si rivelano immediatamente un’operazione d’élite e un tentativo di restaurazione impossibile; da lì in avanti sarà il cinema l’arte con cui si disputa la battaglia per l’egemonia sulla modernità.

Nonostante vi siano alcuni richiami a una totalità sociale di tipo cristiano-medioevale (Spann è citato spesso), Cangiano giustamente arriva abbastanza rapidamente a parlare del nazionalismo aprendo in questo modo un perpetuo confronto parallelo tra Francia, Germania e Italia.

Il filo del ragionamento può essere così sintetizzato: impossibilitata a operare quel reincanto del mondo per via puramente estetica e preoccupata dal contrasto tra lo sviluppo dei mezzi di produzione (e della forza lavoro organizzata) necessario alla sua conservazione economica e i suoi istituti morali, culturali e politici, necessari alla conservazione della sua egemonia, la destra elabora nelle sue frange intellettuali il mito della coincidenza tra Kultur-organicità e spirito della nazione.

Nel pensiero nazionalista la nazione svolge dunque sia la funzione di garante politico (promuovendo l’interclassismo nell’orizzonte interno), sia quello di garante metafisico: la sua storia riproposta come racconto etnico-mitologico finisce per essere il metro di paragone per giudicare verità, autenticità e significato storico e morale dei fatti, secondo un’esigenza che Cangiano individua come comune a tutte le destre: «La destra, quella liberale come quella eversiva, quella modernizzante come quella antimoderna, sta cioè sistematicamente operando all’interno di un sistema dove il particolare richiede sempre un universale a manifestarlo». (p. 167)

Ci sono naturalmente alcune differenze: ad esempio si può essere portati a seconda dei casi a respingere il polo dissolutivo del binomio su uno stato nazione nemico, come l’Inghilterra borghese e capitalista o la Germania tecno-militarista e, anche qui soprattutto dopo il ’17, la Russia “turanica” e bolscevica o l’America, nazione giovane e senza profondità storica e perciò pervasa essa stessa da un antinazionale e antiumanistico spirito del commercio. Cangiano scende nei dettagli discutendo i singoli progetti politici, da Maurras a Barrès a Corradini, e filosofici come in Moeller van der Bruck, Sorel, Sombart, Evola e soprattutto Spengler.

L’onnipresenza nel volume dell’autore del Tramonto dell’Occidente si spiega a mio parere, oltre che con la coincidenza delle date, con il fatto che il tema della sclerosi e morte di una civiltà si manifesta proprio nel momento in cui il conflitto dei singoli nazionalismi si deve tramutare in conflitto generale tra grandi blocchi continentali: l’Europa in quanto tale (cioè secondo la figurazione che ne fa gran parte degli intellettuali formati prima della guerra) ha la percezione di essere uscita sconfitta dalla Prima Guerra Mondiale, poiché gli eventi decisivi (come sarà ancora più evidente nella Seconda) riguardano le società e gli apparati produttivi di aree del mondo rappresentate come culturalmente altre e in Spengler c’è già, nella forma del cesarismo, una sorta di precognizione della risposta politica delle destre al problema fondamentale emerso dalla guerra: il coinvolgimento delle masse in una forma di organizzazione politica diversa dalla democrazia oligarchico-liberale e che fosse in grado di contrastare efficacemente la minaccia socialista (che è sia un pericolo materiale per la borghesia che un elemento di sedizione in seno alla nazione-comunità faticosamente costruita).

Seguendo però Cangiano, che si sofferma spesso anche su scrittori e rappresentazioni letterarie di queste tensioni, dobbiamo notare come l’aspetto maggiormente innovativo di questa parte dello studio sia nell’avere accostato queste considerazioni (più tradizionali) a una disamina attenta dell’impossibilità del pensiero di destra a cogliere le categorie marxiane di analisi dell’economia e della società (nei casi di livello culturale inferiore) o nella sua volontà di risemantizzarle in senso confermativo rispetto alla necessità di una sua propria rifondazione teorica e materiale (qui siamo ovviamente nel campo dei grandi autori che, ovviamente, questa ricerca predilige).

Spetta a Péguy il compito di modello per esemplificare un’intuizione da destra della contraddizione tra valore d’uso e valore di scambio, che vengono però rapidamente spiritualizzati nel consueto modello antinomico. L’aspetto più interessante è che però questa volta è il valore d’uso a fungere da polo positivo e immagine del passato da ricomporre, «il valore d’uso come Kultur» (p. 197) scrive felicemente Cangiano, in opposizione a un polo negativo incarnato dal valore di scambio: qui visto come “spirito del commercio” e della smaterializzazione del lavoro.

Le destre allora, dal sindacalismo eversivo ai tentativi di conciliazione tra vecchio ordine sociale e nuovo sistema produttivo, cominciano a muoversi nell’ambito dei processi di produzione e circolazione, ancora una volta elaborando una serie di miti: la «nazione ebraica» riferito alla Russia bolscevica, la repubblica di Weimar come stato di bottegai, lo sciopero generale, le plutocrazie, la «milizia spirituale del lavoro», come Cangiano ricorda da Cantimori.

Ciò che però importa, a seguire a volo d’uccello la trasformazione, è che tra gli anni Dieci e i Venti i conservatori tradizionalisti sono in posizione subalterna rispetto a una nuova destra che forgia le proprie istituzioni (non di rado con una forte spinta antisistemica e antiborghese nei primi momenti): sono i Fasci di combattimento, le SA, la Falange, le Croci di fuoco, la Guardia di Ferro etc. La comparsa di questa destra che tenta l’organizzazione di massa in tutta Europa rappresenta dunque la seconda cesura portante del libro. Soprattutto però è il corporativismo che è rilevante come tentativo di risolvere la necessità dell’inquadramento delle masse lavoratrici e di riarticolare a un livello più alto della singola constatazione episodica il problema del rapporto fra produzione e scambio.

È infatti sulla natura delle sue soluzioni economico sociali (sindacalismo e corporativismo) che lo scontro ideologico tra le destre si fa più pesante, e Cangiano, riprendendo ed espandendo considerazioni non sistematiche nel volume sul modernismo, dedica ampio spazio al racconto di questo scontro in Italia e in Francia. Riportiamo una mezza pagina che ci sembra una delle chiavi per comprendere il passaggio:

«Se quasi tutte le prime teorie corporative richiedono infatti una diminuzione delle funzioni dello Stato a favore della concertazione diretta dei gruppi rappresentativi (antistatalismo e solidarismo organico) allo stesso tempo non riescono a pensare il corporativismo senza un apparato statale di controllo più forte di quello già esistente, che serva come elemento di conciliazione fra i medesimi gruppi rappresentativi. Il problema è che la società civile che si vuole esprimere, ideologicamente, come ‘comunità nazionale’, non può essere conciliata, cioè non può essere per l’appunto comunità nazionale, senza l’intervento di uno Stato fortissimo». (pp. 305-306)

È più che lecito vedere nello Stato fortissimo, come lo chiama Cangiano, quello che la tradizione storiografica ha definito stato totalitario (in fondo è una riedizione del vecchio sogno di poter restaurare politicamente la totalità perduta nei rapporti sociali). Perché questo stato si affermi è necessaria una alleanza strutturale con i vecchi settori dominanti, operazione cui concorrono un proprio ceto militare e burocratico spesso espresso, come Cangiano sottolinea con grande acume sociologico, dalla piccola e media borghesia e un inquadramento delle masse lavoratrici. Naturalmente però è preliminare a tutto ciò l’attenuazione ideologica dei propri elementi antisistemici e l’allontanamento di gruppi e intellettuali non conformi: di questi casi maggiori e minori il libro è pieno, sono naturalmente i ras, le SA e quel fascismo di sinistra, strapaesano o movimentista la cui avventura è tratteggiata con ricchezza di sfumature in un capitolo dedicato a Malaparte.

La modernità non è più dunque un fattore da respingere (per molti, ma significativamente non tutti, gli autori del libro Cangiano utilizza la categoria di antimoderni proposta da Compagnon), ma un processo che può essere dominato, con apparente paradosso, tanto meglio quanto più lo si accetta, fatalisticamente, come il solo orizzonte possibile (naturalmente un orizzonte di gloria e compimento del proprio destino per lo «Stato fortissimo»).

Il tono è qui cambiato dal passato (verso cui gli autori più nostalgici della rivoluzione conservatrice volevano tornare) al futuro, che implica la tecnica (e il capitalismo) come seconda natura, lasciamo la parola all’autore:

«La visione del mondo tecnicizzato-razionalizzato diventa a questo punto (come voleva Benjamin) la visione di una seconda-natura che è ancora “ricaduta in mitologia”; ma là dove l’intellighenzia comunista individua nel nesso storico di lavoro e produzione il possibile ambito di rottura della ristrutturazione tecnico-ideologica del capitalismo, la cultura di destra (anche della destra liberal-conservatrice) replica, almeno nelle sue componenti maggioritarie, formulando l’immagine epica di un intero (può essere il passato come la nazione, l’etnia, la tradizione, la forma, ecc.) teso a rispondere agonisticamente a ciò che viene avvertito innanzitutto come frammentazione, vale a dire come disgiunzione del particolare dal suo fine universale». (p. 438)

Se si tiene a mente quanto detto riguardo alla specifica evoluzione politica e ideologica delle destre a partire dagli anni Venti e la necessità di una risemantizzazione di tutto il portato tecnico e ideologico della Guerra, dove la società di massa ha assunto la specifica forma dei milioni di coscritti nazionalizzati dalla propaganda e dal ruolo di estensione umana dell’apparato bellico dello Stato Nazione, risulta evidente il perché Cangiano abbia deciso di dedicare l’ultimo cameo e la conclusione dello studio a un autore come Ernst Jünger.

È lo scrittore di Heidelberg (ci sono in effetti molte sottogeografie regionali in questo libro che è anche una storia di varianti locali di ideologie di destra, si pensi alla Baviera, alla Toscana, alla Loira, etc. etc. in contrapposizione alle capitali), autore di memorie come Nelle tempeste d’acciaio e Boschetto 125, ma soprattutto di saggi come L’operaio e Foglie e pietre a incarnare l’ultima metamorfosi dell’intellettuale di destra che dismette ogni umanesimo reazionario per approdare alla sintesi di tecnica e destino. La storia, anche quella mitico binomiale, scompare e come dice Cangiano, la Zivilization diviene la Kultur. A questo processo corrisponde una pseudo dialettica indubbiamente moderna e assolutamente insidiosa se, nel confronto con le culture di sinistra, (diremo provvisoriamente così) è in grado di scavalcare o porre in secondo piano alcune delle contraddizioni in cui cadevano le proposte più tradizionalmente nostalgiche e idealistiche per rappresentare specificatamente il lavoro come attività pratica:

«Il lavoro, l’espressione dell’operaio mentre si appropria dello spazio del mondo (mentre lo fa identico alla forma di cui è l’impronta, fino al punto in cui “non possa più darsi nemmeno un atomo che non sia al lavoro”), è in un certo senso ancora volontà di potenza (quella dell’operaio). Ma questa non ricade più, secondo Jünger, nel nichilismo (e qui Heidegger vede il problema), perché è espressione di un Essere che si esprime come come e non come perché, cioè nelle forme della ragione strumentale che però è manifestazione dell’ontologico» (p. 513).

Sebbene sia molto nota l’affermazione jüngeriana sul nazismo come regime della plebaglia, è difficile non vedere in queste suggestioni la formalizzazione della presupposta nuova antropologia che poteva tenere insieme la vita nella metropoli, la distesa del manto autostradale, fabbriche Krupp e Volkswagen in cui lavoravano prigionieri di guerra e allo stesso tempo la mistica geologica e naturalistica. Se non avesse avuto ragione la critica delle armi (e con quale prezzo) questo sarebbe un libro tra due Reich: uno proteso alla restaurazione di antichi fasti nei saloni di Versailles, ma abile nel conoscere l’importanza delle ferrovie, l’altro teso a un futuro millenario appena travestito con mitologie precristiane.

Dovendo sintetizzare la tesi fondamentale potremo dunque indicare non solo la notazione fondamentale (che pure spesso non è stata a mio avviso compresa): cioè che la Destra oppone all’emergere della società di massa e alle contraddizioni proprie dello sviluppo produttivo un pensiero fondato su opposizioni che ne cristallizzano il movimento fino a farne perdere la percezione di profondità storica (il pensiero binomiale), ma che la storia interna di questo pensiero e le forme in cui questo si riarticola hanno una loro specifica dipendenza dall’evoluzione dei fatti sociali e dalle necessità dello scontro di classe al punto da potersi infine persino rovesciare nel loro contrario.

Più sinistramente bisogna dire che, se certamente questa storia si conclude negli anni Trenta, la possibilità per la Destra di accettare il “progresso” e di conferire a esso, anche nella variante di rottura delle gerarchie valoriali particolari del passato, un valore nel quadro di dominio, controllo e funzionalizzazione alla produzione non si è certo conclusa con Jünger, ma è passata attraverso la seconda metà del secolo fino agli ultimi decenni e noi spesso fatichiamo ad accorgercene e crediamo ai suoi miti più di quanto la cultura di Destra stessa faccia.

Un libro tanto denso e ricco meritava una disamina approfondita, che gli rendesse giustizia anche rispetto alla metodologia adottata e ad alcuni aspetti innovativi su cui vale la pena spendere alcune righe.

Se, come abbiamo ripetuto, la stretta connessione tra fatti e oggetti culturali e concreta storicità materiale è la cifra dominante della scrittura di Cangiano, bisogna rilevare come nei capitoli più discorsivi essa porti con sé una sorta di parità orizzontale nel valore probante conferito a ogni testo che è insieme anche documento: spessissimo articoli di giornale, interviste e discorsi affiancano libri di filosofia, saggi politici e romanzi, tuttavia ci sembra sia stato fatto un grosso passo avanti anche rispetto a ricerche simili di questi anni o persino allo stesso libro precedente nell’analizzare lo specifico letterario e nel distinguere le diverse forme di scrittura che escono qui maggiormente dall’indistinto alveo delle dichiarazioni ideologiche, operazione tanto più difficile quando l’autore si sia scelto come terreno principale quello dell’estetizzazione della politica.

I bellissimi camei provano quanto Cangiano abbia ragione e sia solido il suo metodo giacché (prova della buona dialettica) gli elementi chiave dello sviluppo storiografico generale emergono proprio attraverso le analisi particolareggiate di singoli autori o testi risolvendo l’eterna apparente antitesi di contenuto ideologico e valore letterario. Anche in questo ci pare che l’autore possa ben essere annoverato tra quanti, nati e formatisi completamente in un periodo di egemonia culturale liberale e di ostilità al pensiero dialettico e marxista provano invece in questi anni, sia con pubblicistica teorica che con ricerche storicamente e filologicamente accurate (come la presente) a difendere e far anzi progredire il potenziale euristico di una critica letteraria e culturale di ispirazione marxiana.

Per realizzare un passaggio così difficile l’autore ovviamente si avvale di una solida formazione critica in cui risalta in primo piano la tradizione hegelomarxista da Lukács a Jameson, ma a ulteriore dimostrazione della validità degli strumenti, minimo appare il bisogno di Cangiano di forzare l’oggetto della sua interpretazione con abbondanti citazioni dei suoi propri maestri (lo si potrebbe considerare un miglioramento rispetto a molta critica di impianto simile scritta qualche decina di anni fa). Non si tratta affatto di considerare Lukács come vangelo, come pure è stato detto, ma al contrario di considerare l’opera dell’ungherese e in generale la tradizione marxista di critica letteraria come qualcosa di vitale che può e deve essere sottoposto alla verifica dell’uso: sarei anzi propenso a dire che, per restare a libri sul pensiero di destra, questo di Cangiano abbia almeno un aspetto di superiorità anche al carissimo La distruzione della ragione e cioè in particolare la volontà di ricondurre la categoria di irrazionalismo a una mancanza di dialettica sul piano dei rapporti materiali, laddove decenni addietro, naturalmente anche per ragioni profonde legate al differente modo di concepire i fatti culturali e i loro addentellati politici in un mondo assai diverso socialmente, a volte nell’ungherese l’irrazionalismo appariva come la storia di una caduta non sempre necessaria, frutto della volontà di ignorare la dialettica da parte di alcuni pensatori più che dell’incapacità di pensarla socialmente, da qui alcuni casi di riabilitazione morale di autori condannati sul piano teorico (Dilthey, Weber e in generale alcuni storicisti e appartenenti alla filosofia della vita).

A Cangiano la possibilità di uno schieramento soggettivo o le eventuali aspirazioni all’emancipazione universale dei singoli autori interessano ancor meno, preferisce, e a ragione, concentrarsi su processi dei quali i sistemi estetici, filosofici e le opere d’arte sono un segno più che un motore.

Ciò che lo porta a privilegiare una tradizione di impronta marxista e a impegnarsi per esplorarne le possibilità  in diversi contesti (ricordiamo anche un certo numero di interventi gramsciani in volumi collettivi e alcuni scritti teorici e analitici rivolti alla contemporaneità, apparsi su Le parole e le cose) non è il disdegno delle altre o l’indifferenza verso questo o quel teorico che hanno affrontato gli stessi problemi con soluzioni magari originali, ma è la consapevolezza della necessità di dover cercare il nesso tra materialità e produzione culturale. Solo quando questo nesso non si trovi più o non lo si voglia riconoscere le interpretazioni del legame tra società di massa e ideologie diventano tra loro equivalenti (nascondendo così però nel fondo l’idea di un mondo tutto solo astrattamente individualistico e pulsionale, in cui ciò che è fatto o scritto accadrebbe per ragioni di scelta e preferenza non discutibili né comprensibili, non diversamente da quelle che, per qualche critico, spingerebbero Cangiano a una professione di fede). «La volpe conosce molte cose, ma il riccio ne conosce una importante» – si potrebbe scherzosamente replicare, con Berlin, a chi pensasse di poter sorvolare sui nessi materiali rintracciati in Cultura di destra senza cadere nelle stesse contraddizioni degli autori che vorrebbe interpretare. Anche per questa ragione mi sembra abbia poco senso rimproverargli di aver trascurato la psicoanalisi, o la cultura anglosassone, la destra liberale o il socialismo non marxista o qualsiasi altra cosa non si trovi in questo libro e, men che mai, imputargli di aver localizzato politicamente una tradizione come “di destra”. Per un buon dialettico, ma sarei davvero tentato di dire per un buon studioso, non esiste la Cultura e basta, con la maiuscola e della quale potersi tanto democraticamente quanto astrattamente impadronire, esiste solamente la cultura espressa in un certo momento storico da un certo gruppo sociale e la tradizione come posizionamento rispetto a analoghe produzioni passate (e qui certo il gioco è molto vario e aperto e tutt’altro che meccanico).La concezione della Cultura, di fronte alla quale ogni sforzo e lavoro sarà sempre e comunque manchevole di qualche parte, è proprio uno di quegli universali mitici e difensivi di cui il libro fornisce numerosi esempi.

Altri sarebbero a mio parere gli interrogativi nel lavoro di Cangiano, e non risiedono in un difetto di impostazione, quanto piuttosto in ulteriori strade che questa impostazione potrebbe aprire. Difetto di brevità diciamo scherzando, dato che si tratta di un lavoro imponente. Ci vengono in effetti a lettura conclusa moltissime domande alla mente: perché ad esempio quando Cangiano parla della Spagna cita spessissimo come riferimento un pensatore liberale, ambiguo magari, ma certo non conservatore né canonicamente di destra come Ortega y Gasset? E ad esempio in Irlanda nello stesso giro di anni non è pur vero che temi nazionalistici e culturmorfologia in letteratura vanno di pari passo con istanze di emancipazione sociale e addirittura nazionalisti e comunisti possono essere alleati (salvo poi far esplodere una guerra civile) e ancora, nella ricorrente rappresentazione dell’Europa come vecchia civiltà a confronto con popoli giovani che ruolo ha l’accettazione ideologica ed estetica esterna di questo paradigma binomiale (ad esempio nell’immigrazione intellettuale dalle Americhe o attraverso i profughi postrivoluzionari dalla Russia)? Abbiamo poi già detto di come la questione non si concluda affatto negli anni Trenta, ma anzi si complichi fin da subito con l’emersione di guerre fra fascismi e di fascismi progressivi integrati nel sistema mondiale liberale, ma sono tutte questioni che naturalmente non avrebbero potuto rientrare in una sola ricerca.

Penso che a volerlo estendere nello spazio (alle periferie del mercato mondiale e agli altri attori in quella fase) e nel tempo il paradigma individuato da Cangiano si rafforzi e apra nuove e impreviste possibilità di comprensione, ben lungi dall’affondare nella Manica come qualcuno spererebbe. Soprattutto per questa ragione Cultura di destra e società di massa è probabilmente portato a divenire un lavoro chiave per orientare un futuro filone di studi e consolidare ulteriormente il tentativo di quei ricercatori che stanno mostrando di non voler rinunciare a una difesa del marxismo ma altrettanto di non volerla, e giustissimamente, considerare una battaglia per i classici e per una teoria sempre valida, bensì l’impiego di una risorsa che nella pratica si rivela indispensabile all’attualità o perlomeno è quello che si può sperare e ci si può attendere a maggior ragione attraverso una ricerca come questa : che sia un libro non da correggere ma da ampliare, necessario perché altri, che senza questa solida base non avrebbero potuto essere scritti, ne mostrino e allarghino la già notevolissima ricchezza.

In copertina un’immagine di Hugo von Hofmannsthal