ITALIA
Quando la solidarietà è reato, 13 anni a Mimmo Lucano
Il tribunale di Locri ha emesso, in primo grado, una pesantissima condanna nei confronti dell’ex sindaco di Riace, confermando anche i capi di imputazione che erano stati stralciati dal Gip. Solidarietà per l’ex primo cittadino da associazioni di volontariato e dai partiti di sinistra
Tredici anni e due mesi di carcere: questa la sentenza di primo grado emessa dal tribunale di Locri nei confronti di Domenico “Mimmo” Lucano. L’ex sindaco di Riace, divenuto nel corso dei suoi tre mandati il simbolo di un’integrazione reale ed efficace, era imputato nel processo “Xenia” per presunte irregolarità nella gestione dei progetti di accoglienza dei migranti.
Una condanna straordinariamente pesante, che quasi raddoppia le richieste della Procura (ferme a sette anni e undici mesi) e che arriva a pochi giorni dall’appuntamento con le urne in Calabria: infatti, nella vicina tornata elettorale amministrativa, Lucano era tra i candidati di punta della lista guidata da Luigi de Magistris “Un’altra Calabria è possibile”.
Nella requisitoria di martedì, il Pm aveva sostenuto che «la vera finalità dei progetti di accoglienza a Riace era creare determinati sistemi clientelari». Tra le accuse a carico di Lucano associazione a delinquere, truffa, concussione, falsità ideologica e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La procura di Locri ha, infatti, riproposto lo stesso impianto accusatorio che il giudice per le indagini preliminari (Gip) e il Tribunale delle libertà avevano già in parte smontato, privandolo dei capi di imputazione più gravi.
Il Gip infatti, pur rilevando una «tutt’altro che trasparente gestione, da parte del Comune di Riace e dei vari enti attuatori», delle risorse erogate per l’esecuzione dei progetti del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) e dei Centri di Accoglienza Straordinaria (Cas), aveva negato la contestazione di reati specifici.
Proprio per questo motivo, la difesa, rappresentata dagli avvocati Giuliano Pisapia e Andrea Dacqua ha sempre parlato di «accanimento terapeutico» della pubblica accusa. Per l’ex primo cittadino di Milano, Lucano «non ha agito per il potere, ma perché ci credeva ed era giusto, perché lo chiede la nostra Costituzione».
Arrestato il 2 settembre 2016 nell’ambito di un’inchiesta della Guardia di Finanza, Lucano ha così commentato la sentenza: «Non c’è né pietà né giustizia, oggi sono morto dentro». Manifestazioni di solidarietà nei confronti dell’ex sindaco del comune della Locride sono immediatamente arrivate da numerosi esponenti politici. Nicola Fratoianni ha definito «incredibile» l’esito del processo, mentre Luigi de Magistris ha ricordato che «la storia dell’umanità insegna che non sempre la giustizia coincide con la legalità».
Lo stesso de Magistris ha sottolineato anche il valore e il merito dell’esperienza da sindaco di Lucano: «Conoscevo Riace prima di Lucano ed era un borgo desertificato, con Lucano era divenuto un Paese ricco di energie, di economia circolare e di comunità viva. Con il post Lucano nuovamente abbandono e spopolamento. Per me Lucano è l’antitesi del crimine».
Posizioni simili sono state espresse anche da Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista: «Accogliendo i migranti Mimmo avrebbe creato opportunità di lavoro per i suoi concittadini in una regione dove la disoccupazione è altissima e i centri storici in abbandono».
Acerbo inoltre ha rimarcato l’assurdità kafkiana della condanna di primo grado: «Se Mimmo Lucano ha accolto, ha realizzato un sistema di accoglienza che non prevedeva l’arricchimento delle mafie, se ha proposto un’idea di paese sgradita a ministri dell’Interno come Minniti e Salvini, questo è un merito che gli dovrebbe essere riconosciuto, se vivessimo in un paese le cui istituzioni fossero davvero ispirate dai principi della Costituzione».
In attesa di conoscere le motivazioni della durissima sentenza, il tribunale di Locri sembra confermare il carattere politico del processo contro “Mimmo” Lucano, mettendo definitivamente in pratica la criminalizzazione di chi pone al primo posto i diritti delle persone, andando anche oltre le carenze dei meccanismi di accoglienza ufficiali. Dovremmo forse riflettere più a fondo sulla natura del sistema giudiziario italiano, al di là degli arbitri e delle esagerazioni di un singolo procedimento (che ha lasciata sbigottita la stessa pubblica accusa, incerta se portare a casa o ricorrere per ridimensionare). Ci saranno giudici buoni, ma non c’è un potere giudiziario buono.
L’attività giudiziaria in parte si muove secondo una logica interna, più o meno garantista, più o meno funzionale alla difesa di interessi settoriali legittimi, in parte è determinata da scelte di classe che dipendono dai rapporti di forza sociali. Come ogni istituzione statale vuole far paura alla moltitudine, ma ha paura della moltitudine, che notoriamente spaventa chi comanda (Spinoza, Tractatus politicus VIII, 4). Quindi, avanti con tutte le contestazioni sul terreno legale (cominciando dall’appello) e mediatico, però rendiamoci conto che, come per gli infortuni sul lavoro, alla fine quello che decide non sono appelli e ispettori, ma la forza dissuasiva di un conflitto che costringa istituzioni e mercato a frenare la propria prepotenza e avidità.
Tutte le foto dall’archivio DINAMOpress.