approfondimenti
ITALIA
Quando il diritto alla città è un lusso, lo spazio pubblico si consuma
Lo sgombero dei senzatetto dalla Galleria Umberto I di Napoli è un tipico esempio di regolamentazione dell’uso dello spazio pubblico a vantaggio della sua mercificazione
È giovedì 20 gennaio scorso, di mattina presto, quando, attraverso un intervento congiunto di Polizia Municipale, ASIA, Napoli Servizi, e degli assessori De Iesu (Sicurezza e Legalità) e Trapanese(Politiche Sociali), il Comune di Napoli comincia quella che nel comunicato stampa del giorno precedente è definita riqualificazione della Galleria Umberto I. Si tratta di uno spazio pubblico coperto, ma aperto e attraversabile su cui si affacciano attività commerciali di diverso tipo e che fa da collegamento tra i siti di maggiore attrazione della zona centro-portuale della città. Opera edilizia della fine del XIX secolo, la Galleria Umberto I di Napoli è tra gli esempi più rilevanti di costruzioni nel suo genere, alla stregua della Vittorio Emanuele II di Milano.
Nel 2014, un cornicione di una facciata interna crolla provocando la morte di un bambino. Da quel momento, cominciano lavori di messa in sicurezza delle facciate degli edifici, ancora oggi in corso e oggetto di lunghe vicende giudiziarie aggravate dalla difficile attribuzione proprietaria degli elementi edificati che compongono la struttura nel suo complesso.
Infatti, la strada coperta è da ritenersi di proprietà pubblica, quindi di pertinenza del comune, mentre il prospetto degli edifici risulta tra quelle parti da considerarsi oggetto di comunione tra i proprietari privati delle diverse porzioni.
L’intervento della nuova amministrazione napoletana, nei fatti, è consistito nello sgombero dei senzatetto che occupavano gli spazi perimetrali della galleria riparati dalle impalcature edificate per la ristrutturazione delle facciate interne. Dopo qualche ora, scompaiono cartoni, coperte, buste, e anche i clochard. Il primo intervento di pulizia è fatto. Decoro, degrado, sicurezza: queste alcune delle parole chiave utilizzate dagli amministratori comunali. L’ultima sarà garantita attraverso un sistema di videosorveglianza e pattuglie di polizia attive fino alle ore 20, dichiara l’assessore alla Sicurezza, che potranno, poi, essere sostituite da società di vigilanza privata.
(Maria Reitano)
Decoro, stando a quanto affermato dagli assessori, deve essere assicurato a tutela degli abitanti degli edifici limitrofi e dei commercianti, quindi, – è giusto esplicitarlo – dello spazio pubblico mercificato da turismo e multinazionali.
Degrado sembra essere determinato, piuttosto che dall’assenza di politiche pubbliche per la tutela del diritto all’abitare, nonché di programmi e strutture di accoglienza a lungo termine, dalla presenza dei senzatetto, che, come chiarisce l’assessore alle Politiche Sociali, «sono convinti che i luoghi che occupano siano casa loro».
Ebbene, una definizione intuitiva e abbastanza condivisibile di spazio pubblico ci suggerirebbe proprio il contrario di quanto affermato dall’assessore, e, cioè, che esso è un bene comune, di e per tutt*. Ali Madanipour (2013) descrive come pubblico quello spazio egualmente accessibile per tutt*, prodotto attraverso processi di inclusione. Lo spazio pubblico è da sempre il riflesso della società che cambia e che, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, viene a coincidere con quella capitalista e poi neoliberale. A quest’ultima appartiene il fenomeno globalmente riscontrabile della privatizzazione dello spazio pubblico, che è accompagnato da quello della sua disciplinarizzazione, cioè del suo controllo associato alla restrizione dei suoi modi d’uso.
La capitalizzazione urbana, come definita da David Harvey (2019 [2005]), coincide oggi non solo con l’ipervalorizzazione degli immobili basata sul sistema della rendita, ma anche con la mercificazione dello spazio tutto, dei sistemi costruiti e non, dei paesaggi antropici e naturali, che costituisce una continua minaccia per lo spazio pubblico soggetto alla sua progressiva erosione. Madanipour spiega che è proprio la contrazione del livello di accessibilità dello spazio pubblico che ne segnala la privatizzazione, ovvero la riduzione dei gruppi sociali abilitati a fruire dello spazio in base alla loro capacità di pagare per un suo uso volto al solo consumo.
Insomma, è criminalizzato un qualsiasi uso dello spazio che sia diverso da quest’ultimo.
L’esempio della galleria napoletana e della regolamentazione dell’uso dello spazio nei centri turistici e commerciali delle città italiane, come a Roma, dove, in alcuni casi, è addirittura vietato sostare appoggiandosi o sedendosi su gradinate e margini della strada, ci fa capire che l’urbanizzazione neoliberale non è un meccanismo di mercato dell’alta finanza, ma un processo dinamico quotidiano che per poter esistere ha bisogno di situarsi nelle specificità locali.
Infatti, se da un lato possono essere riscontrate strategie globali di neoliberalizzazione, come le misure di austerity, lo smantellamento delle politiche pubbliche locali a favore di forme di governance ibride e partenariati pubblico-privato, l’eliminazione del controllo sulla rendita nel mercato della casa, dall’altro i processi di dualizzazione urbana e polarizzazione spaziale (Mollenkopf e Castells, 1991; Sassen, 1991), coincidono oggi con forme, altrettanto strategiche, di marginalizzazione urbana radicate nei processi locali di isolamento sociale e territoriale. Loïc Wacquant (2008) parla a questo proposito di marginalizzazione avanzata e di povertà urbana. Margit Mayer (2010) riferisce quest’ultima anche a gruppi di nuovi poveri, che includono lavoratori a reddito medio-basso e medio. Dunque, le dinamiche neoliberali spaziali, basate su un meccanismo strategico di esclusione, prendono la forma di processi locali di segregazione radicati nelle fragilità territoriali esistenti e volti a produrne di nuove.
(Maria Reitano)
Nella storia dell’ultimo secolo della pianificazione urbanistica italiana, spazio pubblico, spazio della casa, e spazio dei servizi sono legati attraverso le politiche abitative e i piani di edilizia pubblica. Primi esperimenti di questo tipo di piani furono quelli realizzati nel secondo dopoguerra con i fondi dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni (INA), per questo chiamati INA-Casa. Tali complessi si ispiravano all’architettura razionalista e alle unità abitative in grado di concentrare le destinazioni abitativa e dei servizi di quartiere in un unico isolato o gruppo di edifici.
A Napoli, questa struttura assume la forma del rione, una porzione di territorio, più piccola di un quartiere, che racchiude più isolati, spazi interstiziali più o meno adibiti a verde, e strade di connessione tra questi, di solito delimitata da confini materiali evidenti come recinzioni, e che finisce per risultare un quartiere nel quartiere, in cui i suoi abitanti trascorrono il tempo della vita quotidiana.
È il caso del Rione La Loggetta, situato nel quartiere Fuorigrotta, zona occidentale, del Rione Traiano, situato nel vicino quartiere Soccavo. Ma il secondo dopoguerra costituisce per Napoli anche il periodo delle grandi speculazioni edilizie nella zona collinare della città, che contribuiscono a consolidare una struttura urbana organizzata sullo staccamento dei quartieri del ceto medio, oggi le aree gentrificate della città, dai quartieri periferici in cui progressivamente vengono espulsi i gruppi sociali più fragili. E ancora negli anni Sessanta, con la legge n. 167 del 1962, si sancisce la necessità per i comuni di grandi dimensioni di dotarsi di Piani per l’Edilizia Economica e Popolare (PEEP), cioè edilizia realizzata dallo Stato a destinazione abitativa ad accesso agevolato, poi definita Edilizia Residenziale Pubblica (ERP).
Tali piani sono attuabili attraverso lo strumento dell’esproprio da parte dell’amministrazione pubblica e devono comprendere la funzione residenziale, ma anche quelle dei servizi ad essa relativi, come infrastrutture per lo sport, verde pubblico, spazi per la collettività e la socialità. A Napoli, la 167 determina l’espansione nord e nord-est della città, con l’individuazione dei siti di nuova edificazione nei quartieri Secondigliano-Scampia e Ponticelli. Il primo prevede l’insediamento di 63mila abitanti, il secondo di 60mila (Cerami, 1994). Fino a oggi, molti degli spazi pubblici previsti dal piano e delle strutture da dedicare ai servizi di quartiere non sono stati realizzati e, se realizzati, mai attivati o manutenuti. Successivamente, a seguito del terremoto che nel 1980 colpisce l’area irpina e il napoletano, viene realizzato un Programma Straordinario per l’Edilizia Residenziale (PSER), approvato con la legge n. 219 del 1981, che prevede la realizzazione di 20mila alloggi nella città di Napoli per sopperire all’emergenza abitativa determinata dal sisma (Cerami, 1994).
Purtroppo, il carattere emergenziale di questo programma e la necessità di ridurre i tempi di realizzazione delle opere consentono la definizione di strumenti attuativi, come quelli deputati alla scelta delle ditte appaltatrici, che agevoleranno una gestione poco trasparente dei fondi pubblici e la sostituzione del privato al pubblico nei processi decisionali.
È in questo frangente storico che cominciano a determinarsi alcune delle gravi fratture sociali della città. Molti alloggi verranno fatti sgomberare nel post-terremoto e comincerà una migrazione interna forzata degli abitanti dal centro urbano verso le zone periferiche della città. Verranno creati campi con strutture container provvisorie per l’alloggio dei terremotati, che, ancora oggi, sono abitati. Le lente procedure burocratiche per le assegnazioni degli alloggi determineranno attese infinite e case popolari mai assegnate. La questione abitativa comincerà così a riguardare un numero sempre crescente di senzatetto e terremotati.
(Maria Reitano)
I dati forniti dall’ISTAT attraverso il censimento delle abitazioni del 2011 ci dicono che su un totale di 31milioni di abitazioni in Italia, più di 7milioni sono vuote, dato che a Napoli risulta essere quasi di 15mila, il 4% delle abitazioni totali. Inoltre, dalla stessa fonte si rileva che la città di Napoli ha un’incidenza di alloggi impropri sul totale delle abitazioni tra le più alte in Italia, così come numerosissimi sono gli edifici residenziali in pessimo stato di conservazione, con un indice di affollamento che va oltre qualsiasi standard minimo accettabile di metri quadri disponibili per abitante. Con la delibera n. 1018 del 2014 sull’albergaggio sociale, il Comune di Napoli stanzia dei fondi per il recupero di edifici che possano costituire strutture di accoglienza a lungo termine per persone in emergenza abitativa. Solo pochi edifici vengono individuati, pochi fondi utilizzati, e a nessuno degli stabili occupati dai movimenti per il diritto alla casa viene riconosciuta legittimità. Attorno alla critica nei confronti della gestione dell’emergenza abitativa post-sisma e alla denuncia dei gravi disagi sociali presenti in città sono nate nel tempo grandi mobilitazioni di massa che hanno visto l’intersezione dei movimenti di lotta per il lavoro con quelli per il diritto alla casa.
La storia di quelle mobilitazioni costituisce le radici dei movimenti urbani attivi nella città di Napoli per la tutela del diritto all’abitare. Tra questi c’è Magnammece ‘O Pesone (in napoletano, mangiamoci l’affitto), che porta avanti esperienze di lotta, resistenza, e solidarietà attraverso pratiche di occupazione e riappropriazione, blocco degli sfratti, ma anche campagne di sostegno per persone in difficoltà abitativa e sportelli di supporto legale.
L’ex scuola media Schipa, in via Salvator Rosa, abbandonata da diversi anni, è il primo edificio occupato dal Pesone nel dicembre 2011, anno delle grandi proteste urbane diffusesi in tutto il mondo a rivendicazione del diritto alla città (Lefebvre, 2014 [1968]; Harvey, 2012). È, infatti, a partire da questo momento che i precedenti movimenti locali per il diritto alla casa si inseriscono nel più grande quadro internazionale di contestazione delle politiche urbane neoliberali e di rivendicazione di diritti fondamentali universali, che genera nuova consapevolezza sulla necessità di ripoliticizzare lo spazio urbano attraverso pratiche insorgenti di democratizzazione radicale per garantire la definizione di processi di emancipazione sociale e spaziale concreti.
Dopo la scuola abbandonata, il Pesone ha occupato altri cinque edifici situati in zone centrali della città, che ospitano alcune centinaia di persone dalla composizione sociale estremamente eterogenea. Sono edifici pubblici ma anche privati, come il CROSS (Casa e Reddito Occupazioni Senza Sosta), una palazzina sita in salita Arenella, costruita da società private, che, violando molteplici vincoli urbanistici, tra cui anche quello di destinazione a uso pubblico, realizzano un esempio magistrale di speculazione edilizia nell’indifferenza delle istituzioni.
Il blocco degli sfratti, prorogato per l’emergenza pandemica, è scaduto il 31 dicembre scorso e si calcola che a Napoli gli sfratti esecutivi ammontino almeno a 3mila, a cui si devono aggiungere gli ulteriori in arrivo, che vengono stimati a 10mila.
Visto il fallimento della delibera 1018, la città di Napoli non è dotata di sistemi di ospitalità a medio o lungo termine, disponendo solo di strutture di accoglienza a breve termine, che, stando ai dati forniti dal Comune, ammontano a una capacità di 400 posti letto, in cui rientra un recente ampliamento della disponibilità precedente, pari a 32 posti letto, offerti da un’associazione religiosa e che, secondo l’assessore alle Politiche Sociali, ha giustificato lo sgombero di giovedì scorso dei senzatetto. Lo stesso assessore riconosce che il fabbisogno è in realtà di 1.800, dato che Comunità di Sant’Egidio e Caritas riportano all’inizio dell’anno scorso superiore a 2mila. L’amministrazione comunale prevede di estendere l’intervento cominciato anche alla zona della stazione centrale, piazza Garibaldi, dove, se possibile, la situazione dei senzatetto è ancora peggiore. Un ulteriore sgombero, insomma, per garantire il decoro di un altro dei grandi siti di recente mercificazione dello spazio urbano, quello della stazione della linea 1 della metropolitana con il suo shopping mall sotterraneo.
(foto da commons.wikimedia.org)
La città (post-)pandemica è sempre più diseguale e polarizzata, i suoi servizi sono a pagamento e il suo welfare è indirizzato a uno stato di cittadinanza elitario, la sua sfera pubblica è stata, prima, nel periodo di lockdown, schiacciata nel mezzo della dicotomia tra spazio pubblico e privato, quello del decreto e motto iorestoacasa – anche questo, valido per quello stato di cittadinanza elitario – e dopo, normata, regolamentata. Al contrario dello spazio pubblico inclusivo e accessibile, lo spazio urbano (post-)pandemico è inaccessibile e vincolato, pieno di barriere – le pedane e i tavolini di bar e ristoranti che invadono piazze e strade – e confini invisibili, quelli della zonizzazione di usi e comportamenti ammissibili o criminalizzati.
Immagine di copertina di Maria Reitano
Fonti dei dati
Comune di Napoli, comunicati e web TV, accessibili su:
https://www.comune.napoli.it/giunta/comunicatistampa?id=24078
https://www.youtube.com/watch?v=IjqdQRE0Qlc&t=165s
https://www.youtube.com/watch?v=_9LnQ7qqweE
https://www.comune.napoli.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/30415
Comunità di Sant’Egidio, comunicati e servizi, accessibili su:
https://www.comune.napoli.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/17055
Governo Italiano, Presidenza del Consiglio dei Ministri, UbanIndex, Indicatori per le Politiche Urbane (elaborazione dati ISTAT 2011), accessibili su:
ISTAT (Istituto Nazionale di Statistica), Censimento della Popolazione e delle Abitazioni 2011, accessibile su:
http://dati-censimentopopolazione.istat.it/Index.aspx
Bibliografia
Cerami, G. (ed.) (1994). Progettazione urbana e processi decisionali. Napoli: il nuovo Centro Direzionale e il Piano di Zona di Ponticelli. Quaderno del Dipartimento di Conservazione dei Beni Architettonici ed Ambientali dell’Università degli Studi di Napoli. Napoli: Clean Edizioni.
Harvey, D. (2019 [2005]). Spaces of global capitalism: a theory of uneven geographical development. London and New York: Verso
Harvey, D. (2012). Rebel Cities: From the Right to the City to the Urban Revolution. London and New York: Verso.
Lefebvre, H. (2014 [1968]). Il diritto alla città. Verona: ombre corte.
Madanipour, A. (2013). Introduction. In Madanipour, A. (ed.), Whose public space?: International case studies in urban design and development, 1-15. London and New York: Routledge.
Mayer, M. (2010). Punishing the Poor—a debate: Some questions on Wacquant’s theorizing the neoliberal state. Theoretical Criminology, 14(1), 93- 103.
Mollenkopf, J. H., Castells, M. (eds.) (1991). Dual city: restructuring New York. New York: Russell Sage Foundation.
Sassen, S. (1991). The Global City: New York, London and Tokyo. Princeton: Princeton University Press.
Wacquant, L. (2008). Urban outcasts: A comparative sociology of advanced marginality. Cambridge (UK): Polity.