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MONDO

Quali misure di isolamento sociale sono state adottate a Cuba?

Quando si confrontano le misure adottate dai singoli paesi nell’affrontare la pandemia poche volte si guarda all’isola caraibica, che oggi ha poco più di 1000 positivi e 56 morti di Covid-19. Una cronologia di quello che è successo a La Habana e dintorni.

Queste non brevi osservazioni partono da una considerazione che a me sembra piuttosto scontata: a livello globale è in corso una pandemia, non una dittatura. Una situazione inedita e inimmaginabile – almeno per me – davanti alla quale è probabilmente necessario ripensare i nostri strumenti di analisi. Purtroppo, infatti,non è mai la realtà ad adattarsi agli schemi, ma sembra dover avvenire il contrario: il rischio è altrimenti quello della meccanicità scontata, dello schematico, del dogmatismo, della discesa nelle reciproche accuse moralistiche. Quasi nella religione, direi.

La polarizzazione più forte sembra essere, complice la stanchezza determinata dalla permanenza in casa da quasi due mesi, sull’utilità del lockdown e, in particolare, di un lockdown come quello italiano (rigido per i cittadini, molto meno rigido per le imprese).

 

Fermo restando che la scienza e la storia affermano che solo con l’isolamento e il distanziamento si frenano le epidemie, è talmente difficile dare una risposta che, forse, potremmo provare a smettere di porci la domanda: non siamo in un game book e non avremmo mai la controprova di cosa sarebbe successo se non fosse stato applicato nel modo in cui è stato applicato (in Italia o altrove).

 

Ha davvero poco senso, dal punto di vista analitico, anche fare paragoni tra paesi diversi e modelli differenti di lockdown: del resto, avrebbe poco senso anche fare paragoni tra la Lombardia e la Puglia (dove, al netto delle ordinanze regionali su aspetti minori, sono state applicate le stesse misure, con risultati statistici nel rapporto tra contagiati e morti sensibilmente diversi) e non si capisce, invece, secondo quale logica si potrebbero confrontare Italia (nel suo insieme) e Germania.

Chiaramente il paragone si potrebbe fare solo se tra i diversi paesi si fossero sviluppate le stesse modalità di contagio, ma sappiamo che non è così: in alcune aree si è rimasti fermi a una situazione di contagi provenienti dall’esterno; in altre si è passati a una catena di contagi autoctoni ma con un collegamento più o meno diretto e rintracciabile tra essi (la Puglia, per dire); in altre si arrivati alla diffusione epidemica e incontrollabile vera e propria (la Lombardia, appunto, anche in seguito alle decisioni politiche del suo governatore), con flussi continui di contagiati in ospedale. Qualsiasi paragone tra paesi – o tra sistemi sanitari, al netto delle criminali insufficienze dimostrate da quello italiano – che non tenga conto anche di ciò lascia il tempo che trova e può servire al massimo ad animare le discussioni sui social.

Per motivi che esulano dalla mia comprensione, però, in una discussione sterilmente polarizzata di suo, il dibattito sul confinamento sembra essere ancora più polarizzato tra quanti sostengono che un lockdown rigido – per quanto limitato dall’adesione ai desiderata padronali – sia stato utile e quanti affermano invece che, in tali forme, sia solo un attacco alla nostra libertà personale: i primi vengono accusati dai secondi di essere degli amanti del focolare domestico e/o dei privilegiati (pure laddove condividano un appartamento al sesto piano di un palazzo con altri due coinquilini più o meno sconosciuti fino al 9 marzo) e/o affetti da sindrome di Stoccolma, i secondi dai primi di essere gli utili idioti di Confindustria.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno

 

Ecco, al netto del fatto che ritengo che dare un giudizio netto sull’efficacia del lockdown sia più o meno come cercare di individuare il sesso degli angeli e per quanto mi senta assolutamente più nel primo schieramento che nel secondo (perché, appunto, siamo davanti a un’epidemia, non davanti a una dittatura), ho pensato che forse potrebbe essere interessante vedere come si pone rispetto al lockdown Cuba, cioè un governo socialista più interessato al benessere del popolo che al profitto del padronato.

In generale non sottovaluto il rischio che – in Italia e nel resto del mondo – misure come quelle di confinamento sociale in atto possano sfociare nell’autoritarismo o in una gestione (ancora più) repressiva e arbitraria dei rapporti tra Stato e cittadini: ma penso anche che tale battaglia politica debba essere svolta tenendo conto della gravità della malattia in oggetto (che non è poco più un’influenza) e della necessità, almeno perché si richiama a valori politici in contrasto con le logiche di mercato e con l’utilitarismo, di tutelare la salute e la vita (che non è mai solo nuda vita, come piacerebbe ad alcuni intellettuali) di tutti e di tutte.

Il caso di Cuba è poi esemplare anche per un altro motivo, visto l’entusiasmo – colmo di gratitudine e sincero, anche se talvolta parossistico e retorico– manifestato davanti all’arrivo dei medici cubani in Italia (entusiasmo che ha contagiato anche me, davanti al loro «patria para nosotros es la humanidad»). Per non trasformare questi medici e il loro sistema politico e sanitario in santini o in figurine, dunque, ritengo possa essere utile valutare anche le forme cubane di “isolamento sociale”. Sì, a Cuba lo chiamano così, anche se da noi tale espressione ha suscitato dibattiti.

 

Se vogliamo valutare gli “altri lockdown”perché non considerare il caso cubano? Perché chiederci se i parchi sono aperti in Germania (lo sono) e non se lo sono a Cuba (no, non lo sono)? Perché chiederci se in Francia si può correre a 300 metri da casa e non se si possa farlo a Cuba? Sono forse i modelli tedesco o francese quello a cui ci ispiriamo maggiormente?

 

Non ignoro ovviamente che Cuba abbia un sistema sanitario (oltre che fondato sulla solidarietà, universale e di altissimo livello) diverso, basato su una medicina territoriale capillare, organizzata su medici e infermieri (fondamentale in una pandemia per la diagnosi e la mappatura dei contatti), che in Italia invece è inesistente e non ha finora accompagnato il lockdown. Oppure che a Cuba sia stato creato un sistema basato su tre diversi tipi di strutture (centri di isolamento, centri di quarantena e ospedali) e che le strutture territoriali e i CDR (Comitati di difesa della rivoluzione) sono attivi nella distribuzione di pasti e informazioni, ecc.

Ma visto che da più parti il lockdown italiano è stato rappresentato come una “reclusione” (mancando tra l’altro di rispetto a chi è recluso davvero, in carcere o ai domiciliari, in un uso retorico del concetto di “reclusione” non diverso da quello che rappresenta come una “guerra” l’attuale condizione), mi concentrerò specificatamente sulle misure di isolamento sociale. Perché un conto è dire che il lockdown italiano è stato insufficiente, tardivo, confuso e troppo parziale, altro è fare il salto “logico” di affermare che, visto che è lo stato (e criticare su questo, giustamente, il governo), allora è stato eccessivo, troppo rigido, ecc.

L’avvertenza è chiaramente che non ogni misura del governo cubano è per me necessariamente giusta o valida o da replicare: gli inviti alla delazione e le denunce penali per chi va a correre con un bambino di 7 anni mi fanno orrore a ogni latitudine. Ritengo che ovunque con la repressione e con la coercizione si vada poco lontano se non c’è la convinzione. In questo caso, la convinzione di trovarsi davanti a una pandemia determinata da una malattia molto grave, molto infettiva e caratterizzata da un decorso che in una percentuale non irrisoria (per quanto non maggioritaria) di casi è lungo, difficile e non ha sempre un esito positivo.

 

Alla situazione attuale, comunque, è abbastanza indubbio che nonostante l’embargo che penalizza pesantemente il sistema sanitario cubano in materia di approvvigionamenti di materiale sanitario e grazie all’insieme di misure prese, Cuba si stia muovendo tra lo scenario medio e quello positivo dei loro modelli predittivi.

 

Al 27 aprile i positivi sono 1.389 con 56 morti (4,03%). Cardine di questo successo è, secondo il primo ministro cubano Marrero Cruz, l’isolamento sociale, definito come «la principale medicina per evitare il contagio e la malattia della popolazione».

Non si sa bene quante siano i posti letti in terapia intensiva a Cuba, in un sistema che ha 5,2 posti letto in ospedale ogni mille abitanti (in Italia sono 3,4): nell’annuario statistico del 2018 si parla di 110 sale (reparti?) di terapia intensiva e 120 aree intensive municipali, che però sono i corrispettivi dei pronto soccorso territoriali senza ospedale accluso. Complessi anche i confronti con il personale medico. In Italia esistono due specialità: Anestesia e Rianimazione (che include i medici di Terapia Intensiva) per un totale di 18-20.000 specialisti ed Emergenza-Urgenza, con almeno 6.500 specialisti; in totale si parla almeno 25-27.000 specialisti in queste due discipline. A Cuba intensivisti e urgentisti appartengono alla stessa specialità (con 1.859 medici “dedicados” – cioè che fanno questo come lavoro – e 1.006 specialisti in questa disciplina, che si occupano di altra disciplina medica), a cui si aggiungono gli anestesisti (1.965 e 1.473). Insomma, il totale cubano è circa di 6.500 specialisti in Anestesia e Rianimazione + Emergenza-Urgenza: proporzionalmente alla popolazione (il 18% di quella italiana, quasi 1/5), a Cuba sono quindi sensibilmente di più.

Il ministro della Salute cubana Portal Miranda a inizio epidemia ha affermato che per la Covid-19 erano disponibili 3.100 posti letto normali e 100 intensivi. Abbastanza incredibilmente, in Italia, il 20 febbraio 2020 (giorno in cui è emersa la positività di Paziente 1) non c’erano posti letti specificatamente dedicati alla Covid-19, nonostante i numeri cinesi già facessero presagire il peggio: i 5.090 posti letto in terapia intensiva (esclusa la terapia intensiva coronarica) sono impiegati solitamente almeno all’80%. I posti letti dedicati sono comunque stati aumentati, tanto a Cuba quanto in Italia.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno.

 

Cronologia delle misure di isolamento sociale a Cuba.

Questa cronologia è basata quasi esclusivamente su fonti del governo cubano: una scelta dalla volontà di descrivere esclusivamente la tipologia di misura adottate e non i loro effetti né le eventuali critiche che possono aversuscitato nella popolazione. In generale, comunque, l’approccio del governo cubano mi sembra abbastanza trasparente, almeno nei limiti in cui nessun governo lo è davvero fino in fondo. Il 5 marzo – giorno del primo comunicato sul sito della presidenza con tag Covid-19 – a Cuba non ci sono ancora casi.

Il governo cubano, quindi, decide di controllare solo gli accessi dall’estero, «con l’osservazione epidemiologica dei viaggiatori provenienti da paesi con focolai di Covid-19, con il rilevamento della temperatura, con l’isolamento, con l’individuazione dei casi sospetti e con il rinvio in strutture designate». In pratica, quello che si faceva in Italia quando controllavamo solo le persone provenienti dalla Cina. Tuttavia, visto che il mondo a questa data era già caduto nel baratro, il governo cubano prescrive intelligentemente anche di prestare particolare attenzione alle infezioni respiratorie, soprattutto nei pazienti ricoverati in ospedali, case della maternità, ospedali psichiatrici eresidenze per anziani.

Non ci sono ancora casi ufficiali, appunto, eppure il governo «senza allarmare» riferisce ogni giorno sulla Covid-19. In Italia, la stessa strategia era stata definita da più parti come “allarmismo dei media”. Il 6 marzo il presidente cubano Díaz-Canel afferma che «quando diciamo che non ci sono casi del nuovo coronavirus a Cuba, è esattamente così»: pochi giorni dopo si saprà che invece il virus già circolava. Le misure raccomandate sono quelle di “pulizia e igiene”, di rinuncia agli incontri di lavoro all’estero, di disinfestazione dei luoghi di lavoro. Si aggiunge che la capacità di posti letto in ospedale è di circa 3mila letti, che potrebbero non essere sufficienti in caso di epidemia.

I posti letti in terapia intensiva da destinarsi alla Covid-19, secondo il ministro Portal Miranda il 9 marzo, sono invece circa 100. L’approvvigionamento di mascherine viene identificato fin da subito come un problema anche per Cuba, soprattutto per il costo (2 dollari l’una sul mercato internazionale), quindi si invita la popolazione a farsele da soli e a disinfettarle per poterle utilizzare più volte, oltre che stimolare la produzione nazionale (che, in effetti, aumenta sensibilmente): le mascherine industriali, in questo modo, possono essere destinate al personale sanitario, mentre il resto della popolazione le può fare da sé, seguendo i tutorial sui siti governativi. Allo stesso modo, si autoproducono anche i disinfettanti per le mani e per le superfici – con diverse concentrazioni di ipoclorito di sodio (cioè di candeggina) – noti in Italia col nome commerciale di Amuchina.

L’uso diffuso delle mascherine, a questo punto, mi sembra già essere raccomandato: ma mi sembra di capire che a Cuba lo sia anche per il raffreddore e l’influenza stagionale. Nei giorni successivi diventerà così consigliato – almeno sui mezzi pubblici, poi anche in strada – da diventare nei fatti obbligatorio.

 

L’11 marzo il ministero della salute cubano emana per la prima volta una nota sulla Covid-19: 4 turisti italiani sono stati trovati positivi e i loro contatti vengono isolati.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno.

 

Da allora, come in Italia, i bollettini del Ministero della salute cubano sono più o meno quotidiani, per diventare poi davvero quotidiani quando lo diventeranno anche i nuovi contagi. Il 12 marzo si identifica un altro caso: un cubano sposato con una boliviana che vive a Milano e che è arrivato a Cuba il 24 febbraio, manifestando i primi sintomi il 27 febbraio. Nonostante le rassicurazioni precedenti, quindi, la Covid-19 a inizio marzo c’era già ed era sfuggito alla sorveglianza anche a Cuba: il governo ne dà atto con onestà e trasparenza.

Già il 14 marzo, comunque, il governo cubano invita la popolazione a essere “responsabile” e a «evitare le attività in luoghi affollati»: sono, come era già avvenuto in Italia, i giorni degli inviti a “stare a casa” senza che ciò assuma la forma di misure stabilite per legge. Per quanto riguarda l’organizzazione delle cure mediche, intanto, si comunica che sono stati abilitati 1.442 posti letto in 11 ospedali e 867 in 10 centri di isolamento. Inoltre, 175 ambulanze erano state assegnate al trasporto di pazienti sospetti o confermati, con un’équipe preparata per la gestione di questi casi.

Il 16 marzo è annunciata la positività di un altro cubano, di ritorno dalla Spagna: i sintomi sono iniziati l’11 marzo. Intanto, viene ventilato artificialmente uno degli italiani positivi (morirà poi il 18 marzo). Nello stesso giorno, il governo cubano annuncia che tutte le persone in entrata negli aeroporti internazionali sono già testati col termoscanner, anche se non se ne accorgono.

Il 17 marzo, i casi a Cuba sono solo 7 e tutti di importazione più o meno diretta, ma Díaz-Canel annuncia la decisione di «sospendere, rinviare o eseguire in forma ridotta tutte le commemorazioni di eventi storici, sia a livello nazionale che territoriale» e ribadisce il divieto di organizzare eventi culturali e sportivi che comportino l’affollamento di persone, nonché di limitare gli incontri nei “grandi auditorium”. I casi a Cuba, ripeto, sono allora solo 7, ma a nessuno viene in mente di blaterare che #Cubanonsiferma.

 

Già il 18 marzo, quando i casi sono ancora solo 11 (tutti legati a cittadini provenienti dall’estero), il governo cubano invita a passare al telelavoro ovunque possibile. Il 19 marzo i casi sono diventati 16, il 23 marzo sono 48: si inizia a crescere.

 

Il 20 marzo il presidente cubano fa notare come il rapido aumento del numero dei malati abbia fatto ovunque crollare i sistemi sanitari e annuncia nuove misure in materia di commercio, ristorazione, trasporti, lavoro, salari, sicurezza sociale, adeguamenti fiscali. Viene quindi chiesto di limitare le relazioni sociali e i contatti e di sopprimere effusioni, baci e abbracci, di passare ove possibile al telelavoro, di limitare i viaggi e gli spostamenti, di cancellare gli appuntamenti sociali e di uscire solo a comprare cibo: al momento si tratta di inviti a tenere un comportamento “responsabile”, non si tratta ancora di divieti veri e propri. Il 20 marzo è venerdì: si annuncia che dal martedì successivo (il 24 marzo) gli stranieri non sarebbero più potuti entrare nel paese.

Cuba è uno dei primi paesi che chiude al turismo nonostante il numero ancora limitato di casi e nonostante si tratti di una risorsa fondamentale per la sua economia: nella miope contrapposizione tra “morire di Covid-19” e “morire di fame”, che pure è stata sollevata anche da alcuni militanti politici in Italia, Cuba non ha troppi dubbi. Inoltre per la ristorazione si richiedono riduzione del servizio del 50% e due metri di distanza tra i tavoli e si chiede di evitare le attività che provocano assembramenti come teatri, cinema, ecc. Infine, vengono chiusi i locali notturni, bar, discoteche e tutte le attività ricreative in cui si concentrano molte persone.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno.

 

Tuttavia la popolazione non sembra recepire immediatamente tali indicazioni e il 23 marzo Díaz-Canel ribadisce che bisogna evitare assembramenti e uscire di casa solo per necessità inderogabili e urgenti, che le attività sociali e familiari devono essere soppresse, che le file nei mercati devono essere ordinate e distanziate e, in breve, che tutte le misure devono essere rispettate. Inoltre Díaz-Canel lamenta che nel weekend precedente si vedevano ancora troppe persone in strada e compiere attività non consentite, sottolineando l’importanza della polizia per far rispettare la necessità di distanza e ordine. Nuove decisioni sono annunciate: vengono chiuse scuole e università e le lezioni scolastiche vengono sostituite con trasmissioni televisive (teledidattica anche qui…).

Chiusi anche i centri sociali e culturali e i teatri. Si obbligano tutte le attività commerciali a garantire la distanza di un metro tra i clienti (se non ci riescono, devono chiudere) e la stessa distanza è richiesta anche negli edifici religiosi; si vietano le visite dei parenti in ospedale, le riunioni di lavoro e gli eventi sportivi sia pubblici sia privati.

 

Scuole e università vengono chiuse per un mese (poi prolungato) e si chiede esplicitamente di tenere i bambini e i ragazzi a casa: in caso contrario, le misure di isolamento sociale sarebbero fallite, dichiara il governo. Tuttavia, al momento viene garantita l’apertura dei circoli per l’infanzia (asili per i bambini in età prescolare) per i figli delle donne che non hanno cessato di andare al lavoro.

 

Alle madri che tengono i figli a casa, invece,viene concesso un bonus pari al 100% del salario il primo mese, al 60% in seguito. Vengono vietati gli spostamenti tra le province (in pullman, treno, aereo ma anche sui mezzi privati), dopo che il precedente invito a farlo non era stato rispettato dalla popolazione. I turisti vengono bloccati negli hotel, le visite turistiche sospese. Le piscine e le palestre vengono chiuse.

Le misure sono numerose e il 23 vengono riassunte in un unico documento, in cui si afferma tra l’altro che in alcune strutture ospedaliere viene sospesa l’attività elettiva differibile.

Il 25 marzo Díaz-Canelribadisce che il fatto che le scuole siano chiuse non significa che i bambini e i ragazzi possano stare in strada e che, anzi, devono stare in casa e aggiunge che è il tempo di sperimentare modi diversi di svolgere le attività, come il telelavoro. Nello stesso giorno il presidente lamenta che all’Avana ci sono ancora troppe persone in strada, accusandole di non avere ancora capito la situazione e il pericolo di una pandemia. Alla luce di questa situazione,si decide di chiudere tutte le attività che non forniscano beni o servizi essenziali perché è giunto il tempo, dice Díaz-Canel, di «isolarsi socialmente».

Sempre il 26 marzo, il presidente cubano invita a tenere presente la responsabilità che ciascun cittadino ha verso qualsiasi altro, aggiungendo che, per questo, i bambini e giovani non devono stare per strada perché rischiano – anche se apparentemente sani – di contagiare e far ammalare i loro genitori e i loro nonni, perché questo non è il momento per divertirsi come al solito e ma quello di avere «responsabilità sociale». «Cada uno, dependemos de todos» è lo slogan usato.

In questo contesto, Díaz-Canel arriva a invitare la popolazione a denunciare telefonicamente le “irregolarità” che si vedono nelle strade, soprattutto legate a piccoli commerci, anche di generi alimentari, non consentiti dalle misure in vigore (un po’ come lezeppole e le pastiere di De Luca…). Questo invito viene accolto e, secondo la Polizia, solo all’Avana, tra il 23 marzo e il 3 aprile, si contano 1.124 telefonate che denunciano assembramenti di persone in strada.

Il 27 marzo i casi sono 80 e il presidente chiede di uscire di casa il meno possibile nel weekend, che solo uno o due membri per famiglia escano per le attività fondamentali e che lo facciano mantenendo le distanze e rispettando l’ordine, perché il rischio è che «non avremo risorse per soddisfare tutte le necessità». Le persone che incitano a rispettare le misure e che invocano, in nome “della disciplina e della responsabilità”, l’intervento della polizia e l’applicazione “severa” della legge contro chi non lo fa sono definite “responsabili”: quel che serve, si dice, sono disciplina e comprensione. In questo ordine.

L’applauso alla finestra in Italia ci – o almeno a me – ha fatto provare riso e rabbia, ma si fa anche a Cuba: il 30 marzo si fa per la prima volta l’applauso in televisione per i medici e diventa consuetudine nei giorni successivi.

In ogni intervento governativo viene ribadita la necessità di restare a casa e sospendere tutte le attività non essenziali e si chiede alla polizia rivoluzionaria di essere sempre più esigente nel pretendere un comportamento “appropriato” da parte della popolazione. Il 1° aprile il concetto viene ribadito, con riferimento alla volontà di rispettare la richiesta delle persone che scrivono denunciando al sito web della polizia di comportamenti scorretti, che vanno dal giocare a domino per strada o stare di notte nei luoghi pubblici senza necessità: insomma, il runner italiano è il giocatore di domino cubano.

 

Come negli altri paesi, gli effetti di queste misure non sono immediati e i casi continuano a crescere (sono ancora in crescita a oggi). Il 29 marzo i casi sono 139, il 31 marzo 186 (con 2.322 tamponi), il 1° aprile 212 (2.766 tamponi).

 

 

Foto di Gianluigi Gurgigno.

 

 

Il 6 aprile i positivi sono 350 (5.998 i tamponi e molti di più i test rapidi, che in Italia non sono usati perché considerati poco affidabili). Tra le indicazioni governative di quel giorno c’è l’indicazione di potenziare gli acquisti elettronici e la consegna a domicilio della spesa: la piattaforma dedicata, tuenvio.cu, riceve circa 20.000 ordini al giorno e la popolazione cubana si è più volte lamentata che non regge tale mole di traffico, crashando di continuo come un sito dell’Inps qualunque.

Lo stesso 6 aprile si diffonde in rete un video che mostra una madre che corre con un figlio all’Avana e che viene fermata dalla polizia: la donna afferma che il figlio ha una diagnosi per iperattività e ha bisogno di correre e invita le forze dell’ordine a spiegarle quale legge stesse violando, visto che non era ufficialmente vietato uscire per strada. La Polizia nazionale rivoluzionaria emette allora un comunicato in cui spiega che la donna è stata denunciata per il reato di disobbedienza e messa ai domiciliari in attesa di giudizio.

Il 7 aprile la ristorazione viene limitata all’asporto, si riduce la capienza negli autobus per garantire un adeguato distanziamento tra i passeggeri e si decide di effettuare un censimento delle attività produttive per capire quali lasciare aperte. Viene quindi ribadita ancora una volta l’irresponsabilità di chi mette in atto comportamenti scorretti che «mettono a repentaglio le vite delle persone», come chi ha organizzato una festa a Florencia che avrebbe determinato a 12 contagi.

L’8 aprile vengono confermate le nuove misure sulla chiusura di caffetterie e ristoranti per «aumentare l’isolamento sociale, che costituisce la principale medicina per evitare il contagio e la malattia della popolazione», come dice Díaz-Canel ribadendo l’importanza del sacrificio personale e sociale e descrivendolo come una cosa bella alla luce della necessità di salvare vite umane, considerate il bene più prezioso. Quella che qualcuno potrebbe definire come “nuda vita”.

Si ripete, inoltre, che si deve uscire in strada solo per attività essenziali e che solo un numero minimo di membri del nucleo familiare può farlo, colpevolizzando i comportamenti “inappropriati” della popolazione che senza necessità frequenta i luoghi pubblici o si reca nelle strade per giocare a domino o svolgere altre attività ricreative oppure usa i mezzi pubblici senza mascherine. In particolare, Díaz-Canel annuncia che la polizia sarebbe passata «dalla persuasione a un’azione più rigorosa» contro coloro che vengono definiti «irresponsabili».

 

Il 9 aprile Díaz-Canel ribadisce gli stessi concetti, lamentando che le persone continuano a uscire in strada per giocare a domino o per passeggiare, o per chiacchierare o anche per fare feste: questa è «irresponsabilità e non possiamo usare un altro termine».

 

A questo punto, dopo un mese, e solo a questo punto, a Cuba si decide la chiusura dei grandi centri commerciali e il blocco del trasporto pubblico per fermare la mobilità delle persone. È molto significativo, perché invece in Italia gli ambienti militanti hanno invece chiesto la chiusura dei centri commerciali da subito: non l’ha fatto subito il governo italiano e non l’ha fatto subito neanche il governo cubano.

Intanto, il 9 aprile, Eddy Sierra Arias, vicecomandante della Polizia nazionale rivoluzionaria (PNR) afferma alla trasmissione Hacemos Cuba che sono state controllate in strada circa 36mila persone e che, in effetti, una certa percentuale aveva violato le norme: 3.512 persone sono state multate, 2.051 “denunciate” (apercibidos), 679 “ammonite”(advertidos) e 16 – probabilmente si tratta di senzatetto – inviate (remitidos) ai centri di “protezione sociale” (in questo caso ignoro se si tratti di una misura costrittiva o di libera scelta).

 

Foto di Gianluigi Gurgigno.

 

 

Tra i multati ci sono coloro che girano per strada senza mascherina, o la utilizzano in modo improprio, coloro che si concentrano senza motivo nei luoghi pubblici e coloro compiono altre azioni che possono contribuire a diffondere il contagio. I reati contestati sono diffusione dell’epidemia, attività economica illegale, accaparramento, disobbedienza, disprezzo, aggressioni e resistenza alle forze dell’ordine. Per quanto riguarda il reato di diffusione delle epidemie, il Codice Penale cubano afferma che chi viola le disposizioni delle autorità sanitarie per la prevenzione e il controllo delle malattie trasmissibili incorre in una punizione di privazione della libertà per un periodo da tre mesi a un anno, o una multa da cento a trecento cuotas o entrambi.

Una parentesi, a proposito dell’attività repressiva delle persone trovate in strada senza giustificato motivo, andrebbe aperta circa i senzatetto. A Cuba esistono i Centros de protección social che forniscono alloggio e possibilità di lavarsi e cambiarsi alle persone senza fissa dimora. Chiaramente, durante l’emergenza Covid-19, hanno intensificato la loro attività, garantendo anche cure mediche (ogni centro ha medici e infermieri) e spazi per un eventuale isolamento. Personale e ospiti devono indossare obbligatoriamente le mascherine: tuttavia, proprio le misure anti-Covid hanno comportato il divieto di far entrare estranei, compresi i familiari degli ospiti.

 

L’11 aprile i positivi sono diventati 620 (i tamponi 13.162), il 16 aprile 862 (i tamponi 21.837).

 

Il 16 aprile il vicecapo della Polizia interviene nuovamente in televisione a Hacemos Cuba e, durante la trasmissione, gli viene chiesto conto della necessità di denunce da parte della popolazione per identificare la violazione delle restrizioni e della richiesta di aumento delle pene per esse e di maggiore presenza della polizia nei luoghi più remoti e di notte. Per quanto riguarda l’aumento delle sanzioni richiesto – a quanto si dice – dalla popolazione, Sierra Arias ha affermato che non indossare la mascherina per strada comporta il fermo e la traduzione alla stazione di polizia, oltre che una possibile denuncia per il reato di diffusione di epidemie o disobbedienza, che può avere un esito penale (processo) o amministrativo (multe elevate).

Il 18 aprile Díaz-Canelfa di nuovo appello alla responsabilità individuale: è un fattore fondamentale, secondo lui, il modo in cui ciascuno di noi agisce per salvare vite umane perché basta che una sola persona, anche se la maggior parte si comporta in modo responsabile, faccia un errore per avere un riflesso su tutto e vanificare gli sforzi di tutti.

 

Neanche Cuba è esente dall’ammalarsi dei medici: al 17 aprile, secondo il ministro della Salute, sono risultati positivi 92 operatori sanitari su 923 casi: il 10% netto.

 

Allo stesso modo, nonostante le precauzioni prese fin dall’inizio, il virus entra almeno in una residenza per anziani e colpisce un gruppo di anziani e di operatori di un Hogar de Ancianosa Santa Clara, che il diventa uno dei focolai di Covid-19 a Cuba. Ma il governo cubano non lo nasconde. In particolare il 20 aprile si fornisce una stima precisa: in questo ospizio, i positivi sono 57, tra anziani ospiti e lavoratori e, tra essi, gli anziani sono 44 (su 129 ospiti della struttura).

Il 16 aprile viene presentata una app con cui i cittadini cubani possono direttamente procedere all’autodiagnosi e all’autosegnalazione, oltre che ricevere informazioni: l’app manda le informazioni raccolte al policlinico, che contatta i pazienti (mi sembra molto simile a LaziodrCOVID, per chi ha avuto il piacere di conoscerla…). Tuttavia, come verrà segnalato qualche giorno dopo dal governo, diverse centinaia di persone (587 persone su oltre 11mila) hanno fornito su tale app indicazioni false, comunicando nomi scorretti o dando recapiti inesistenti: il ministro della Salute Portal Miranda ha a questo punto minacciato sanzioni penali per chi si comportava in tal modo.

Il 20 aprile i positivi diventano 1.087 (i tamponi 28.598). Il 21 aprile Díaz-Canel annuncia punizioni più severe per quanti si ostinano a non rispettare le misure e la condanna a chi continua ad uscire senza motivo o a camminare nei parchi (vietato sia passeggiarci sia sedersi sulle panchine) o per strada: ribadisce che una sola persona a famiglia può uscire per recarsi nei luoghi che offrono servizi per la popolazione e che chiunque non rispetti questa misura deve essere rimandato a casa perché non rispetta il regime di “isolamento sociale”: contro di essi viene richiesto un maggiore rigore.

 

Al 27 aprile i positivi sono 1.389con 51 morti (4,03%) e 41.651 tamponi. Secondo il governo cubano il picco non è stato ancora raggiunto e il miglioramento della situazione è previsto per la fine di maggio.

 

Intanto si sta preparando il 1° Maggio, festa fondamentale per chiunque, nel mondo, si rifaccia politicamente a esperienze rivoluzionarie e alla storia del movimento operaio: il ministero dell’Interno cubano lo ha annunciato come un Primo Maggio che rafforzerà l’isolamento sociale. Le case, dicono, saranno il palcoscenico principale del festeggiamento del 1° Maggio, sfruttando le potenzialità dei social network e del “virtuale”.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno, L’Avana, Cuba 2017.