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EUROPA
Putin, un “rossobruno postmoderno”? Su Limonov, Dugin e il nazionalbolscevismo
Intervistiamo il ricercatore Fabrizio Fenghi sulle complesse vicende dell’ideologia nazional-bolscevica ed euroasiatica in Russia, da alcuni considerata molto rilevante per comprendere la guerra in corso
Con l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin, e ancor prima con il discorso che la giustificava e ne enumerava le ragioni dal suo punto di vista, è tornata alla ribalta la figura del filosofo e politico russo Aleksandr Dugin. Fondatore assieme a Eduard Limonov del partito nazional-bolscevico, autore di numerosi testi sul ruolo della Russia nel mondo e sullo scenario internazionale (tra cui La quarta teoria politica), fautore del concetto di “euroasiatismo” e di una rivitalizzazione di sentimenti imperiali all’interno della Federazione, da alcuni viene considerato l’ideologo dietro alla decisione da parte del Cremlino di attaccare la vicina repubblica. Certo è che alcuni dei termini da lui coniati (come quello di “Nuova Russia” per indicare le repubbliche del Donbass) sono stati ripresi e utilizzati da Putin e che alcuni dei concetti da lui elaborati, e fatti circolare soprattutto sul web, risuonino dietro alcune delle parole del presidente russo.
Ma la storia di Dugin, Limonov e del “nazional-bolscevismo” russo è una storia articolata e complessa, che interessa e chiama in causa anche tante realtà politiche dell’Europa occidentale. Non è un segreto che il primo sia stato lungamente in contatto con l’estrema destra nostrana di CasaPound, per esempio. Allo stesso modo, il secondo ha assorbito alcune tendenze politiche anche dagli ambienti del rosso-brunismo francese degli anni ‘90. Abbiamo provato a districare questi nodi e queste contraddizioni con il ricercatore e studioso Fabrizio Fenghi, autore del libro sul nazionalismo nella Russia post-sovietica It Will Be Fun and Terrifying.
Come definiresti il nazionalbolscevismo?
C’è una definizione “storica” del concetto di nazionalbolscevismo, che rimanda agli anni ‘20 e ‘30 del secolo scorso e che assunse diverse forme: dalla “sinistra” del partito nazista in Germania in cui erano attivi personaggi come Ernst Niekisch, che teorizzava la possibilità di un’alleanza con l’Unione Sovietica, a Nikolay Ustryalov in Russia e ad altri intellettuali dell’emigrazione vicini al concetto di euroasismo (tutti intellettuali in qualche modo anti-comunisti e anti-sovietici), che a un certo punto elaborarono l’idea di un supporto all’Unione Sovietica che si basasse però su un sentimento nazionale e un radicamento nell’identità ortodossa. Ma ci sono stati anche storici che hanno parlato dello stalinismo stesso come una possibile forma di nazionalbolscevismo.
Ma, al di là di questa contestualizzazione storica (qui succintamente descritta), il nazionalbolscevismo che dal mio punto di vista ha avuto una maggiore influenza nella costituzione dello spazio pubblico e del dibattito pubblico nella Russia contemporanea è quello che inizia negli anni ’90 e che ha un precedente in Francia in una coalizione politica che già allora si definiva “rossobruna”. Una coalizione basata sull’idea che la sinistra francese si fosse ormai completamente imborghesita e fosse divenuta parte del sistema e che per questo necessitava una sorta di rivitalizzazione del suo potenziale di protesta e dissenso. In quel momento, lo scrittore Eduard Limonov era in Francia ed era attivo in questa coalizione prima di far ritorno in Russia.
Qui, nella Federazione Russa, il fenomeno del nazionalbolscevismo inizia attorno al 93-94, appena dopo la crisi parlamentare che si è prodotta in “resistenza” alla cosidetta “shock terapy” neoliberista promossa da Eltsin. A partire da questi eventi nasce dunque una coalizione “rossobruna”, nella misura in cui in quel momento il dissenso al potere era sostanzialmente composto da comunisti radicali, anarchici o comunisti nostalgici (per così dire), o nazionalisti di vario genere (anche di estrema destra). E nasce secondo due direttrici: da un lato, appunto, come radicalizzazione di questa resistenza alle riforme neoliberali, dall’altro anche come riappropriazione del termine “rossobruno” stesso che era considerato dispregiativo (nei media mainstream russi degli anni ’90 infatti molto spesso si bollava ogni dissenso indicandolo con termini come “piaga” o “peste rossobruna”).
(Eduard Limonov)
Che ruolo giocano in quel momento Limonov e Dugin?
È appunto in un tale contesto che si incontrano Limonov – stravagante scrittore dell’emigrazione che è tornato in patria che è passato dall’essere un anti-capitalista di sinistra negli anni ’70 a New York all’essere un esponente della controcultura e dell’underground russo, transitando in mezzo per Parigi – e Dugin – strano personaggio che, per come lo descriveva Limonov stesso, è una specie di “Cirillo e Metodio” del fascismo russo e che viene anche lui da ambienti della controcultura, avendo fatto parte negli anni ’70 del circolo dello scrittore postmoderno Yuri Mamleev. Insieme decidono di creare un partito che sia un misto dell’estrema destra e dell’estrema sinistra, che fa propri alcuni elementi di stampo controculturale, punk e giovanile (celebrando allo stesso tempo realtà come le Brigate Rosse o il fascismo di Mussolini) tanto che inizialmente si tratta di una forza che si inserisce nella vita politica con modalità soprattutto creative e, appunto, controculturali. In seguito, verso la fine degli anni ’90, diventa un movimento più radicato sul territorio che include una base più diversificata, che può includere tanto punk e radicali di sinistra quanto skinheads e radicali di destra (in particolare nelle periferie) e che quindi possiede diverse identità.
Dopo si verifica un maldestro tentativo, da parte di Limonov e altri, di trasformare questo movimento in un’organizzazione militare e di organizzare una ribellione armata nel Kazakhstan (attorno al 99-2000) che finisce con l’arresto dello stesso Limonov. Più o meno parallelamente, Dugin lascia il partito per trasformarsi in una figura maggiormente parte del sistema costituito: diventa un sostenitore ardente del governo di Putin e di un ritorno all’imperialismo, vale dire a favore di una ricostituzione del progetto imperiale sovietico e in un certo senso anche pre-sovietico. Si verifica dunque una biforcazione all’inizio degli anni 2000: Dugin e i suoi “scismatici” diventano una sorta di corrente di destra del nazionalbolscevismo, ferventi sostenitori di Putin e con delle connessioni anche istituzionali a livello del ministero della difesa e del governo russo (ma comunque con una visione del putinismo virata verso l’imperialismo estremo, soprattutto ispirato a filosofi nazionalisti degli anni ’20) formando una sorta di “partito euroasiatico”. Limonov e i suoi seguaci, dal canto loro (che a questo punto si trovano in uno stato di “illegalità”, visto che il partito viene messo fuori legge dalle autorità russe), per una quindicina d’anni si trasformano in una sorta di “avanguardia di strada” dell’opposizione liberale contro Putin e si iniziano, paradossalmente, a focalizzare su idee quali i diritti civili, la libertà di assemblea e di parola, ecc.
Il tutto partendo dall’idea, di fatto piuttosto conscia, che il partito nazionalbolscevico fosse un partito nella sua essenza “rivoluzionario” e che siccome il potere costituto, nella figura di Putin, si era convertito a un’idea di impero e di conservatorismo, ecco che per coerenza strutturale loro avrebbero dovuto prendere la posizione opposta. Si forma così la coalizione “L’altra Russia” con Kasparov e altri—ed ecco che i nazionalbolscevichi diventano famosi come performer di strada, attuando azioni di protesta come l’occupazione di istituzioni pubbliche, l’ufficio della presidenza o del ministero della saluto manifestando contro problemi quali la diseguaglianza sociale e simili. Diventano anche molto visibili nei media.
Concentrandoci su Dugin, su quali basi si forma l’attrazione verso Putin? Ma soprattutto: è un’attrazione ricambiata?
Dugin e Putin sono due figure non sempre allineate e le cui reciproche influenze hanno una dinamica complessa. Se esiste un’influenza di Dugin sulla politica putiniana è di stampo indiretto. Esistono delle relazioni concrete, visto che anche grazie alla propria provenienza famigliare, Dugin ha avuto contatti con persone interne ai ministeri (nei cosiddetti ministeri forti, soprattutto al ministero della difesa). Ci sono dunque stati momenti in cui Dugin ha avuto il potere di esercitare un’influenza politica in maniera più diretta: ne è un esempio il caso del suo libro Fondamenti della geopolitica, che è stato adottato come libro di testo per alcune scuole militari in Russia o, più recentemente, con la sua collaborazione con l’oligarca Malofeev che ha in qualche modo supportato e finanziato il partito euroasiatico.
Dal mio punto di vista, però, credo che l’influenza sul pensiero di Putin sia un tipo di influenza soprattutto indiretta. Il braccio destro di Dugin, Valery Korovin, nel corso di un’intervista che ho condotto con lui per il mio lavoro di ricerca mi ha così sintetizzato la questione (uso una parafrasi): «L’influenza più diretta che abbiamo sul Cremlino è data dal nostro predominio di Internet. Succede che qualche burocrate dice al proprio sottoposto di andare a cercare qualcosa sull’eurasiatismo e di rubarlo. Questo sottoposto cerca su internet, trova praticamente solo cose nostre e se le prende per il discorsi del presidente». Dugin e gli euroasiatici, che sono stati molto pioneristici in questo senso, hanno infatti creato una miriade di siti dedicati alle loro teorie e ideologia. Questo lo si evince bene dal fatto che se si prova a fare una ricerca del termine “eurasia” sui vari motori di ricerca russi, all’incirca i primi trenta risultati provengono tutti da siti creati da Dugin e il suo movimento. Ora, il braccio destro di Dugin sosteneva sostanzialmente che stralci di discorsi e idee contenuti su questi siti venivano spesso ripresi nei discorsi di Putin magari per la sciatteria e inesperienza dei vari assistenti.
(Aleksandr Dugin,)
Insomma, questo per dire che il cosiddetto “movimento euroasiatico” – in tutte le sue diverse incarnazioni – ha avuto sempre scarsa presenza sul territorio ma anche dal punto di vista istituzionale è rimasto sempre ai margini della politica di massa. Ciò detto, storicamente parlando, la politica putiniana e l’ideologia putiniana sono state molto opportunistiche nel captare e appropriarsi di tendenze che fiutavano essere “nell’aria”. Hanno assorbito in maniera molto fluida idee e concetti che potessero tornarle utili. In questo senso, penso che Dugin sia stato utilizzato da Putin e i suoi, in diversi momenti di congiuntura e a seconda del momento politico, per diversi scopi. Qualcosa di differente forse dall’eminenza grigia della politica putiniana Vladislav Surkov, fondare del movimento pro-Putin “Nashi” (di stampo più neoliberale) a cui però ha partecipato lo stesso Dugin. Questo per dire, in definitiva, che la questione delle influenze dell’ideologo “rossobruno” ed euroasiatico sulla politica istituzionale russa e nella cultura di messa russa non è lineare. Si può forse riassumere dicendo che Dugin ha costruito e “testato” sul campo idee molto radicali che sono state poi riassorbite da altri movimenti e realtà che le hanno rielaborate in una forma più “digeribile” per il mainstream. Il movimento “Nashi” stesso può essere letta come una versione più di massa della “gioventù euroasiatica.” Oppure pensiamo al termine “Nuova Russia”, utilizzato per la prima volta sui media da Dugin e poi impiegato per indicare le repubbliche di Lugansk e Donetsk.
Per non parlare della “denazificazione” addotta da Putin a motivo dell’invasione…
Sì, Putin ha preso come pretesto per l’invasione, demagogicamente, la presenza nelle proteste di Euromaidan e poi successivamente nella società e nell’esercito ucraino di forze di estrema destra. È interessante considerare questa affermazione nel contesto della Russia post-sovietica in cui l’eredità del “nazismo” (non tanto del fascismo, che non rappresenta un riferimento così conosciuto a livello di massa) e l’evocazione della resistenza alla Germania di Hitler vengono utilizzate per diversi scopi. Intanto, va rivelato come già al tempo della “Rivoluzione Arancione” del 2004 in Ucraina si diffuse all’interno della cerchia di Putin e in particolare per Surkov un certo timore, tanto che si iniziò a dire che fosse necessario resistere alla “peste” o “piaga arancione” (stessi termini utilizzati peraltro per il rossobrunismo, come accennavamo in precedenza) e questo sforzo si coagulò attorno al già citato movimento “Nashi” (che nella sua dicitura officiale si presenta appunto come “movimento antifascista” evocando la resistenza al nazifascismo della Grande Guerra Patriottica, fortemente voluto e finanziato da Putin e con dei tratti molto “reazionari” e militareschi e proprio per questo chiamati, ironicamente, “fashisti” dai loro oppositori oppure “Putinjugend” per la loro assonanza di atteggiamento e stile con la Hitlerjugend). Ora, in quegli anni Nashi si è concentrato sulla persecuzione (anche in forma di scontri violenti di piazza) degli oppositori a Putin tra cui gli stessi nazional-bolscevichi, dai quali però mutuano certe estetiche e questa fascinazione per il richiamo ai momenti più totalitaristici della storia sovietica, presentandosi però, in sostanza, come “antifascisti” e tentando di occupare il loro stesso spazio politico.
Lo dico per sottolineare che, nel complesso quadro della Russia post-sovietica, presentarsi come anti-fascisti o accusare i propri avversari di fascismo è l’atto per eccellenza che serve a “disqualificare” qualcuno o qualcosa. Così, in seguito a Euromaidan – facendo leva sulla complessa storia dell’Ucraina al tempo dell’occupazione nazista – Putin ha iniziato a bollare i governi della vicina repubblica con questo termine, mentre internamente prima chiamava “liberal-nazisti” Limonov e gli altri membri della coalizione “L’altra Russia” (Kasparov, Kasianov, ecc). Insomma, si tratta di una parola che da oltre vent’anni viene utilizzata da più parti in maniera altamente demagogica e strumentale. Nel caso dell’invasione dell’Ucraina, penso che Putin volesse sostanzialmente alimentare una visione binaria della storia di quanto stava accadendo. Interessante rilevare che questa strategia nel 2014 aveva sostanzialmente funzionato: in quel caso, i sondaggi (a cui va forse fatta una tara, ma che io reputo in quel caso nel complesso attendibili) indicavano un grande rialzo nel sostegno a Putin e una forte polarizzazione del dibattito interno attorno alle dicotomia pro-Russia o pro-Ucraina.
(manifestazione del partito nazionalbolscevico in Russia nel 2006, foto di Michel Psalti)
Che tipo di influenza ha avuto e ha invece il “rossobrunismo” nella società? Non solo in Russia, ma anche in altri paesi…
È difficile da dire con certezza. Basandomi sulle mie ricerche e sulle mie impressioni, ti direi che la figura di Dugin in Russia non sia molto popolare, anzi. Sicuramente, rispetto a 7-8 anni fa, ci sono più persone che lo conoscono e che ne hanno sentito parlare ma in generale direi che “il russo medio” probabilmente non sa di chi si tratti o ne ha solo una vaga conoscenza, e comunque la sua ideologia tendenzialmente non fa presa sulle persone a un livello di massa. Nemmeno nei momenti in cui Dugin ha provato scientemente a creare egemonia, pure in modi aggressivi (penso alla “Marcia russa”, mobilitazione dominata dall’estrema destra di cui Dugin ha provato a mettersi a capo a metà degli anni 2000, fallendo completamente).
Insomma, penso che il rossobrunismo non sia un fenomeno che di per sé esiste in misura rilevante nella cultura di massa russa. Ci sono degli elementi che, come accennavo prima, sono entrati a far parte del discorso comune passando però un processo di rielaborazione di lunga durata. E questo ha a che fare appunto con una massiccia circolazione di queste idee che si è verificata negli ultimi anni in special modo online, sia in Russia che fuori dalla Russia, e che potremmo leggere come una reazione populistica di stampo estremo alle politiche neoliberistiche e a un’idea di “fine della storia” à la Fukuyama. Il concetto di populismo (che ovviamente va preso con le pinze e usato con cautela) ci dice però di un elemento interessante, anche riguardo alle affinità fra Putin e Dugin: entrambi hanno un atteggiamento in tutto e per tutto “postmoderno”, nel senso della capacità di assorbire e mescolare temi, autori e concetti con genealogie politiche radicalmente differenti fra loro (faccio un esempio: nel “calderone” elaborato da Dugin rientrano tanto Gramsci e Negri-Hardt quanto Julius Evola e la cultura di estrema destra francese).
In questo senso è opportuno rilevare come il Dugin “degli inizi” si ispiri in maniera massiccia ad Alain De Benoist: uno dei primi sostenitori della necessità di appropriazione delle idee gramsciane da parte della nuova destra. Il paradosso quindi è che Dugin, nel suo nazionalismo estremo, è di fatto un “nazionalista cosmopolita” dal momento che la sua ideologia risulta principalmente ispirata dalla nuova destra francese à la De Benoist e dal conservatorismo rivoluzionario del ventennio e, al tempo stesso, dall’eurasismo. Quindi se vogliamo trattare il tema dell’influenza del pensiero di Dugin sul populismo europeo-occidentale e americano (nello specifico, l’alt-right) è bene rilevare che c’è una sorta di “doppio movimento”: da una parte, Dugin assorbe e prende tante idee dall’esterno, riciclandole, trasformandole e combinandole con la cultura del nazionalbolscevismo di cui ha fatto parte; poi, negli ultimi anni (diciamo poco prima della vittoria di Trump), c’è un movimento che – soprattutto attraverso canali informali e online – va nella direzione opposta, per cui Dugin diventa ora promotore di idee di cui si riappropriano populismi europei e statunitensi.
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