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MONDO
Turchia, punto e a capo? Le elezioni locali e le nuove difficoltà dell’egemonia di Erdoğan
La vittoria dall’alleanza guidata dal Partito Popolare Repubblicano (CHP) alle recenti elezioni municipali consegna all’opposizione i sindaci di molte delle più grandi città turche, tra cui Istanbul con l’esaltante vittoria di Ekrem İmamoğlu. Potrebbe trattarsi dell’inizio della fine dell’egemonia politico-economica-affaristica di Recep Tayyip Erdoğan, iniziata nel 1994 proprio a Istanbul, ma che ora incontra una battuta d’arresto con la difficile congiuntura economica nazionale
L’arrivo di Recep Tayyip Erdoğan nel 1994 fu uno shock per i partiti dell’establishment turco: vinse le elezioni locali a Istanbul prendendo il 25% dei voti vincendo contro altri tre candidati, e divenne il sindaco della municipalità metropolitana della città. Lo stesso giorno la capitale Ankara venne vinta da Melih Gökçek, suo alleato di partito, e così molti altri distretti in tutta la Turchia. Erano anni in cui, all’interno delle ambizioni della Turchia di entrare nell’UE e di un nuovo discorso sulla democrazia decentrata e le riforme neoliberali, il nuovo governo municipale si stava trasformando in qualcosa di molto più potente di quello che era una volta. Per 25 anni ininterrotti a partire dal 1994 le municipalità metropolitane di Istanbul e Ankara, e più in generale il potere municipale, funzionarono come epicentro di una rete di solidarietà politica ed economica che sostenne la crescita di Erdoğan da sfidante esterno a un uomo forte che ha trasformato il regime. Erdoğan in un discorso ai suoi quadri, disse: «se Istanbul inciampa, noi cadiamo». A Istanbul infatti c’è il 30% del Prodotto Interno Lordo nazionale. Insieme a Ankara e Izmir fanno metà della ricchezza del paese.
È stato a Istanbul che Erdoğan ha applicato per la prima volta il suo repertorio carismatico di comando (1994-1998). E poi questo repertorio si è lentamente trasformato nel nuovo regime della Turchia. I pilastri principali di questa nuova egemonia sono stati: l’ampliamento della giurisdizione degli enti locali in modo da poter farli funzionare come delle imprese offrendo servizi urbani mai così efficienti prima d’ora, costruendo il consenso nei quartieri urbani di estrazione medio-bassa; una classe di appaltatori urbani vicini politicamente e in grande ascesa sociale, fedeli e personalmente indebitati con l’apparato politico del partito di Erdoğan; la regola non scritta che questi uomini d’affari che stavano accumulando ingenti capitali avrebbero donato grandi somme alle istituzioni della società civile vicine politicamente a Erdoğan e soprattutto alle fondazioni religiose governate dal suo entourage e dalla sua famiglia. Durante i 17 anni di governo ininterrotto del suo partito a partire dal 2002, questa rete che andava dai rappresentati nazionali a quelli locali, con a capo il carisma personale di Erdoğan, ha aiutato Erdoğan a sconfiggere i suoi rivali nonostante i molti ostacoli. Nel 2013 una nuova legge sulle municipalità metropolitane ampliò ulteriormente il loro potere con alcuni leggi che consentirono di trasferire denaro pubblico dai bilanci municipali alla società civile, tra cui alle società sportive. Nella stagione calcistica attualmente in corso, la società fondata pochi anni fa del Başakşehir, nonostante lo scarsissimo seguito, sta per vincere la serie A turca. Il Başakşehir era orginariamente la squadra della Municipalità Metropolitana di Istanbul ed è ora di proprietà di un parente di Erdoğan e manager delle aziende municipali. L’ascesa del Başakşehir è un’illustrazione perfetta della Turchia contemporanea: un nuovo campione supportato da una cricca esclusiva di parenti dei ricchi della città. Che ora però, rischia di perdere popolarità.
Subito dopo le elezioni, i nuovi sindaci di Ankara e Istanbul stanno già considerando di fermare i flussi di denaro verso la società civile politicamente vicina a Erdoğan e di indagare sulla corruzione del governo locale. La posta in gioco di queste elezioni municipali è quindi la possibilità di impedire a queste reti economiche e ai mercati locali di sostenere l’egemonia del partito di Erdoğan. Questo è il motivo per cui per 17 giorni dopo le elezioni del 31 marzo 2019, i quadri erdoğanisti a Istanbul hanno fatto tutto quello che era in loro potere per rovesciare quella che era già stata annunciata come una loro sconfitta. Tuttavia, dopo aver ricontato centinaia di migliaia di schede, l’Ufficio Elettorale di Istanbul ha respinto gli appelli per un ulteriore riconteggio e ha assegnato il mandato del governo locale al candidato dell’opposizione. Il nuovo sindaco Ekrem İmamoğlu ha vinto di poco con quasi il 49% dei voti, 13mila in più rispetto all’avversario del partito di Erdoğan. Nel 2014, il gap tra i due era di quasi 700 mila vota nella direzione opposta. In questo momento è in corso un appello all’Ufficio Elettorale Nazionale dove si chiede che venga annullata l’annuncio dell’Ufficio Elettorale Provinciale e che vengano indette delle nuove elezioni per il 2 giugno. Ma in questo momento pare che il risultato rimarrà così com’è. Oltre a Istanbul e Ankara, anche le grandi città della costa meridionale come Antalya, Mersin e Adana sono andate all’opposizione. Si tratta di una chiara vittoria a livello nazionale per l’alleanza di opposizione.
Questa vittoria elettorale è stata possibile grazie a un’insolita alleanza tra i tre più grandi partiti di opposizione a Erdoğan, che sono riusciti a mobilitare la loro basi elettorali per sostenere un unico candidato nelle città più importanti e che sono riusciti a convincere un numero necessario di elettori indecisi. Permettetemi di spiegare più dettagliatamente quello che è davvero uno scenario senza precedenti per la politica turca. Se prendiamo in considerazione gli schieramenti che si erano consolidati prima delle elezioni presidenziali del giugno del 2018, quattro dei cinque maggiori partiti turchi sono oggi riuniti in due alleanze strategiche, pur mantenendo ognuno le proprie strutture di partito autonome. Curiosamente le due alleanze hanno scelto dei nomi appena distinguibili l’uno dall’altra. Da un lato c’è l’Alleanza del Popolo (Cumhur Ittifaki), che consiste nel Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), e il Partito di estrema destra del Movimento Nazionalista (MHP) che ha condotto una campagna elettorale basata sulla paura e con al centro la sopravvivenza dello stato, sottolineando la necessità di una stabilità politica contro le minacce terroristiche e geopolitiche. All’opposizione c’era invece l’Alleanza Nazionale (Millet Ittifaki), formata di fatto da due partiti, con a capo il Partito Popolare Repubblicano (CHP), laico-nazionalista e social-democratico. Il CHP si è alleato con il İYIP, il Buon Partito, un nuovo attore della politica turca. Nato da una scissione all’interno del MHP nel 2017, il İYIP ha tentato di organizzare gli elementi anti-erdoğanisti turchi di centro-destra in un partito di centro e ha tentato di rivitalizzare la tradizione dei partiti laici di centro-destra che ha dominato le competizioni elettorali turche prima dell’arrivo di Erdoğan dal 1960 al 2000. In molte città questo partito si è affidato alle classiche strategie politiche di centro-destra, scegliendo di farsi rappresentare da membri in vista delle Camere di Commercio e Industria locali delusi dalle politiche di Erdoğan. Nelle elezioni generali del 2018, il İYIP ha rubato un buon numero di voti a Erdoğan e ha avuto il 10% dei voti e 43 seggi al parlamento, con una campagna elettore centrata soprattutto sulla pessima gestione dell’economia.
Al di fuori di queste due alleanze c’è il partito che difende i diritti civili curdi e le loro richieste di decentramento politico, il Partito Democratico dei Popoli (HDP), che gli strateghi definiscono giustamente “il regista” di queste elezioni municipali. Pur non essendo formalmente alleato con l’Alleanza Nazionale, l’HDP ha fatto uno sforzo organizzato per convincere i propri sostenitori a votare per i candidati dell’Alleanza Nazionale e non ha candidato nessuno a Istanbul, Ankara, Adana, Mersin e Antalya. Alcuni giorni prima delle elezioni, l’account Twitter ufficiale del leader attualmente in carcere dell’HDP Selahattin Demirtaş, ha scoraggiato gli elettori dell’HDP dal boicottare le elezioni e ha invitato la base del partito a votare contro Erdoğan. Nelle città dove c’è una significativa presenza curda, i voti dell’HDP, che oscillano tra il 5 e il 15%, sono stati decisivi per il risultato elettorale. La prima volta che venne sperimentato questo “allineamento” elettorale fu in occasione dell’opposizione alla riforma costituzionale nel referendum dell’aprile 2017, sul quale ho già scritto una riflessione per Dinamo Press.
Quando questa desistenza elettorale non-ufficiale iniziò a diventare evidente all’opinione pubblica – nonostante gli sforzi di CHP e İYIP di minimizzarla per evitare lo stigma di essere associati all’HDP – Erdoğan ricominciò a fare dell’HDP un capro espiatorio: un elemento “non-kosher” nella retorica nazionalista turca. In effetti Erdoğan ha definito circa il 50% dei votanti turchi dei terroristi, nel tentativo di dissuadere gli indecisi di trovarsi fianco a fianco con l’HDP: ha definito l’opposizione un’alleanza degradata (zillet ittifaki), facendo un gioco di parole con il nome dell’Alleanza Nazionale (millet ittifakı). Il risultato più evidente invece è stato il backlash che questo ricatto ha creato: è divenuto chiaro come ci siano abbastanza elettori visibilmente insoddisfatti del comando di Erdoğan (soprattutto riguardo alla crisi economica) in grado di rendersi conto dei suoi bluff. Tuttavia, se questa temporanea desistenza elettorale ha una qualche speranza di diventare una vera e propria piattaforma politica, avrà bisogno di parole d’ordine convincenti e di un programma politico che vada oltre i limiti del governo e sia capace di avanzare una proposta politica nuova. Il nuovo regime presidenziale turco, istituito dal plebiscito dell’aprile 2017, esclude ogni possibile governo di coalizione e indebolisce il potere legislativo rispetto a quello esecutivo. Dato che il sistema istituzionale è destinato a rimanere tale, per lo meno nel breve periodo, l’opposizione è costretta ad abbracciare questa logica bipartisan e a formare un’alleanza per le prossime elezioni generali, previste per il 2023.
Questo è il motivo per cui la questione del se e come l’HDP deciderà di affiliarsi al fronte d’opposizione sarà decisiva. L’HDP ha dimostrato la sua legittimità di fronte agli elettori curdi e ancora una volta ha vinto tutte le città della sua regione. Tuttavia, contrariamente alla coraggiosa decisione dell’Ufficio Elettorale di Istanbul a fronte di tutte le pressioni ricevute, in diversi collegi delle province a maggioranza curda gli uffici elettorali locali non hanno convalidato le vittorie dei candidati dell’HDP e hanno affidato il mandato di governo ai candidati dell’AKP arrivati secondi. La sfera pubblica nazionale è spesso molto meno sensibile a queste episodi di sistematica illegalità nelle aree curde, mentre è pronta a denunciare il medesimo trattamento a Istanbul. Ciò riafferma ancora una volta i due pesi e due misure che vengono applicati nelle regioni curde e in quelle non-curde della Turchia. Alcuni critici si spingono perfino a essenzializzare questi riflessi discriminatori dell’apparato statale turco e a considerarlo come il “DNA della Turchia”, data la sistematicità e continuità con cui i partiti che difendono i diritti civili curdi sono stati in passato costituzionalmente criminalizzati – a cominciare dalle chiusura del primo partito parlamentare di sinistra, il Partito dei Lavoratori Turchi (1961-1971), che aveva programmaticamente sostenuto il riconoscimento del popolo curdo tra i cittadini turchi e ampliato il significato della “questione orientale” della Turchia. I partiti curdi sono stati spesso messi fuori legge costituzionalmente e/o la loro agibilità politica limitata. Il carismatico ex-leader dell’HDP Demirtaş si trova attualmente in prigione, così come lo sono molti altri sindaci affiliati all’HDP. Erdoğan probabilmente tenterà ancora una volta di rimuovere i sindaci curdi appena eletti e di nominare al loro posto i suoi seguaci attraverso decreti esecutivi, una strategia già utilizzata in passato.
Se un sostanziale fronte di opposizione vorrà durare, il CHP e il İYIP dovranno inventarsi una retorica efficace di legittimazione democratica che accolga le critiche all’ingiusto trattamento riservato ai rappresentati politici curdi, senza che questo alieni gli elettori indecisi. Questo è l’unico modo per incoraggiare legittimamente la partecipazione curda in una coalizione nazionale e far fare un salto di qualità alla temporanea desistenza elettorale per andare verso una Turchia post-Erdoğan. Nonostante i piccoli atti di reciprocità elettorale avvenuta tra il CHP e l’HDP nelle ultime due elezioni, l’HDP viene ancora stigmatizzato come “l’ala parlamentare del PKK”, cosa che costituisce e continuerà a costituire un ostacolo per sostenere la solidarietà elettorale tra le linee di divisione della Turchia. Non esistono ponti già belli e pronti per attraversare questo precipizio, ma in queste elezioni è senz’altro emerso un nuovo sentimento politico che può alimentare un programma accettato da tutti per una politica contro il comando autoritario di Erdoğan.
Ci sono segnali che il CHP sia diventato molto più aperto alle concezioni democratiche della Repubblica negli ultimi anni. Insieme alle vittorie senza precedenti dovute agli elettori dell’HDP, questo può spingere il partito ad affrontare la questione curda con maggiore audacia. A Izmir e nel distretto di Kadıköy a Istanbul, i sindaci neo-eletti del CHP fanno parte di una tradizione esplicitamente socialdemocratica, che fa parte dell’ala sinistra del partito. A Istanbul, l’organizzazione locale del partito del CHP è guidata da Canan Kaftancıoğlu, una figura critica che ha resistito alle campagne aggressive della fazione nazionalistica del partito e che si è rivelato decisivo nel garantire la vittoria del CHP a Istanbul. La crescita di questa tendenza si associa con le conseguenze successive della rivolta di Gezi Park nel 2013, che ha spinto i quadri più giovani del partito verso idee più democratiche di repubblica. È importante ricordare che, diversamente dalle generazioni precedenti, i giovani quadri del CHP hanno vissuto le loro vita durante il governo di Erdoğan e hanno dato priorità al cambiamento e alla libertà, invece che alla nostalgia di una Turchia del passato. Uno dei messaggi fondamentali delle elezioni è stato che cedere al ricatto nazionalista conservatore di Erdoğan, al quale il partito ha ceduto più di una volta in passato, non fosse più un’opzione possibile per il CHP. Rappresentanti di spicco dell’HPD hanno anche suggerito l’apertura alla solidarietà, compreso l’invito a firmare un’alleanza tra i comuni di Istanbul e la municipalità di Kars, dato che quest’ultima è andata all’HDP. Demirtaş ha recentemente scritto un editoriale per il “Washington Post”, dove ha celebrato la desistenza elettorale che si è rivelata vittoriosa, scrivendo che «i membri dell’HDP e i curdi della Turchia saranno sempre pronti per la pace. Credo che ce la faremo. Creeremo un paese con una forte democrazia ed economia riunendo tutte le fazioni della nostra società. Le elezioni del 3 marzo ci hanno indicato la via».[1] Il tempo ci dirà quanto sarà possibile percorrere questa strada difficile e piena di insidie.
Nel sistema politico turco, il potere municipale può funzionare sia come luogo di sperimentazione di pratiche democratiche di governance sia per metterne alla prova potenzialità e limiti. Se paragonate con le campagne politiche impopolari che hanno dominato le elezioni generali, a molti sembra che i governi municipali si confrontino più direttamente con i cittadini. In questo senso le municipalità sono una buona piattaforma per costruire fiducia ed entusiasmo politico. Questa è la prima volta che il CHP governerà molte città fondamentali e questo grazie a una nuova strategia nella selezione dei candidati, che punta su figure come İmamoğlu, che hanno costruito la reputazione di governatori locali di fiducia durante i loro mandati come sindaci dei distretti delle città che ora andranno a governare. Nella prima intervista rilasciata alla stampa, al giornale “Rudaw”, principale testata del Kurdistan iracheno, İmamoğlu ha esplicitamente espresso l’intenzione, quasi letteralmente, di «mettere alla prova i concetti democratici».[2] Se i giovani sindaci come İmamoğlu si limitano nella loro missione a tagliare il flusso di denaro verso la società civile vicina a Erdoğan, corrono il rischio di essere percepiti esclusivamente come revanscisti. Se non riusciranno a mantenere le loro promesse di democrazia e a costruire una fiducia con una comunità più grande di quella dei loro elettori, la Turchia rischierà di ricadere in un ciclo di revanscismo. È importante tenere presente che Istanbul è stata vinta con solo 13mila voti di scarto e che a livello nazionale l’Alleanza del Popolo guidata da Erdoğan ha comunque raccolto più voti rispetto all’opposizione. Dal momento che occupa un trono presidenziale con un potere enorme, Erdoğan farà tutto quello che è in suo potere per strangolare finanziariamente e burocraticamente i governi municipali. Come l’opposizione reagirà e come questi conflitti saranno interpretati dall’elettorato definirà il prossimo corso della politica turca.
Finora İmamoğlu è sembrato molto consapevole di ciò che lo attende. Il suo primo atto politico è stato ridurre il prezzo per gli studenti dei biglietti per il trasporto pubblico di quasi il 50%, un approccio social-democratico al governo municipale che può incrementare il suo appeal e quello del CHP. Durante il festeggiamento pubblico per la sua elezione, ha citato le minoranze curde e cristiane come parti fondamentali della cittadinanza di Istanbul. Nella sua intervista a “Rudaw”, parla di municipalità che promuovono l’istruzione della lingua curda e araba. Inoltre, ha utilizzato una narrazione storica raramente utilizzata riferendosi alla battaglia lunga 145 anni della Turchia per la democrazia, e facendo risalire il suo orizzonte politico non alla fondazione di Atatürk, come fa di solito il CHP, ma ai precedenti tentativi falliti di costituzionalismo pre-nazionalista ottomano, che è stato per lungo tempo un terreno storiografico dei Turchi liberali. Egli parla anche del leader incarcerato dell’HDP, Demirtaş come di colui che «ha dato un tono politico a valori universali di pace» e ricorda le motivazioni politiche che stanno dietro al suo incarceramento. Gli esperti sottolineano spesso le somiglianze tra İmamoğlu e Demirtaş sia per l’età che per il comportamento misurato. Tutto questo ci fa capire come sarà una figura autentica e proattiva quella che ora governerà Istanbul e che è consapevole delle contraddizioni politiche nazionali che si esprimono materialmente in questa città gigantesca, oltre al fatto che Istanbul sia un buon campo di prova per sperimentare nuovi concetti politici. La vita cittadina di Istanbul si estende socialmente in ogni angolo della Turchia e anche oltre, attraverso i legami della diaspora dei residenti immigrati. Questo è il motivo per cui İmamoğlu, quasi sconosciuto fino a pochi mesi, viene già salutato come un potenziale candidato alla presidenza per il 2023.
(Traduzione di Pietro Bianchi e Tania Rispoli)
Qui la versione inglese dell’articolo
[1] Selahattin Demirtaş, «I’m in prison. But my party still scored big in Turkey’s elections», “Washington Post”, 19 aprile 2019. https://www.washingtonpost.com/opinions/2019/04/19/im-prison-my-party-still-scored-big-turkeys-elections
[2] La versione inglese si trova qui: «Istanbul’s new mayor vows to ‘eradicate partisanship’», “Rudaw”, 18 aprile 2019. http://www.rudaw.net/english/interview/18042019