approfondimenti
MOVIMENTO
Psicanalisi e politica
Melandri rilegge sotto il segno della continuità la traiettoria teorica e la pratica politica ed analitica di Elvio Fachinelli che dal ’68, passando per l’apertura dell’asilo di Porta Ticinese fino all’89, aveva lottato per mettere al centro il desiderio. La sua ricerca “bio-psico-sociologica” si propone di rovesciare sia i rapporti di classe che i rapporti familiari, mostrando l’inseparabilità di una trasformazione che riguardi sia il privato che il politico
L’originalità del pensiero e della pratica di Elvio Fachinelli sta nell’intreccio tra politica e psicanalisi, come ricerca di “nessi” tra poli tradizionalmente contrapposti, resa possibile dall’aver inteso la politica nel senso marxiano di “politica radicale” – capace di andare alle radici dell’umano –, e la psicanalisi come pratica disposta ad andare “oltre” la «segregazione di un rapporto duale».
A monte, come diceva egli stesso, stava per un verso la «passione per il preistorico», ereditata da Freud, che lo portava a cercare in un lontano passato sia le ragioni della “rovinosa dialettica” che ha diviso e contrapposto biologia e storia, corpo e pensiero, individuo e società, sia i segnali di insospettate potenzialità antropologiche, e per l’altro, la sua “curiosità spinta” per tutto ciò che avveniva intorno a lui.
A fare da cerniera è il tempo:
«Sono sempre stato diviso tra l’interesse per ciò che mi passa accanto in un preciso momento e un uso più profondo, più personale e intenso del tempo. Vorrei dire quasi un uso solitario».[1]
In realtà una divisione netta, nella sua ricerca teorica e pratica, non c’è mai stata. Anche in quel pieno di «nuovi paesaggi», quale è stata la «stagione breve, intensa, esclusiva» del ’68, Fachinelli non ha mai smesso di guardare in profondità, come dimostrano gli scritti nati dalla sua presenza nelle università occupate, a Trento e a Milano – Il desiderio dissidente (febbraio ’68), Gruppo chiuso o gruppo aperto?” (novembre ’68) –, e quelli che vi hanno fatto seguito: Che cosa chiede Edipo alla Sfinge, Il paradosso della ripetizione, forse il suo saggio più importante, nato dalla riflessione sulle ragioni profonde che avevano visto un movimento antiautoritario, fluido e creativo ripiegare su frazionamenti, formazioni rigide, di stampo partitico: le «fortezze nel deserto».
Ma, oltre che un originale interprete del ’68, Fachinelli è anche un continuatore e interessante interprete di Freud, in cui vede l’avventuriero dell’anima, «il vecchio indagatore della felicità». Da Freud prende la “durezza liberatrice” come attitudine a «indicare la profondità del male, delineare la dialettica rovinosa in cui si è addentrata la ragione, quale sinora (cioè storicamente) si è organizzata e dopo, soltanto dopo, inserire l’esigenza del diverso».[2]
Nella biografia del grande “conquistador” dei territori sconosciuti dell’umano, compare, a proposito di nessi, l’accostamento tra Freud e Marx, esploratori entrambi «dei fondamenti della coscienza borghese. Il primo a partire dalla crisi della famiglia, l’altro dalla nascita dell’industria. Dall’ombra del rimosso non emergono solo il corpo, i residui preistorici dell’infanzia […] ma anche lo sfruttamento economico, la divisione che privilegia una classe e ne scarta un’altra».[3]
Fare cultura attraverso ciò che essa ha considerato tradizionalmente “scarti”, “rifiuti”, esperienze innominabili, voleva dire in qualche modo farsi “barbari”, prendere distanza dalla continuità del noto, mettere in discussione il rapporto ottimistico che la cultura occidentale aveva intrattenuto con le sue mete tecno-scientifiche, non aver paura di addentrarsi nel «caotico mondo dell’antiragione».
Anche i giovani del ’68 erano comparsi “imprevisti” come “barbari” dall’esterno di una civiltà esaurita – dice Fachinelli – per una “astuzia di Eros”. Con loro si affacciavano “prospettive impensate”, a riprova della “incompiutezza” delle alternative concesse alla specie umana.
È interessante notare che la domanda che chiude la “voce: Freud”, viene ripresa nell’articolo su Don Milani di poco successivo. Freud aveva tentato una scienza dell’individuo, partendo dalle «fondamenta dell’edificio» – il corpo, i suoi bisogni, desideri, fantasie, il caotico mondo della notte –, ma restava aperto un interrogativo:
«Come si passa da questo individuo alla generalità degli individui?».[4]
Fachinelli nota che nel libro, Lettera a una professoressa, c’era qualcosa di più che la denuncia della disuguaglianza e della selezione di classe. Era una verità che arrivava inaspettata alla coscienza, che “sorprendeva”: la stessa che stava montando dalla Cina, da San Francisco, da Canton. Il “di più” era qualcosa che conosciamo, ma che finiamo per dimenticare:
«La mia rimozione individuale del sociale è parallela alla rimozione sociale degli individui. Questo rimosso permane, sta sempre sveglio, mi deforma dal di dentro anche se lo ignoro».[5]
Si trattava perciò di ricollocare l’individuo– la storia personale e tutte le esperienze più universali dell’umano, legate al corpo – nel contesto storico culturale e politico.È stata questa l’intuizione più originale del movimento non autoritario nella scuola e del femminismo, sintomi essi stessi del modificarsi dei confini tra privato e pubblico, ed embrione di una ridefinizione della politica. Nella dissidenza giovanile del ’68 Fachinelli vide aprirsi «prospettive impensate» rispetto alla «tragica necessità del dualismo».
Per quanto riguarda gli articoli usciti in quell’anno, è proprio la ricerca di nessi che gli fu rimproverata da marxisti e psicanalisti. Ne Il bambino dalle uova d’oro, dove furono ristampati, nella nota in corsivo che vi faceva seguito, si legge:
«Tira l’aria del ’68 in questi due articoli, e credo non ci sia motivo per vergognarsene. Forse per questo essi vennero attaccati sia dai rappresentanti della psicanalisi istituita, sia dai marxisti più o meno ortodossi».[6]
«Gli psicanalisti furono scandalizzati dal brusco allacciamento che facevo tra la figura dell’autorità familiare e lo stato di questa autorità nelle società capitalistiche avanzate. Si finiva per ribadire la separazione tradizionale tra ambito familiare in cui si forma l’individuo, e ambito sociale in cui si costruisce la famiglia; una separazione considerata a sua volta immobile, fissa o naturale, anziché socialmente definita».[7]
«La difficoltà del marxismo di fronte al ’68 fu dovuta al fatto di trovarsi davanti a masse che chiedevano la rivoluzione e contemporaneamente non erano ancora entrate nel sistema della produzione sociale, non erano dunque immediatamente e chiaramente inquadrabili in termini di classe […] il regime del desiderio, sorto dal lungo dominio del bisogno, si era dimostrato reale e intransigente, ma transitorio».[8]
«La rivoluzione, come il desiderio, è inevitabile e imprevedibile e non finirà mai di sconvolgere i custodi del terreno dei bisogni».[9]
Che il ’68 avesse visto il “reale” e il “possibile” – esigenze radicali al presente impossibili, e perciò destinate a ripresentarsi – lo dimostra un articolo del 1987, Che bella rivoluzione: oggi siamo tutti soli:
«Gli anni ’70 si muovono, ondeggiano e fluttuano […] vanno avanti per un po’, poi si dissolvono, spariscono per ricomparire eventualmente un po’ più in là. Somigliano a quelle strutture chiamate cristalli liquidi […] Dove siete finiti? Siete falliti, non è vero? Così dice la voce, quella che suonava più alta, degli anni ’80. Ma altre voci mormorano: non c’è fallimento né scacco, non può esserci, dal momento che quelli là andavano secondo un altro ritmo, seguivano un’altra logica […] quella del desiderio e della libertà. E alla fine si sono dissolti in ciò che è venuto dopo, pronti a ricristallizzarsi in un momento chissà dove chissà quando».[10]
Psicanalisi e marxismo avevano finito per ricalcare la “rovinosa dialettica”, divenuti rispettivamente custodi di saperi opposti e complementari. Alla vulgata marxista Fachinelli rimproverava di aver cercato la verità degli individui fuori dagli individui stessi, nell’insieme dei rapporti sociali “oggettivi”. Di qui la difficoltà di fronte al ’68: masse non inquadrabili in termini di classe, che esprimevano un “desiderio dissidente”. Alla psicanalisi, riconosceva di aver elaborato uno specifico campo di osservazione per alcuni aspetti essenziali dell’individuo, ma di trovarsi «disarmata» di fronte a processi sempre più totalitari di intervento diretto sulle condizioni di formazione degli individui.
Fin da questi primi articoli sul ’68 si profila con chiarezza la regione “bio-psico-sociologica” in cui la ricerca di Fachinelli si va inoltrando, lontano dal pensiero settorizzato. L’attenzione ai “nessi” è già presente e ne costituisce la radicalità.
Dietro la contestazione di un padre autoritario, figura già sbiadita, si profila, nella società dei consumi, un «bersaglio più lontano», più difficile da portare allo scoperto, un fantasma più simile a una «madre saziante e insieme divorante», che abbina «completa liberazione dal bisogno a una prospettiva inaccettabile: la perdita di sé come progetto e desiderio». Una madre che offre cibo in cambio di una dipendenza incondizionata, a cui si accompagnano senso di impotenza e angosce di inglobamento.
Benché consapevole che bisogno e desiderio sono sempre presenti l’uno nell’altro, Fachinelli non evita di nominarli separatamente, quando si tratta di evitare che la nuova forma di rivoluzione, espressa dalla contestazione giovanile, venga riportata a vecchi schemi.
«Come se la spinta al Desiderio fosse meno materialistica, o addirittura un’astuzia dell’avversario».[11]
Antiautoritarismo diventa, nelle pratiche della dissidenza, appello contro l’“integrazione”, smascheramento delle logiche di dominio che, interiorizzate precocemente, producono consenso, accettazione passiva di un sistema, la cui regolazione è già prevista in anticipo. In Gruppo chiuso o gruppo aperto? Fachinelli analizza quello che sarebbe poi successo alla fine del ’68: i fenomeni di divisione, frammentazione all’interno del movimento e dei gruppi. Lo riprenderà nel saggio Il paradosso della ripetizione.
Nella Premessa a Il bambino dalle uova d’oro, così definisce gli scritti raccolti:
«Un libro di viaggio attraverso la psicanalisi, e oltre. Un libro in cui alla descrizione dei nuovi paesaggi si accompagna il resoconto dei mutamenti intervenuti in quello di partenza. Gli anni in cui questo libro si è formato […] sono infatti quelli della più radicale messa in questione del procedimento freudiano; gli anni in cui ha trionfato ed è entrata concettualmente in crisi irrimediabile quella psicanalisi pronta alla risposta, di cui si parla in uno scritto di questo libro (Cosa chiede Edipo alla Sfinge?). Ad essa vien contrapposta l’esigenza di un sapere che proponga altre domande, altri interrogativi. Un sapere inquietante, e sapere dell’inquietante. Un sapere che scopra e dica l’inquietante in ciò che in apparenza ci è più famigliare e consueto».[12]
Fachinelli parla di un procedere “fratturato”, per scarti e deviazioni, asistematico e legato a una curiosità spinta. Al centro della psicanalisi c’è la «decifrazione dell’umano da parte dell’uomo». La Sfinge pone all’uomo il problema di che cosa è l’uomo. È risolvendo questo enigma che l’uomo diventa uomo. Ma se con Freud aveva posto domande, oggi, dice Fachinelli, dà quasi esclusivamente risposte. Per questo è necessario che la psicanalisi vada «oltre il rapporto duale, che interroghi i nuovi paesaggi».
«Per incontrare Edipo bisogna trovarsi sulla strada di Tebe; bisogna che l’analista costituisca in altri luoghi, condizioni, possibilità, linguaggio dell’interrogazione analitica […] L’ascolto analitico deve manifestarsi come capacità di percepire il negativo, l’irregolare […] le situazioni che, appena accennate, rischiano di essere subito soffocate o, meglio ancora, inquadrate e funzionalizzate […] in più deve però anche manifestarsi come capacità e possibilità di interrogare i tentativi che, spesso in modo rozzo, elementare, disordinato, vengono continuamente sorgendo nella nuova generazione come risposta a nuovi problemi».[13]
I nuovi problemi da interrogare in profondità anche con la psicanalisi, erano quelli legati alle pratiche non autoritarie nella scuola, all’esperienza dell’asilo autogestito di Porta Ticinese, aperto il 12 gennaio 1970. L’idea era nata all’interno del contro corso di pedagogia all’Università Statale di Milano, dove Fachinelli era stato invitato come “inesperto” di pedagogia. Nel documento degli studenti si respirava aria di ’68, in polemica contro i “falsi rivoluzionari” che se ne erano rapidamente allontanati, creando con i loro gruppi-partito «strutture paurose di vivere, incapaci di libertà e avide di protezione», bisognose di capi e miti. Si trattava di recuperare alla politica i rapporti col corpo, con la dimensione biologica degli individui.
In vista di un convegno – che ebbe luogo a giugno e poi a settembre del 1970 – sulla pratica non autoritaria nella scuola, si tennero nel corso dello stesso anno una serie di riunioni, a cui ebbi modo di partecipare. Ne uscì il libro L’erba voglio, pubblicato da Einaudi nel 1971,che arrivò a quarantamila copie. Da lì poi la rivista omonima (1971-1977).
Per quanto riguarda l’esperienza dell’asilo autogestito, importanti sono le Note tenute da Fachinelli e pubblicate in seguito col titolo Masse a tre anni:
«Eliminando la figura dell’adulto, astrattamente considerato autoritario, si vede sorgere una gerarchia di ferro, basata sulla forza e sulla prepotenza […] sembra di trovarsi in una società violenta, tra il fascista e il mafioso, in cui il più forte e il più prepotente protegge quelli della sua famiglia. […] Qui la sola politica che abbia un minimo senso liberatorio […] una politica necessaria, anche se può apparire impossibile, è una politica radicale, nel senso marxiano di “prendere l’uomo alla radice”».[14]
Ma il saggio più importante per il rapporto tra psicanalisi e politica è Il paradosso della ripetizione, pubblicato col titolo Il deserto e le fortezze in tre numeri della rivista dal 1971 al 1973: un saggio destinato a lasciare un segno duraturo sia nella storia della psicanalisi che del pensiero e della pratica politica, e forse proprio per questa inusuale connessione ingiustamente dimenticato da entrambe le parti.
Di questi tre scritti, poi riuniti in un unico saggio, Fachinelli dirà che non sono “capitoli” ma «formulazioni reiterate dello stesso tema», o una “ripresa”.
Quello che si può notare è che il modo di procedere del pensiero e della scrittura non sono diversi da quello con cui si snoda la storia del singolo individuo, così come da lui descritta nel saggio: un’organizzazione le cui regole si definiscono precocemente, sulla base dei rapporti con gli altri che l’essere umano intrattiene nel periodo della sua maggiore dipendenza, e che tende a riproporsi «per una sorta di nostalgia che paradossalmente spinge all’agire: sia nel senso di una replica cieca, sia nel senso di un tentativo di uscirne». Ogni momento, nella costruzione dell’individualità umana, costituisce una scansione dell’organizzazione precedente, una sua riformulazione, o come conferma del passato o come l’aprirsi di una alternativa, di cambiamento.
È evidente qui la profonda aderenza di tutta la ricerca di Fachinelli alla storia personale, intesa non come autobiografia, ma come una vicenda che è al medesimo tempo “individuale”, particolare di ognuno, e “assolutamente generale”, dal momento che ogni piccolo d’uomo è costretto a costruire in prima persona il cammino essenziale della specie.
Come la vita, perciò, anche i suoi libri si formano non secondo uno sviluppo lineare e progressivo, ma per “strati successivi”, in modo asistematico, attraverso “scarti” e “fratture”. Per questo è facile trovare rimandi impensabili, temi abbozzati in un punto e ampliati altrove. I temi della “felicità” e del “desiderio”, ad esempio, si annunciano nelle prime pagine de Il bambino dalle uova d’oro, nell’accenno a Freud, «vecchio indagatore della felicità dell’uomo», diventano centrali nella lettura della dissidenza giovanile del ’68, e saranno ripresi ne La mente estatica, per essere sospinti fino a quell’«area di frontiera», a quello «strato percettivo, emozionale, cognitivo» che si dà come «gioia massima», poi rimossa, ai primordi della vita, nel rapporto di «parziale indistinzione» tra il bambino e la madre.
Nel mio saggio, Il viaggio di Edipo alle radici dell’umano,[15] ho provato a fare il percorso degli scritti di Fachinelli all’indietro: dalla “solitudine” e dal “silenzio” – da cui nasce La mente estatica – al vortice di iniziative, incontri che lo vedono impegnato socialmente e politicamente, mosso da “curiosità spinta” per i nuovi paesaggi aperti dal ’68. Voleva dire, per usare le sue suggestive immagini, ascoltare i rumori «dal punto di vista del silenzio», o «vedere le stelle dal punto di vista dello spazio vuoto».
Da qualunque prospettiva lo si guardi, è un percorso che appare in ogni passaggio scoperta e ritrovamento. È questa l’unitarietà del tutto particolare di un itinerario al contempo psicanalitico, culturale e politico. Una compattezza che non è data a priori, ma che si costruisce strada facendo.
Un altro elemento di continuità è dato dalla pratica analitica, che Fachinelli non ha mai abbandonato e che viene accostata e scostata dall’idea che il lavoro dell’analista dovrebbe essere “senza fissa dimora”, capace di uscire dalla «segregazione del rapporto duale» per portare l’interrogativo analitico “oltre”, in altri luoghi e situazioni. Nel ’68, “oltre” era la rivolta giovanile, a cui diede un geniale contributo teorico e pratico, ma da cui trasse a sua volta una lezione importante: la rilettura di Freud, le sue critiche all’istituzione psicanalitica.
“Oltre”, negli anni ’80, significò anche la propria esperienza, l’esplorazione coraggiosa delle estreme regioni della formazione personale, avendo se stesso come «unica bussola, strumento imperfetto e fragile, ma che consente un uso paziente e senza fine».
Nel saggio Il paradosso della ripetizione, Fachinelli definisce con chiarezza quale è il «campo di ricerca» che può aprirsi quando si esce da dualismo: un campo in connessione con la biologia e con la storia, ma «irriducibile a ciascuno dei termini della coppia». È «il passaggio del bambino da essere biologico a essere inserito nell’universo simbolico proprio dell’uomo». La rilevazione dei nessi era cominciata già con Freud, come una sorta di nexologia umana, che include il corpo come parte in causa e interlocutore. Ma è Fachinelli che, in modo originale, riconosce in questo processo di formazione degli individui un “ritmo temporale” diverso da quella corsa verso la morte che è la “coazione a ripetere” per Freud: la tendenza delle esperienze più intense e significative fatte nell’infanzia a ripresentarsi, a voler essere rivissute e non solo ricordate. Ma proprio per questo, dal momento in cui cadono in un contesto di realtà diverso, c’è la possibilità che il gioco si riapra e avvenga un cambiamento.
Questa teorizzazione avviene tra il 1971 e il 1973 e ha presente dichiaratamente l’evoluzione della «breve, intensa, esclusiva» stagione rivoluzionaria del ’68 verso forme chiuse, settarie, di organizzazione: i gruppi marxisti leninisti, le gerarchie, la dipendenza, la passività di massa, gli stessi bisogni che prima erano stati criticati nel sistema di dominio.
Il passato non ha mai smesso di essere una “presenza reale”, qualcosa che «urta nel presente e insiste per la propria reincarnazione e ri-soluzione futura».
Il tema del tempo – nella sua attualità e inattualità – è qui centrale. Nello sviluppo dell’individuo si intrecciano il “tempo tartaruga” del supporto biologico e il “tempo freccia” della società storica. Per aver trascurato quanto di “preistorico” ci portiamo dentro, i bisogni di sicurezza, protezione, affidamento, passività ricompaiono.
Il movimento che nel ’68 aveva conosciuto modi di agire fluidi, come improvvise “folate”, la straordinaria capacità di rinascere dalle proprie ceneri, la forza di allargarsi “senza fare uso di bibbie”, si ritroverà in un tempo brevissimo diviso, isolato, irrigidito nelle maglie di vecchie ideologie: le “fortezze” di aristocratiche avanguardie allineate «al limite del deserto».
Al centro, come apertura verso cambiamenti possibili, restava il rapporto individuo-società:
«L’individuo è intrinsecamente connesso, già all’origine, con il suo gruppo sociale, ma anche ‘polo distinto’ capace di obiettare, di muoversi su tempi diversi che segnano l’agire dell’uomo».[16]
E anche la speranza in un tipo di conoscenza che potesse «usare l’analisi senza essere per altro l’analisi […] in grado di fornire alcuni modi di agire, da cui si potesse dedurre un certo tipo di politica».
Aver ridotto l’individuo a scarto, residuo della società, aver separato il pensiero dal corpo, identificato con il femminile, ha impoverito e ingabbiato il mondo della ricettività e delle esperienze più creative. Ma ha permesso anche che crescesse nelle «viscere della storia» un “rimosso” capace di deformare l’uomo e la sua civiltà dal di dentro. Come Freud, Fachinelli non esiterà ad addentrarsi nel «caotico mondo della notte», a dare un nome agli angeli e ai demoni che popolano la nostra “patria” più segreta. In una Nota nella rivista L’erba voglio aveva scritto:
«Per poter veramente lavorare con la gente, per poterla concretamente toccare, bisogna passare, e non è ironia, proprio attraverso i suoi sogni».[17]
Con la rivista L’erba voglio si voleva cercare di capire le ragioni per cui emergono, anche nei movimenti anti-autoritari, tendenze alla passività, alla ricerca di gerarchie di potere. Andare a fondo di queste ragioni era necessario per una proposta di «intervento politico reale» e non puramente verbalistico. Non aver tenuto conto della persistenza di tali bisogni, aveva permesso che agissero indisturbati.
Il saggio parte perciò da una domanda:
«Ma da dove nasce questa dipendenza, questo stato di attesa inerte verso l’esterno di cui cogliamo ogni giorno la presenza e gli effetti?».[18]
Sempre agli anni ’70 e con evidente sia pure indiretto riferimento alla ricerca di nessi tra psicanalisi e politica appartiene il libro La freccia ferma (edizioni L’erba voglio 1978). Al centro ci sono le modulazioni diverse con cui il tempo si presenta nella malattia del singolo, nel rapporto analitico, in segmenti di storia tra loro lontani ma accomunati da una pulsione temporale simile. Nel tempo seriale, segmentato, reversibile dell’ossessivo, nei rituali con cui le società arcaiche celebravano gli antenati, di cui avevano rinnegato la morte, così come nel culto fascista di una patria resuscitata nelle spoglie solenni della romanità, Fachinelli riconosce una matrice comune, una figura sovrapponibile, che consente correlazioni inaspettate. Il tempo si rivela “elemento ordinatore” di eventi sia individuali che collettivi, la “cellula genetica” da cui ripensare l’agire dell’uomo e riformulare i vari saperi parziali esistenti su di esso.
Entra in crisi la concezione della storia come flusso irreversibile. Al posto di uno svolgimento lineare, dobbiamo pensare a linee e logiche particolari che si intersecano. L’ossessivo, gli arcaici, il fascismo, rappresentano in contesti diversi «tre tentativi di annullare il tempo». Il «tempo del ritorno» appare qui come la risposta a un movimento di apertura, sentito come pericolo di morte.
La psicanalisi stessa, dopo lo squarcio iniziale, la promessa “liberatrice” dei suoi inizi, aveva finito per basarsi sul presupposto di una necessità: quella di un uomo che deve difendersi da un pericolo interno, un uomo “bardato”, “corazzato”.
È la critica più radicale che Fachinelli fa alla psicanalisi. Nel ’68 l’accusa era di aver dimenticato la dimensione sociale. Qui, l’elemento trascurato era l’altro polo estremo: la “zona di frontiera” rappresentata dalla “co-identità” o “sorellanza” madre-figlio, che si pone all’inizio di ogni vita umana.
Fachinelli non ha mai abbandonato la clinica, né la ricerca psicanalitica, ma tenterà sempre di allargarne i confini, di spostarli ogni volta su un “altrove” a cui porre domande, e su cui produrre cambiamenti. Questi «altrove» sono le due sponde che, «nel corso dell’uomo detto civile», si sono andate sempre più allontanando, facendosi astratte ideologie, perdendo di vista i nessi: tra origine e storia, memoria del corpo e linguaggi sociali, sogno e realtà.
Seguendo la strada aperta da Freud, Fachinelli torna a scavare in quello “squarcio” iniziale della psicanalisi che si era chiuso troppo in fretta. A questo punto, unica guida restava la propria esperienza, in cui si mescolavano i ricordi dell’infanzia – l’immagine di un lungo prato di montagna visto dal limite di un boschetto – e le letture di Freud e Lacan.
L’idea era di aprire la strada a nuove verità della vita psichica.
Ma prima di arrivare al traguardo estremo – La mente estatica – c’è Claustrofilia, che esce nel 1983 con Adelphi. È la critica alla struttura temporale dell’analisi così come si è istituita e codificata, tendenzialmente orientata a farsi infinita, “interminabile”.
La sua cecità stava nel non aver riconosciuto in quel “tempo stagnante”, nel “movimento zero” scandito dalle sedute, il ritorno alla fase prima della vita: l’unità duale con la madre.
È la scoperta del claustrum, che lega all’origine in appartenenza intima la madre e il figlio, e che conserva nel tempo la forza per ricomparire di fronte a ogni strappo, a ogni segno di separazione. È la svolta che Fachinelli fa, all’inizio degli anni ’80, verso l’“oltre” apparentemente più lontano dal vivere sociale.
Ma è anche, per paradosso, quel capovolgimento di prospettiva che permette di guardare lo sviluppo dell’individuo e della civiltà attraverso l’ombra di un passato mai estinto, che si porta dietro un pericolo di morte e, al medesimo tempo, una risorsa di vita piena. Il mare dove si può annegare o, al contrario, vivere una accensione dei sensi e dell’intelletto mai provata prima, non poteva non essere associato, non solo metaforicamente, al corpo della madre e alla singolare “co-identità” dell’origine.
Fachinelli apre così un pertugio in quella che Freud aveva considerato la «roccia basilare», il «rifiuto della femminilità», di fronte a cui si arresta l’enigma del sesso.
Apre a un femminile visto nelle sue potenzialità vitali e creative, si dispone ad abbattere muri e barriere di una maschilità distorta e trasformata in offesa e difesa dalla costruzione storica. Il femminile è visto qui come:
«Atteggiamento ricettivo che non abolisce il maschile, ma gli propone un mutamento parallelo […] un operare che precede e segue l’atto creativo […] Alternanza ritmica del maschile e del femminile».[19]
E infine La mente estatica (Adelphi 1988), un viaggio che Fachinelli farà avendo se stesso «come unica bussola» e come riferimenti le sue riletture di Freud e Lacan.
Andare alla radici dell’umano vuol dire avvicinarsi a quello «strato percettivo, emozionali, cognitivo» che è stato visto come «area di frontiera, pericolosa dal punto di vista di un io personale, ben individualizzato» e, proprio per questo, «messo da parte nel corso dell’evoluzione dell’uomo detto civile». Se l’accantonamento è stato all’inizio “necessario”, dal momento che non lo è più, si può pensare di rivivere la dimensione “estatica”, un passaggio originario di molteplici esperienze, probabilmente le più creative della vita umana. Si tratta di una prospettiva antropologica che sta a noi non perdere.
Non si tratta di distruggere la Ragione – precisa Fachinelli –, e l’io stesso, per tornare a un indistinto originario, ma di salvare quello stesso Io dal rischio impellente di essere assorbito nella Ragione tecnica, scientifica, burocratica. È un viaggio che egli farà «coinvolgendosi ed esponendosi in prima persona», avendo se stesso «come unica bussola dell’esplorazione. Strumento imperfetto e fragile: non ne avevo altri. Sua verità: modesta. Suo uso: paziente e senza fine».[20]
Anche in quest’ultimo traguardo, non manca la compagnia di Freud: la sua autoanalisi, l’avventura del conquistador che si addentra nei territori oscuri dell’inconscio, l’amicizia con Fliess, il rapporto con la madre, l’avvicinamento a quella “terra promessa” che è la fusione madre-figlio. Fachinelli si addentra là dove Freud non ha potuto arrivare: accoglimento in sé del femminile, o di ciò che è stato considerato tradizionalmente tale. Le prime pagine del libro – Sulla spiaggia– si aprono con l’immagine del mare: accettazione, fiducia intrepida in ciò che si profila all’orizzonte: il femminile come espressione di molteplici esperienze che tutti possono fare.
Nel corso degli anni ’80, pur “frugando” nelle estreme regioni dell’Io, Fachinelli non abbandona la ricerca di nessi, continua a scrivere per i giornali, a interrogare da quella “preistoria” il “geroglifico sociale”, i “resti notturni” che lo abitano. Emerge con chiarezza che il dualismo si è costruito sulla contrapposizione tra maschile e femminile: l’impostazione maschile come difesa/offesa, il femminile polo svalutato, ma, al contrario, il più creativo. Fachinelli precisa che non intendeva parlare di un “privilegio” della donna, in quanto tale, ma contrapporsi all’idea di un femminile come situazione all’ombra del maschile, modellato sul maschile e quindi sentita come deficitaria rispetto ad esso.
La recettività, la cura, l’«accoglimento della caducità come limite umano» appartengono a tutti gli umani.
Verrebbe da pensare che l’attraversamento dell’“oceano materno” sia possibile solo al sesso che ha costruito difese, e a cui è stato dato un processo di individuazione. La donna, identificata con la madre, è rimasta a rappresentare il luogo di un “desiderio preistorico”, gioia massima cercata e temuta. Nell’esperienza estatica è evocato l’incesto, ma in realtà è proprio nel momento in cui l’uomo riporta su di sé il femminile, la recettività, vissuta come una visione più ampia e più creativa di se stessi, che si decanta il potere fantasmatico della madre, la schiavitù trasformata in potere di indispensabilità.
È nell’articolo I travestiti che Fachinelli mostra più chiaramente la consapevolezza nuova portata dal femminismo degli anni ’70.
«Si è accennato al fatto che, al fondo della paura di perdere la propria virilità, sembra esserci la presenza di una figura inquietante che spesso rimanda più alla madre che al padre. Si può perciò supporre che un mutamento della posizione della donna sia, a lunga scadenza, decisivo sotto questo aspetto. Dall’epoca di Proust in poi, in ragione del mutamento storico-sociale, la figura del padre è andata sbiadendo nella società di tipo occidentale, si è fatta anonima e meno significativa. È un fatto noto. Contemporaneamente però la donna si sta facendo più autonoma, meno legata al “destino” di madre e casalinga, e quindi meno bisognosa di trovare nei figli una giustificazione di se stessa, meno bisognosa di recuperare attraverso di loro un potere da cui è esclusa. All’aumento del potere reale, è possibile che corrisponda una diminuita necessità di potere fantasmatico sui figli, e quindi una diminuita angoscia da parte loro di fronte ad esso».[21]
L’esigenza antropologica che porterà Fachinelli negli anni ’80 ad esplorare strati percettivi e cognitivi della mente tenuti ai margini, disconosciuti, non è la rinuncia al suo precedente impegno politico ma la sua estensione.
«Sono diventato più silenzioso e attento; più ricettivo forse. Non credo più, se ci ho mai creduto, alle asserzioni, allo stile affermativo o perentorio, ai discorsi d’impostazione e di programma. Ciò che è importante arriva dal fondo, dal silenzio, da una specie di passività. Il che non vuol dire: lentamente; no, anzi a volte vuol dire: bruscamente, all’improvviso, ma sempre dal fondo, come una voce diversa e insieme sempre chiara, limpida […] Ho imparato a vivere il discontinuo, a non pretendere passaggi di sicurezza là dove non ce ne sono, o perlomeno là dove non ne conosco. Forse meglio dire: sopportare l’angoscia. Meglio ancora: sopportare la solitudine. […] Mi accorgo allora che i programmi fatti, per esempio a partire da un certo libro, tendo a perderli, a scartarli. Sono deviato da un interesse più urgente, più fresco. Anche se dopo, a cose fatte, mi è possibile vedere che in fondo sono andato avanti nel solco di una linea presente anche prima».[22]
Nell’intervista ad Elisabetta Rasy, nel 1989, dopo la pubblicazione de La mente estatica, i nessi di un percorso anomalo, dal movimento all’estasi, vengono descritti da Fachinelli con chiarezza. L’emergere di un modo della mente legato allo stadio arcaico della nascita e della vita intrauterina non poteva venire che dalla sua esperienza di analista, dal riattualizzarsi, nel rapporto duale, di una «consonanza tra l’uno e l’altro che realizza un mondo a se stante e una sorta di annullamento del tempo».
L’“estatico” è inteso come la possibilità di uno sguardo dilatato, una visione più ampia e più profonda di noi stessi, un’esperienza a cui partecipa tutto il corpo.
Non è poi così distante da quella «passione dell’uomo», da quella «molteplicità di manifestazioni di vita umana» di cui parlava Marx e che Fachinelli rimprovera alla tradizione marxista di non aver saputo cogliere. La “gioia massima” che Freud aveva rifiutato sentendola come eccessiva e pericolosa, richiama non a caso la categoria del desiderio che compare negli articoli del ’68 e ’69.
«Nel ’68 e in generale nella mia pratica politica, io non ho mai aderito alla concezione marxista. Proprio nel ’68 ho scritto un saggio intitolato Il desiderio dissidente: nel movimento io trovavo proprio questa categoria di desiderio, con tutte le enormità, il suo senso di morte, anche. Tanto che fui attaccato dai marxisti. Per cui, secondo me, c’è una grande continuità nel mio lavoro di oggi e di allora».[23]
Che la “folata” ribelle a gerarchie e formule precostituite, capace di quella “creatività generativa” che era venuta meno a una politica sempre più separata dalla vita, fosse ancora molto presente e in grado di suscitare in lui emozioni e speranze, lo prova un articolo del 1987 uscito sull’Espresso, n. 14, 12 aprile 1987): Che bella rivoluzione. Oggi siamo tutti soli. Le esigenze radicali poste dal ’68 si sarebbero ripresentate, perché «la rivoluzione, come il desiderio, è inevitabile e imprevedibile».
Intervento presentato alla Fondazione Micheletti, Brescia, il 19 febbraio 2018
[1] E. Fachinelli, Che tempo fa sull’albero dei lupi?, intervista di Gabriella Buzzati, in Alfabeta, n. 11, marzo 1980, pp. 11-13.
[2] E. Fachinelli, L’ipotesi della distruzione in Sigmund Freud, in Il bambino dalle uova d’oro, Feltrinelli, Milano 1974, p. 26.
[3] E. Fachinelli, Freud, in I protagonisti della storia universale. Il mondo contemporaneo, vol. 12, CEI –Compagnia Edizioni Internazionali, Milano 1966, pp. 365-91.
[4] E. Fachinelli, Freud, cit.
[5] E. Fachinelli, Don Milani e i ragazzi di Barbiana, in Quaderni piacentini, n. 31, luglio 1967, pp. 271-275.
[6] E. Fachinelli, Il bambino dalle uova d’oro, cit., p. 137.
[10] E. Fachinelli, Che bella rivoluzione. Oggi siamo tutti soli, in L’Espresso, n. 14, 12 aprile 1987.
[11] E. Fachinelli, Il bambino dalle uova d’oro, cit., p. 111.
[15] L. Melandri, Il viaggio di Edipo alle radici dell’umano, in L’attualità inattuale di Elvio Fachinelli, a cura di L. Melandri, IPOC, Milano 2014.
[16] E. Fachinelli, Freud e i processi collettivi, Interventi di Fachinelli (Milano 15 settembre 1989), Terza Rete Rai di Bolzano.
[17] E. Fachinelli, L’erba voglio, anno I, n.1, luglio 1971, p. 9.
[18] E. Fachinelli, Il bambino dalle uova d’oro, cit., p. 213.
[19] E. Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1989, p. 22.
[21] E. Fachinelli, I travestiti, in Il bambino dalle uova d’oro, cit., pp.208-209.
[22] E. Fachinelli, Dal fondo con voce diversa, intervista di G. Englaro, in Uomini e libri, 16, 81, novembre-dicembre 1980, p. 76.
[23] E. Fachinelli, Dal movimento all’estasi, intervista di E. Rasy, in Panorama, 19 marzo 1989.