approfondimenti
MOVIMENTO
Primo e Sabina della libreria Calusca di Milano
Mercato editoriale, movimento studentesco, antiautoritarmo e femminismo sono alcuni dei temi affrontati in questa intervista di Emina Cevro Vukovic a Sabina e Primo Moroni nel 1976
Magro, alto, un fazzoletto rosso al collo, sulla quarantina, ma ne dimostra molti di meno, siede dietro il suo tavolo colmo di carte nella libreria più polverosa e più ricca di materiali dell’ultrasinistra di Milano, circondato dai manifesti della figlia, di Marx, di Lenin, degli anarchici. Sabina, minuta, ma con un uguale sorriso aperto, divide il suo tempo tra il ménage della casa e l’attività della libreria.
Primo: La libreria svolge essenzialmente un lavoro su due piani: da un lato la ricerca di tutti quei materiali politici dell’editoria di base o meglio marginale, riviste, opuscoli, libri, ciclostilati, dall’altro è diventata in questi quattro anni anche un punto di riferimento per il movimento degli insegnanti della scuola dell’obbligo, nel senso che andiamo alla ricerca di tutti quegli strumenti editoriali, libri, riviste, documenti, che possono facilitare il lavoro all’insegnante che rifiuta il libro di testo, che tenta insomma di svolgere il proprio ruolo in maniera meno codificata.
Ecco questi due livelli hanno fatto diventare la libreria una specie di punto di riferimento non solo per Milano ma anche per città e paesi abbastanza lontani, per cui può capitare, per esempio, di incontrarvi dei compagni anarchici di Trieste o di Canosa di Puglia che approfittando di un viaggio a Milano si sono fatti consegnare dai vari amici i soldi per comperare 3-4-5 copie di pubblicazioni che nelle loro zone non si trovano, oppure come è successo recentemente, di trovare la libreria invasa da una ventina di insegnanti di Mantova che hanno organizzato una vera e propria spedizione alla Calusca alla ricerca di materiale alternativo e soprattutto di bibliografie di un certo tipo.
Chi è proprietario della Calusca?
Primo: La Calusca è proprietà privata di mia moglie e mia. È nata in maniera “incasinata”. Esisteva un collettivo di lavoro che si chiamava “Antonio Gramsci”, noto perché aveva centrato il circuito degli insegnanti della scuola dell’obbligo che cominciavano a rifiutare i libri di testo. Noi pensavamo di essere mediamente esperti per creare un centro di servizio per gli insegnanti che volessero agire nella scuola in modo antiautoritario. Mettevamo a disposizione testi, materiale tratto da riviste, studi che servissero sia agli insegnanti che ai ragazzi, creando un circuito chiuso. Questi lavori di ricerca che abbiamo fatto sulla emigrazione, la repressione, la condizione della donna, la famiglia diventavano lavori di sperimentazione nella scuola dell’obbligo e nuovi testi per quelli che l’anno dopo avrebbero avuto bisogno di affrontare gli stessi argomenti. Era un mettere in moto la scuola dal basso. Da lì l’idea di avviare una libreria “struttura di servizio”. In più pensavamo fosse necessario creare una libreria considerabile politica ma nel contempo non direttamente espressione di un “gruppo” o “partito”, ma semplicemente struttura intermedia del “movimento”, senza particolari distinguo né grosse menate.
Perché avete pensato di buttarvi in questa attività, quali erano le vostre esperienze precedenti?
Primo: Ho lavorato nell’editoria grossa (Fabbri, Mondadori, Vallardi) come dirigente del settore alle vendite. Questo fino alle soglie del ’68. Ma non era divertente insegnare ai venditori come fregare il proletariato. Spiegavo le motivazioni di acquisto dell’acquirente medio che valevano nell’editoria, come in qualsiasi altro campo. Sono sei le motivazioni che, secondo studi americani, determinano l’acquisto di qualsiasi cosa da parte di qualsiasi persona: inedito, lucro, comodità, effettività, sicurezza, orgoglio. Per cui tu venditore che vendi ratealmente per le grandi case editrici entrerai in casa della persona X farai una serie di domande che ti faranno centrare la sua motivazione e agirai su questa.
Se è un nonno che deve fare il regalo ai suoi nipotini la motivazione sarà l’affettività, se è un mobiliere della Brianza digli di acquistare nel ’63 la Treccani a 600.000 lire perché nel ’66 costerà 800.000, per lui è un fatto di lucro, di orgoglio e di possesso. Tu quindi venditore nelle prime otto domande, con la tecnica dell’intervista centrerai la sua motivazione e tu sai benissimo dove vuoi arrivare mentre l’acquirente è totalmente indifeso. Chiaro che vittima privilegiata di questa tecnica di vendita è l’operaio, il proletario. Il borghese avendo più dati in suo possesso ha la capacità di difendersi. Se all’operaio dici: “Ti do un’opera per cui tuo figlio andrà meglio a scuola alle elementari e alle medie e un domani potrà diventare ingegnere”, lui ci cade. Avrai agito su una serie di motivazioni sue che sono: l’affettività e l’orgoglio di dire: “El me fiu l’hu fà diventà ingegner”. L’ha fatto lui diventare ingegnere perché gli ha dato tutto: a sette anni l’enciclopedia Conoscere Fabbri e a 15 magari il Larousse di Rizzoli. È che la cosa la vivi come un lavoro, perché esci dagli anni Cinquanta, hai partecipato all’attività del grande partito operaio, dal ’52 al ’63, ne sei uscito con una serie di casini, sei in qualche modo acculturato, allora che fai: vai nelle case editrici, grande serbatoio dove passano tutti per qualche mese o anno. Ho fatto questo lavoro mentre c’era l’aria stagnante del centrosinistra fino a quando non arrivò il ’68 con la presa di coscienza, la scoperta di metodi nuovi di far politica, per cui sei un dirigente alle vendite ma non te ne frega più un cazzo. Molli tutto.
Hai partecipato al movimento studentesco milanese?
Primo: In maniera vaga, non organizzata perché uno che ha fatto dodici anni di Partito Comunista ha una media immunizzazione dell’organismo politico omogeneo ed efficiente. Ci caschi dai 16 ai 28 anni, ma è molto difficile che successivamente ci ricaschi con facilità nell’organizzazione quadrata. Per cui stavi nel mezzo degli avvenimenti con una media simpatia per l’amico Tavaglione di “Mondo Beat”. Pensavo: questi sono dei matti capelloni, fanno Barbonia City però sono straordinariamente liberatori nel metodo anche se la politica è un’altra cosa. C’era questa fase intermedia Andai in piazza, partecipai alla lotta, ma personalmente non sono mai stato né del movimento studentesco, né di altri gruppi. Avevo una media simpatia per Potere Operaio, perché faceva dei discorsi importanti, lì c’era Marx, non c’era la Terza Internazionale. Per Lotta Continua quando era di grande attacco con i suoi discorsi su “prendiamoci la città”, la violenza, la rivolta. Ma partecipavo sempre da cane sciolto, da distaccato, mettendo in moto nel frattempo una serie di “casotti” per sopravvivere. Ho aperto un club in via S. Maurilio che si chiamava “Si o Si Club”. Un circolo pazzesco in un palazzo del Settecento che aveva il compito di recuperare nell’attività del tempo libero tutti indistintamente. Avevamo 600 commesse della Standa, 200 professionisti, 400 attori del Piccolo Teatro, ecc.
Cosa facevate?
Primo: Tutto contemporaneamente. C’erano ristorante, bar, teatro, cinema, reading di poesie con Fernanda Pivano e Salvatore Passarella, Pino Franzosi. Un casino infernale dove si mischiavano borghesi, medio borghesi, proletari, sottoproletari, commesse, ostetriche dell’Ospedale Maggiore. Il risultato più appariscente è stato uno spettacolo un po’ matto OFF OFF durato tre giorni, organizzato da me e R. Dane dove il pubblico ha tentato di distruggere il teatro, la platea invasa da migliaia di scatolette di detersivi che signore impellicciate e impazzite ci lanciavano. Lo spettacolo era a ciclo totale. Gli attori recitavano già nell’atrio, nelle scale, nei palchi, a ruota libera, e ognuno, debbo dire, faceva i “cazzi suoi”. C’erano dei momenti di grande violenza. Ghigo, che allora era veramente bravo, suonava una musica pazzesca e urlava: “Merda!”, era un jazz di sottofondo intercalato dai ritmi del Maggio francese. Il tutto incredibilmente rabbioso. A questo punto nel buio qualcuno ha cominciato a lanciare queste scatole di detersivi di cui era sommersa la sala, perché in ogni sedile ne avevamo messi tre o quattro e le signore quando entravano dovevano togliere le scatole e tenersele addosso. Partita questa violenza di musica nel buio rischiarato da lampi di luci psichedeliche le signore salirono sulle poltrone e cominciarono a tirare con una violenza incredibile migliaia di scatolette. Poi il pubblico tentò l’assalto al palcoscenico con il padrone che voleva chiamare i vigili del fuoco. Nel finale due enormi strutture a forma di fallo gonfiabili con il compressore, illuminate, partivano dal fondo della sala e arrivavano al palcoscenico dove sgonfiate con una catenella ritornavano a cadere in sala. C’era chi gli saltava addosso. Lo spettacolo è durato solo tre giorni perché il padrone del locale non voleva che si continuasse. Poi abbiamo aperto un cabaret politico con Roberto Brivio, ma questo non capiva molto per cui ci aveva stancato. Gli abbiamo detto: “ti regaliamo questo cabaret basta che non ci rompi più”. Ce ne siamo andati e in seguito ho aperto la Calusca nel tentativo di creare una struttura di servizio. La Calusca non doveva essere soltanto un’agile libreria ma un modo di agire nella scuola, e più in generale nel campo della controinformazione. Diffondevamo l’enciclopedia “Io e gli altri” ma i presidi non la volevano, succedevano delle polemiche incredibili, che durano ancora oggi. Nella libreria volevamo d’altro lato privilegiare l’editoria che nasce dal basso, ad ogni livello, dal Puzz di Max Capa, a De Canditis di Caserta, a Franco Leggio di Ragusa, a chiunque nascesse in questo campo senza porre discriminanti politiche di nessun tipo. Per cui ci doveva essere il bordighista, il situazionista, le Brigate Rosse, quando non erano ancora clandestine perché adesso se esponi il loro materiale ti chiudono, fino ad Avanguardia Operaia, Lotta Continua, il Movimento Studentesco. Chiaro che per una serie di circostanze logiche i gruppi organizzati si sono quasi emarginati.
E’ vero che in libreria vengono quelli di AO, di LC, e in misura massima quelli dell’Autonomia, però è chiaro che se il MS porta dieci copie di “Fronte Popolare” se ne riporta indietro 8 non vendute mentre “Rosso” vende 300-400 copie, “Puzz” 150 copie ma anche “Errata” vende 60-70 copie, che è una rivista tutto sommato difficile. Abbiamo venduto ultimamente 300 copie de La società dello spettacolo nella nuova edizione, di “CONTROinformazione” vendiamo 1000-1200 copie.
Infatti la Calusca è diventata in qualche modo un punto di riferimento dei non organizzati, dei cani sciolti, di quest’area indefinibile che va dai bordighisti, ai protosituazionisti, ai consiliari, agli internazionalisti, agli anarchici, agli anarco-comunisti, ai comunisti libertari.
Avete avuto noie con la polizia?
Primo: Vengono spesso, specialmente negli ultimi 6-7 mesi. Il loro tentativo, condotti con metodi intimidatori, è l’impadronirsi di questa competenza in quanto suppongono che io sia in grado di fare una mappa molto precisa di tutti i gruppi. Vogliono capire cosa vuol dire un volantino militante, se una scissione di Programma Comunista è su base trotskista, perché loro hanno bisogno di questi schemi molto logici sennò non capiscono. Allora, per esempio, il loro tentativo è centrare Per la giustizia proletaria, l’opuscolo fatto da alcuni compagni, che peraltro non conosco, che per combinazione non aveva né firma né indirizzo e dove si difendeva Margherita Cagol, e fare pressione su questo, l’accusa era diffusione di stampa clandestina in collegamento con chissà chi. Il loro discorso era: “A noi non c’importa la cosa se lei collabora con noi a livello di democrazia. Noi siamo democratici, nella caserma di Annarumma lei sa che il PCI ha avuto il 40% dei voti, noi siamo profondamente d’accordo su questa linea. Allora noi non le chiediamo di fare il confidente, le chiediamo di collaborare con noi a costruire un’Italia democratica e giusta smascherando questi provocatori, facendo questo lei non fa che contribuire al benessere dei lavoratori”. Questo fu per me tragico perché costui mi parlava come l’amico e compagno Usai, segretario della sezione Carlo Marx di Porta Romana, che una settimana prima mi aveva fatto un discorso incredibilmente simile. Infatti ho risposto: “io ci credo che lei sia comunista nel senso del PCI, ma la cosa mi lascia completamente indifferente, io faccio il libraio, sono un bottegaio che vende della merce, lei fa l’agente di pubblica sicurezza, lei faccia il suo ruolo e io faccio il mio, alla fine qualcuno avrà ragione ma non mischiamo i ruoli”. E allora lui diceva: “la faremo chiudere”. Mentre per una cosa così possono farmi chiudere un mese, ma non possono togliermi la licenza. È chiaro che se loro lo vogliono possono trovare cento modi per farlo, se vogliono stroncarmi non ci sono problemi, però debbono valutare il rapporto di fatto che noi abbiamo con alcune forze politiche.
Noi contiamo molto su questo, visto che le provocazioni sono frequenti, che la polizia viene e fa domande. Ormai conosciamo tutti gli agenti di pubblica sicurezza! Domenica sera era uscito su “Il Secolo d’Italia” un articolo dove era scritto: LC ha fatto un opuscolo che si chiama Pagherete tutto; questo opuscolo che incita alla violenza viene diffuso essenzialmente dalla libreria Calusca di Milano che già a suo tempo Almirante aveva segnalato come covo delle BR, s’invitano le autorità competenti a sorvegliare il locale. Lunedì mattina, appena aperto, un agente: “Mi dà una copia di Pagherete tutto?”. “Non ce l’ho, l’abbiamo esaurito”. “Ma dove si può trovare?” “Alla sede di LC. Lo stampano loro”. “Allora mi dia “Il Secolo d’Italia””. Rispondo: “È un giornale che non teniamo”. Insomma la polizia mi dà questi fastidi, che sono mediamente logoranti, perché non è divertente avere a che fare con loro. Contiamo nel rapporto di forza che dobbiamo avere sul fatto che la Calusca è anche un luogo dove passano duemila insegnanti. La libreria è diventata famosa, da un lato per il materiale militante, ma dall’altro per questo circuito stranissimo della scuola. I 2800 insegnanti della scuola dell’obbligo, in Milano e provincia, di cui abbiamo l’indirizzo, sono una forza politica che reagirebbe alla chiusura. La scuola è certo quella che è ma ottenere che “rompano” un po’ meno a questi bambini è già qualcosa. Molti lavoratori nella scuola hanno lauree per tutt’altri mestieri e visto che non trovano lavoro fanno gl’insegnanti. Bisogna aiutarli a fare una scuola diversa, non autoritaria, anche se in maniera confusa.
Voi avete una bambina, che tipo di educazione cercate di darle?
Sabina: Antiautoritaria no, se per antiautoritarismo si intende fai un po’ quello che vuoi, sei libera. Perché non è assolutamente vero, non siamo liberi, a meno che questa libertà non ce la prendiamo. Devi educarla a prendersela. Ad esempio per noi non è giusto che distrugga un oggetto, non perché l’oggetto non vada distrutto, ma perché esso sottace un rapporto economico che deve imparare a valutare. Il nostro è antiautoritarismo controllato perché abbiamo visto dei bambini, figli di amici, lasciati liberi, diventare dei nevrotici. Il bambino ha bisogno di un modello, di un punto di riferimento, anche se questo non deve essere necessariamente la madre o il padre. Il bambino ha bisogno di chi giorno per giorno gli dia sicurezza nel rapporto, quando questo viene a mancare ne viene fuori un pazzoide, rompiscatole tra l’altro.
Primo: Nel cosiddetto circuito c’è molta confusione sul concetto di antiautorità, che funziona poco di fatto, perché ha a che fare con il concetto di famiglia e una serie di problematiche che sono tipiche del movimento della sinistra di classe. In questa casa è raro che la sera non ci siano dalle tre alle sette persone, e quasi tutti sono in coppia e molti di loro hanno dei bambini. La maggioranza di questi ha la famiglia in crisi, in gestione difficile, perché così com’è non funziona, ma non si sa bene quale sia l’alternativa. In questi anni, in mezzo a centinaia di persone, compagni e compagne, la maggioranza sposate, ho notato che sul fatto del bambino, sulla scelta dell’antiautoritarismo motivata dal rispetto per la spontaneità, per la creatività, gioca invece in maniera massiccia la tendenza al rifiuto del ruolo. Essere padre o madre, anche rinnovando tutti i contenuti della terminologia, è comunque un’assunzione di responsabilità. La crisi media della famiglia, pur quando si cerca di impostarla in maniera alternativa, porta alla rinuncia totale del ruolo e allora l’antiautoritarismo diventa una grossissima giustificazione. Di questo circuito di compagni e compagne abbiamo conosciuto dei casini incredibili, che sono il riscontro di quelli che per altro noi stessi abbiamo vissuto. Non siamo la coppia ideale astratta dal reale. A casa nostra c’è l’abitudine che la gente venga quando vuole, non si fissano appuntamenti. Ma questo non cambia le cose. I problemi ci sono anche per noi.
Questo ritmo non è logorante, la libreria, la discussione, la casa sempre aperta?
Primo: Io sono sotterrato in quella libreria, perché c’è un ritmo forzato di lavoro. Entro alle 9 ed esco alle 13, rientro alle 15 e finisco alle 21. Anche perché in quel posto c’è di tutto, comitati vari, recapiti. Fino ad un anno fa se c’era un compagno che doveva fare l’aborto tu dovevi sapergli dire qualcosa, era un suo diritto in questa struttura di servizio. Persone che cercano casa, vengono da noi, ne abbiamo trovate tante. Questa mattina un compagno, Piero, mi dice: “abbiamo trovato casa, adesso avremmo bisogno di un fornello a tre fuochi”. C’era un cliente che guardava esterrefatto, come un fornello a gas? Di fatto poi gira talmente tanta gente alla Calusca che funziona come un circuito di scambio. Questo è un fatto che in qualche modo ti occupa il cervello, ricordarsi di una cosa, dell’altra, del compagno che cerca un posto dove andare a dormire. Poi ci sono questi appoggi pesantissimi che devi dare quando ci sono delle situazioni particolari. Alla Calusca c’era il comitato Portogallo, quando del Portogallo non ne parlava nessuno, nel ’72. Per cui noi avevamo la casa piena di portoghesi, compagni militanti. Poi c’era questo lavoro da fare per il MIL per Puig-Antich e altri. Significava andare dai gruppi e spiegare che il Puig-Antich non era un gangster ma un rivoluzionario. Tutta la cosa era far capire a LC ad AO al MS che questo compagno che era stato arrestato a Barcellona e che stava per essere garrottato non era un semplice rapinatore di banca, al di là del discorso che bisognerebbe farlo anche per il rapinatore di banca, ma era anche un militante rivoluzionario. Queste cose occupano il tuo tempo, e il clima è sempre nevrotico perché lo scontro con il reale del politico dei gruppi organizzati non è certo divertente. Siamo dentro questo lavoro adesso per la questione di Sergio Spazzali, che è un compagno a suo modo diverso. Perché è vero che viene da una tradizione stalinista, ma è vero anche che lui è uno dei rari avvocati che si presta a difendere comunque, dovunque, chiunque. Per cui fa un “casino” internazionale se arrestano un avvocato della Baader-Meinhof o uno dell’IRA o uno dei Baschi. È significativo che proprio lui in questo momento paghi per una montatura mentre il suo gruppo politico tende a scaricarlo proprio perché ha commesso l’errore di occuparsi anche di cose che non sono nella linea del partito. Queste situazioni sono logoranti a livello di nervi. Il luglio ’68 è finito ma per molti di questi “compagni” sembra non sia mai cominciato, questa spinta a difendere le libertà comunque. I carcerati. Abbiamo ricevuto la lettera di Papale che muore in carcere a Poggio Reale, ed è una cosa che ti prende allo stomaco, perché sai che non lo difende nessuno, che non gli da niente nessuno, neanche un medico. Ci ha chiesto dei libri, glieli abbiamo spediti ma rimane il rapporto emotivo con uno che sta con un occhio perso per mancanza di cure, un fischio nell’orecchio e gli negano un otorinolaringoiatra perché il direttore del carcere sostiene che non c’è nessun medico di Napoli che vuole visitare un delinquente. È che la sinistra di classe che è nata sulla spinta del ’68, sulla strage di Stato, non vuol più fare la controinformazione, la difesa dei compagni perché fa i distinguo, questo è più rivoluzionario, questo meno, questo forse. Ma su uno che muore, su uno che prende 30 anni non si capisce che distinguo si possa fare. Allora, durante tutto il giorno hai vissuto questo tipo di ritmo che si traduce a volte in positivo a volte in negativo sulla gestione della famiglia. E allora insegni alla bambina che il primo principio della libertà è il rispetto della libertà dell’altro. Per cui nonostante i suoi diritti di spontaneità essa non può sovrapporsi al tuo reale quotidiano, devi scoprire insieme delle regole comuni di reciproco rispetto della tua e sua condizione.
La libreria e voi personalmente come siete stati coinvolti dalle problematiche del femminismo?
Sabina: L’anno scorso con un gruppo di amiche ci eravamo messe qua in casa a fare uno studio più approfondito sul problema della donna, le origini della famiglia e i ruoli. Poi, niente. Ho mollato. Era da alienati fare questo lavoro stando in salotto: sono contraria all’autocoscienza quando questa diventa castrazione. All’interno del nostro gruppo di donne si stava per passare proprio all’autocoscienza, al mettersi lì a tavolino a prendere in mano Freud. Ieri sera ho letto che un gruppo di donne sono entrate nella clinica ginecologica Mangiagalli, questo è un fare, un farsi sentire. Sbagliata o non che sia l’azione, la donna ha il dovere il diritto di intervenire. C’è la cosa assurda che il movimento femminista non si pone come gruppo politico. Per cui non si prendono posizioni. Bisognerebbe farlo, anche rischiando, visto che ogni giorno dei compagni rischiano la vita. Hanno ucciso Margherita Cagol, che era una donna, la Besuschio ha preso 15 anni. Petra Krause è in carcere in Svizzera e non se ne parla. Parlano invece della povera disgraziata, che è comunque una povera disgraziata, che sta a casa a lavare i piatti. Allora diciamo piuttosto che è molto più comodo parlare di questa povera disgraziata: certo è meno impegnativo.
Primo: Il discorso dei gruppi era questo: non abbiamo nessuna obiezione sul femminismo perché il femminismo non è un problema politico è un aspetto della più vasta lotta di classe. Sappiamo di avere delle colpe come uomini quindi vi lasciamo uno spazio autonomo. Meccanismo politico tipico e vecchio che serve ad emarginare e queste donne ci cascano come se non avessero alle spalle, e tante ce l’hanno, anni di esperienza all’interno dei gruppi. Questi hanno accolto per lungo tempo le donne, selezionandole se possibile tra le più graziose, perché erano un momento della fusione interna. Si diceva tra i giovanissimi dei licei, andiamo da LC, lì ci sono le compagne più graziose. C’era questo uso, è allucinante ma è vero. Chiaro che giustamente poi in molti gruppi la questione delle donne è uscita in modo dirompente, proprio per l’uso che veniva fatto del corpo femminile. Venne fuori il discorso del rapporto personale politico. Al di là del fatto che penso che se uno è politico è anche correttamente personale e che non è il personale che determina il politico ma che la mancata comprensione del politico determina un personale disastroso o comunque difettoso. Lì, era chiaro, la comprensione del politico era piuttosto bassa, per cui i gruppi, quando hanno visto che il femminismo cresceva, hanno messo in moto le commissioni femminili. Queste hanno fatto emergere delle contraddizioni che di fatto hanno provocato l’abbandono delle organizzazioni di un certo numero di compagne e il loro rifugio nella pratica dell’autocoscienza. L’identificazione del proprio ruolo è un problema grosso ma è anche vero che ha determinato l’emarginazione di molti collettivi femminili. Per cui l’atteggiamento paternalistico dei dirigenti dei gruppi che pensano di essere dei corretti compagni di strada delle donne per il solo fatto che lasciano spazio all’interno dei loro singoli movimenti organizzati ai problemi femminili è veramente una cosa olivettiana, come lasciare agli operai le biblioteche.
“Primo e Sabina della libreria Calusca di Milano” in Emina Cevro Vukovic,
Vivere a sinistra. Vita quotidiana e impegno politico
nell’Italia degli anni ’70. Un’inchiesta Arcana, Roma, 1976