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Primo Levi, la questione del potere nei campi e il capitalismo del terrore: una conversazione con Darren Byler

Cosa può dire lo scrittore Primo Levi, sopravvissuto all’Olocausto, sui campi di rieducazione nel Xinjiang di oggi? Che ruolo ha il lavoro in queste strutture? Queste e altre questioni sono al centro della conversazione con l’antropologo Darren Byler


Cosa può dire lo scrittore Primo Levi, sopravvissuto all’Olocausto, sui campi di rieducazione nel Xinjiang di oggi? Che ruolo ha il lavoro in queste strutture? Cos’è il capitalismo del terrore e in che modo è collegato alle altre frontiere del capitalismo globale? Può esistere una sorveglianza “benevola”? Queste e altre questioni sono al centro della conversazione con l’antropologo Darren Byler che negli ultimi anni è diventato una voce di primo piano nel documentare la detenzione di massa degli Uiguri e delle altre minoranze musulmane del Nord-ovest in Cina. La pubblicazione imminente di In the Camps: China’s High-Tech Penal Colony (Columbia Global Reports, Ottobre 2021), Xinjiang Year Zero (co-edito con Ivan Franceschini e Nicholas Loubere, ANU Press, Gennaio 2022), e Terror Capitalism: Uyghur Dispossession and Masculinity in a Chinese City (Duke University Press, Febbraio 2022) ci offre lo spunto per rivedere alcuni aspetti chiave del suo lavoro.


Ivan Franceschini: Siamo spesso attenti a evitare di compiere facili paragoni storici quando trattiamo eventi contemporanei, eppure la storia fornisce lezioni perturbanti quando si arriva ai campi del Xinjiang. Hai citato spesso nei tuoi libri Primo Levi, il grande scrittore sopravvissuto all’Olocausto, per sottolineare alcuni modelli comuni tra la situazione nei campi del Xinjiang come descritta dai sopravvissuti e l’esperienza di internato nei campi nazisti di Levi durante la II Guerra mondiale. Vorrei esplorare di più questo tema nella nostra conversazione. Il primo termine di paragone ovvio è la disumanizzazione dei prigionieri. Citi in particolare questo passo da Levi: «… alcuni ci percuotono per pura bestialità e violenza, ma ve ne sono altri che ci percuotono quando siamo sotto il carico, quasi amorevolmente, accompagnando le percosse con esortazioni e incoraggiamenti, come fanno i carrettieri coi cavalli volenterosi» (Se questo è un uomo, p. 114). Una delle memorie e dei lasciti più infami dei lager sono i numeri tatuati sul polso dei prigionieri. Questo processo di disumanizzazione come si manifesta oggi nei campi del Xinjiang?


Darren Byler: Mentre ricercavo fra i resoconti sentiti dai detenuti e quelli che ho letto nei documenti interni della polizia, mi sono rifatto al lavoro di Levi come esempio di metodo di scrittura che volevo usare nel libro e non perché l’Olocausto sia il miglior esempio per fare un paragone col sistema dei campi. È vero che la morte a causa di negligenza, di malattia e di abuso avviene frequentemente nei campi del Xinjiang, ma l’uccisione di massa dei campi della morte nazisti non c’è. Quindi, per certi versi, esempi storici presi dalla Cina e dall’Unione Sovietica offrono migliori analogie in merito all’ideologia e alla gestione dei campi; riguardo alla detenzione razziale e religiosa dell’Altro, i campi di detenzione contemporanei nell’Iraq occupato sarebbero stati un miglior metro di paragone. La straordinarietà del lavoro di Levi consiste nella sua osservazione minuziosa dei sistemi di potere. Osservando i piccoli dettagli e le norme burocratiche della vita del campo, lui dimostra come sia stata possibile una violenza extra-ordinaria. L’obbiettivo del mio lavoro è stato di fare attente, e piccole, asserzioni di verità che si aggiungono a qualcosa di più grande.


IF: Levi e forse Hannah Arendt (1964) hanno fornito alcune fra le migliori riflessioni sulle implicazioni dei sistemi di disumanizzazione ed è quello che prendo in considerazione anche io in questo libro. Volevo capire cosa significa l’internamento di massa nel nostro momento storico, e in particolare il ruolo che ha l’uso della tecnologia avanzata in questo processo. Per essere chiari, è vero che scrivo dopo aver vissuto due anni nella società che indago e su cui rifletto da una decina d’anni, ma è ben diverso rispetto a Levi che ha fatto esperienza diretta di quel che ha scritto, o della Arendt che era parte della comunità colpita. Scrivo quindi da una maggiore distanza rispetto a loro e, ovviamente, con molte meno capacità.


DB È per questo che mi sono riferito ai lavori di Levi. E, nel farlo, alcune cose che le persone mi hanno detto, sono emerse in modi che altrimenti non avrebbero potuto. Una di queste è legata a un pastore kazako che ho chiamato Adilbek. Ha davvero messo in luce quel che l’esperienza del campo ha significato per lui che ha speso una vita con le pecore e che, da musulmano, ha evitato la carne di maiale per tutta la vita. Ha detto che le guardie li colpivano con forza quando volevano punirli, li colpivano meno forte se invece cercavano solo di mettergli fretta, «come un contadino che pascola le pecore», una frase che mette a disagio per la sua somiglianza con la citazione che hai fatto da Levi. Anche le guardie, molte delle quali kazake e uigure, vengono dalla campagna e hanno la stessa tradizione halal. Quindi, per esercitare la propria autorità sui prigionieri, li chiamavano direttamente cani o maiali, soprattutto quando li colpivano perché avevano sfidato l’autorità. Numerosi prigionieri provenienti da tutta la regione hanno parlato dell’utilizzazione dei nomi per disumanizzare i prigionieri, ma Adilbek è stato il più esplicito nel descrivere i diversi tipi di percosse.

La disumanizzazione nei campi si realizza tramite un processo di de-individualizzazione e di scarsità imposta. In ogni campo, viene data un’uniforme e vengono rasati i capelli o tagliati cortissimi. In molti casi, i prigionieri sono stati costretti a usare dei secchi per i propri bisogni davanti a tutti gli altri prigionieri e di fronte alle videocamere di sorveglianza ad alta definizione.

La puzza dei secchi pervade la cella. Ai prigionieri viene permesso di lavarsi di rado e la possibilità di cambiare i vestiti è ancora meno frequente. Il tempo della doccia è limitato e così i prigionieri lottano spesso fra loro per l’acqua e il sapone. Sono costretti a cantare le canzoni “rosse” il più forte possibile prima di mangiare. Spesso il cibo non viene dato finché non hanno cantato per bene. Molti si ammalano a causa del cibo povero, della mancanza di igiene e per le ore seduti su seggiolini di plastica o sulle panche e per le botte e la mancanza di cure mediche. Anche se non hanno assegnato un numero fisso, nelle celle rispondono all’appello col numero che gli viene assegnato per cella. Il numero viene dato solitamente in base a chi è il “capo-classe” della cella e in base al tempo in cui si è arrivati; all’ultimo arrivato viene dato il numero più alto e la posizione più scomoda per dormire. Se ci sono più prigionieri rispetto allo spazio stretto delle brande dove si dorme fianco a fianco, i prigionieri sono costretti a fare i turni e stare in piedi, e ciò aggiunge un ulteriore motivo di conflitto nell’ordine sociale della cella.


IF: Una seconda somiglianza sta in ciò che Levi ha chiamato la “zona grigia”, nome che, tristemente o forse giustamente, è anche utilizzato oggi da uno dei principali siti che diffonde disinformazione su quel che accade nel Nord-ovest cinese. Nei Sommersi e salvati del 1986, Levi discute a lungo della “zona grigia”, di «prigionieri che in qualche misura, magari a fin di bene, hanno collaborato con l’autorità, non era sottile, anzi costituiva un fenomeno di fondamentale importanza per lo storico, lo psicologo ed il sociologo. Non c’è prigioniero che non lo ricordi, e che non ricordi il suo stupore di allora: le prime minacce, i primi insulti, i primi colpi non venivano dalle SS, ma da altri prigionieri, da “colleghi”, da quei misteriosi personaggi che pure vestivano la stessa tunica a zebra che loro, i nuovi arrivati, avevano appena indossata» (pp. 10-11 della prefazione di Primo Levi a I sommersi e i salvati). Nei tuoi libri, tratti ampiamente i modi in cui i campi di rieducazione nel Xinjiang producono le condizioni che fanno emergere questo tipo di dinamiche e infatti dedichi interi capitoli nel libro In the Camps ai collaboratori; discuti anche su come le relazioni fra i prigionieri stessi siano caratterizzate da violenza. Puoi parlarci di più di questo aspetto dei campi? Che persone sono quelle che finiscono per sostenere l’economia dei campi e quali sono le loro motivazioni?


DB: La maggior parte della disciplina nello spazio dei campi proviene dagli altri detenuti dentro le celle, dalle guardie uigure e kazake, dai tutor han e musulmani e dagli “insegnanti di vita”, dai burocrati han e uiguri del Ministero degli affari civili che monitorano i progressi dei detenuti, dai giudici, dai pubblici ministeri di ogni etnia. Considero tutti questi individui come parte di quella zona grigia che Levi descrive. Siccome operano nello spazio extra-legale del campo o attorno a esso, hanno un potere straordinario sui prigionieri, però non sono loro gli architetti di questo sistema, questi ultimi vanno ricercati nei comandanti dei campi, nei creatori del sistema, nei segretari di partito che stabiliscono le quote e così via. ù

I musulmani coinvolti nel sistema si trovano di fronte al grado massimo di coercizione, dato che la retorica permanente sullo sradicamento e la distruzione delle persone “doppie” si applica proprio sempre su di loro. Anche i civili han che lavorano nei campi o che valutano l’affidabilità dei loro vicini musulmani, si trovano minacciati dalla possibilità di perdere il lavoro, di perdere il proprio status, se non sembrano sostenere la campagna, e possono essere arrestati (anche se è molto raro), se si mettono a resistere al sistema. Sull’altro versante, chi partecipa alle campagne è spesso ricompensato con promozioni, encomi e bonus.

Qui troviamo un collegamento con la riflessione della Arendt (1964) sull’ottundimento della coscienza. In una società dove poche voci che dissentono e poche informazioni contraddicono la verità del regime, è relativamente facile accettare le norme date senza pensarci troppo. Una delle cose su cui sto riflettendo è il modo con cui la tecnologia avanzata che è stata usata fra la popolazione musulmana del Xinjiang per individuare crimini terroristici non gravi (Government of China, 2019), riesca ad aggregare ed espandere questo tipo di costruzione di verità non riflessiva. In molti casi sembra che il controllo gestito dalla tecnologia crei dei modelli di azione che indeboliscono il bisogno e la possibilità del pensiero riflessivo.


IF: Questo ci porta alla questione della solidarietà che discuti nel tuo libro Terror Capitalism. Nella ricognizione sui campi nazisti, Levi ha ricordato anche che «si entrava sperando almeno nella solidarietà dei compagni di sventura, ma gli alleati sperati, salvo casi speciali, non c’erano; c’erano invece mille monadi sigillate e fra queste una lotta disperata, nascosta e continua» (I sommersi e i salvati, p, 25) Qual è la situazione della solidarietà sia dentro ai campi sia fra chi è dentro e chi è fuori, compresi gli han?


DB: La mia impressione è che nel Xinjiang, dentro e fuori i campi, la società sia fatta di «mille monadi sigillate». Nei campi, le persone si confrontano, almeno all’inizio, per dare un senso a quel che gli è appena capitato e a quel che gli accadrà. Quindi, all’inizio, molto si discute a sottovoce sui motivi per cui le persone sono state detenute. Ma negli interrogatori e nel tempo in cella, le guardie e gli inquirenti spesso riescono a mettere i detenuti gli uni contro gli altri. Durante gli interrogatori, i prigionieri sono costretti a confessare una sorta di crimine “medio”, non troppo colpevole da meritare la prigione ma nemmeno innocente da evitargli la permanenza nel campo (sostenere la propria innocenza è interpretata come resistenza o come “avere una cattiva condotta”). Nel dichiarare questo tipo di colpevolezza, il prigioniero deve spesso fornire i nomi di altri che sono più colpevoli: di quelli che lo hanno invitato la prima volta a un gruppo di studio sul Corano su Wechat o di chi gli ha mostrato come usare una rete VPN (Virtual Private Network) e così via. La posizione privilegiata del “capoclasse” nella cella porta con sé la responsabilità di fornire informazioni sui detenuti che resistono o che non adempiono ai propri doveri e di distribuire le punizioni per la mancanza di disciplina. Col passare del tempo, diventando più disperati, i detenuti spesso cominciano a sospettare gli uni degli altri, quell’iniziale solidarietà scompare e le persone restano semplicemente in silenzio.
Fuori dai campi fra la popolazione han c’è una sicura solidarietà etno-nazionalistica durante la campagna. L’ultima volta che ci sono stato, nel 2018, i “volontari” han che vengono mandati nei villaggi per monitorare le famiglie uigure si consideravano fra loro come compagni e davvero si percepivano come alleati in una lotta comune contro il terrorismo nascosto che loro imputano agli uiguri. In alcuni casi, si vedono come chi aiuta gli uiguri in senso paternalistico, cioè come chi sta salvando gli uiguri da se stessi.

In alcuni segmenti della popolazione han, specialmente chi ha vissuto vicino agli uiguri prima delle ondate di migranti portati dall’economia di mercato a fine anni Novanta e primi Duemila, c’è una buona dose di simpatia per gli uiguri e i kazaki, ma in molti casi queste persone non sono nella posizioni di agire fuori dalla propria sfera sociale immediata. Molti documenti trapelati che hanno fatto luce sul funzionamento interno del sistema provengono da persone han che vogliono rendere noto, di nascosto, quel che viene fatto in loro nome.

Fra gli uiguri e i kazaki, in alcuni casi, il sistema dei campi ha prodotto una maggiore solidarietà fra diverse classi e diverse concezioni etiche, dal momento che molti cittadini urbani e ricchi, che erano stati meno esposti in precedenza, ora hanno dei propri cari scomparsi. Ma ha anche prodotto un grande senso di alienazione. Membri della famiglia dei deportati hanno detto di essere stati ostracizzati nelle proprie comunità e molte mogli hanno divorziato come conseguenza della deportazione di uno di loro. Tutto ciò crea le monadi sigillate che Levi ha descritto.

IF: L’opera di Levi fornisce anche alcune intuizioni fondamentali sul ruolo del lavoro nei campi di concentramento, oltre il nefasto motto “Arbeit Macht Frei” posto all’entrata di Auschwitz e di altri campi nazisti. Ancora nei Sommersi e salvati, scrive: Il lavoro non retribuito, cioè schiavistico, era uno dei tre scopi del sistema concentrazionario; gli altri due erano l’eliminazione degli avversari politici e lo sterminio delle cosiddette razze inferiori» (p. 94). Levi nota come, nei primi lager, il lavoro serviva solamente a scopo persecutorio e non aveva nessuna utilità in termini di produzione. E ciò perché «per la retorica nazista e fascista, erede in questo della retorica borghese, “il lavoro nobilita”, e quindi gli ignobili avversari del regime non sono degni di lavorare nel senso usuale del termine. Il loro lavoro dev’essere afflittivo: non deve lasciare spazio alla professionalità, dev’essere quello delle bestie da soma, tirare, spingere, portare pesi, piegare la schiena sulla terra. Violenza inutile anche questa: utile forse solo a stroncare le resistenze attuali e a punire le resistenze passate» (pp. 94-95). Quali sono gli scopi del lavoro nei campi di rieducazione nel Xinjiang?


DB: Molti ex detenuti hanno notato come l’aver avuto il permesso di lavorare nel campo o di essere trasferiti a lavorare in fabbrica dal campo sia stato un grande sollievo dalla pena e dalla violenza della vita nelle celle e nelle aule. Avere semplicemente qualcosa da fare e avere un minimo di autonomia fisica li ha fatti sentire umani. Siccome le fabbriche dove i detenuti vengono trasferiti (da non confondere con le fabbriche a cui sono assegnati i contadini) sono gestite col supporto del personale del campo, molti detenuti vedono la fabbrica ancora come uno spazio carcerario. In alcuni casi, sono chiusi a chiave in cubicoli mentre lavorano e non viene loro consentito di muoversi oltre i limiti dello spazio assegnato senza permesso. Le guardie e i dirigenti li vedono come pericolosi e li trattano spesso ancora come criminali piuttosto che come lavoratori o dipendenti.
Quelli che sono stati messi in una sorta di arresti domiciliari hanno ugualmente parlato di come siano stati costretti a esprimere la propria sottomissione agli impiegati del Ministero degli affari civili che li tengono sotto controllo. Un ex detenuto a cui era stato assegnato il lavoro di cuoco e addetto alle pulizie in una unità abitativa [社区] degli Affari civili ha detto che le due donne Han che lo tenevano sotto controllo si aspettavano da lui che partecipasse a ogni alzabandiera e cantasse le canzoni patriottiche a comando. Lui ha detto che ha imparato a tenere il sorriso in faccia e dire “va bene, va bene” a ogni loro richiesta. Ha detto che si sentiva come se fosse il loro cagnolino. Degli ex detenuti che ho intervistato, nessuno è stato in grado di chiedere il compenso per il proprio lavoro. In generale, veniva loro fatto sentire di dover essere grati per non essere più rinchiusi nelle celle dei campi. In alcuni casi sono stati avvertiti che avrebbero potuto tornarvi in un attimo.


Le forme di coercizione date dallo status che deriva dalla detenzione – che, come sottolinea Erin Hatton (2020), non si riferisce alla minaccia di perdere un lavoro o un reddito, ma alla minaccia di essere etichettati come inaffidabili – sono estreme. Ciò significa che il lavoro è principalmente legato all’estrazione massima di profitto da lavoratori estremamente controllati, che nel mio libro Terror Capitalism chiamo sottoclasse.

Significa che, almeno a breve termine, questi lavoratori sono esclusi dal diritto di scegliere liberamente dove lavorare e a quali condizioni. È il caso sia degli ex detenuti uiguri sia dei contadini kazaki che sono semplicemente considerati improduttivi o “lavoratori in sovrappiù” [剩余劳动力]. I documenti di stato mostrano come le persone che rientrano nelle categorie dell’assegnazione del lavoro sono ordinate in base alla loro affidabilità [Qapqal County Social Security Bureau, 2018]. Quelli a cui viene dato un certificato che ne attesta l’affidabilità, sono tipicamente quelli che vengono mandati nelle fabbriche di tutto il paese insieme alla polizia e ai funzionari che ne assicurano la disciplina. Quelli che ricadono nella categoria di “normale” sono mandati a lavorare in vari luoghi del Xinjiang, quelli che ricadono nella categoria di “inaffidabile” sono inseriti in una varietà di tipi di “formazione” (培训. I campi, o i “centri di concentramento chiusi di formazione ed educazione” [集中封闭培训教育中心], sono uno dei canali di questa “formazione”. In tutti i casi, i dirigenti che gestiscono i lavoratori coatti musulmani usano la forma di controllo securitario del “regime di lavoro dei dormitori” (Smith e Pun, 2006) che è adoperata per gli operai migranti in tutto il paese. Per gli ex detenuti che lavorano nelle fabbriche associate ai campi, piuttosto che per i lavoratori musulmani in sovrappiù che lavorano nelle zone dell’est della Cina, le misure di sicurezza impiegate in questo “regime di lavoro di rieducazione” sono grandemente rafforzate da forme di tracciamento biometrico, checkpoint e zone sigillate.


I.F.: E’ interessante che Levi si preoccupi di indicare anche come il lavoro possa servire come una difesa nei campi per quelli che riescono a trovare un modo per essere assegnati a un impiego collegato alle proprie competenze. Queste persone, scrive, “A differenza della fatica puramente persecutoria, quale quella che ho appena descritta, il lavoro poteva invece talvolta diventare una difesa. Lo era per i pochi che in Lager riuscivano ad essere inseriti nel loro proprio mestiere: sarti, ciabattini, falegnami, fabbri, muratori; questi, ritrovando la loro attività consueta, recuperavano in pari tempo, in certa misura, la loro dignità umana.”(pp. 94-95, I sommersi e i salvati)Per altri, il lavoro è stato un sollievo perché li distrae dal pensiero di un futuro immediato terribile. L’economia dei campi del Xinjiang ha spazio per questo tipo di valorizzazione del lavoro?


D.B. E’ vero, lavorare fornisce una uscita e un tipo di valorizzazione, specialmente per quelli che hanno delle competenze accumulate prima della detenzione. Per esempio, Vera Zhou che è stata studentessa di geografia all’Università di Washington e che è stata spinta a lavorare gratuitamente come insegnante di inglese per la famiglia di un funzionario di polizia dopo la sua detenzione, ha detto che avere nuovamente un ruolo sociale l’ha aiutata a riprendere fiducia come persona e a capire l’ingiustizia che ha subito. In generale, siccome il lavoro è concesso solo a chi dimostra la propria sottomissione e di aver passato l’esame di lingua cinese e l’esame di diritto, questo significa che i detenuti hanno passato una certa soglia nella loro rieducazione. Quindi, questo fa sentire i prigionieri di aver passato il peggio e che ora possono essere più sicuri.

Ma il regime di lavoro della rieducazione opera con una logica di sorveglianza estremamente coercitiva e una indeterminatezza legale che non consente di richiedere una retribuzione equa o condizioni di lavoro autonome. I lavoratori sono sempre in una posizione di forte dipendenza a causa della loro “detenibilità” e a grazie alle infrastrutture che la rafforzano.

I.F.: Non ci sono dubbi che i campi di concentramento abbiano una storia abbastanza lunga. Come ha brillantemente mostrato Andrea Pitzer nel suo One Long Night (2017), la comparsa di queste strutture verso la fine del XIX secolo è intimamente legata ai progressi scientifici e tecnologici e ha poco a che vedere con lo specifico sistema politico di un paese. I campi di concentramento furono ideati prima dagli spagnoli a Cuba negli anni novanta dell’800, usati in modo più estensivo dagli inglesi in Sud Africa durante la guerra boera, normalizzati durante la prima guerra mondiale da ogni forza in campo, e infine sono comparsi nelle loro varianti più estreme con i gulag sovietici e i lager nazisti, prima di cadere nelle forme più familiari di luoghi di detenzione “neri” che sono diventate comuni in America Latina negli anni ’70. Levi e molti degli autori che hanno discusso le differenti manifestazioni dei campi di concentramento nella storia recente, inquadrano le loro analisi nel contesto della violenza di stato, dell’autoritarismo fino al totalitarismo. Tu invece scegli di trattare i campi nel Xinjiang come una forma di “capitalismo del terrore” nel contesto del “capitalismo globale”. Questo quadro a qualcuno potrebbe sembrare contro-intuitivo perché sembrerebbe sottovalutare la capacità di agire delle autorità cinesi. Perché pensi che il capitalismo, o il capitalismo del terrore sia il modo migliore di inquadrare e significare quel che sta accadendo nel Xinjiang? Più importante, credi che i campi nel Xinjiang rappresentino una rottura storica rispetto alle altre forme di detenzione di massa che sono apparse nel lungo ventesimo secolo? Se sì, qual è la differenza?

DB: Nelle analisi e nelle critiche dei sistemi dei campi (il lavoro di Andrea Pitzer rappresenta un’eccezione) c’è spesso la volontà di addossare la responsabilità dei campi alla natura cattiva dei singoli capi. Se la leadership politica e l’ideologia giocano sicuramente un ruolo cruciale, e quindi i campi nel Xinjiang non sarebbero stati possibili senza capi politici come Xi Jinping, Chen Quanguo e Zhu Hailun insieme a tutto il sistema del Partito-Stato, mi sembra che limitare l’analisi a questi attori possa far correre il rischio di ignorare le condizioni economiche e materiali che hanno fatto emergere lo strisciante antagonismo e hanno dato vita alla situazione attuale. Dal mio punto di vista, la storia dei campi e lo stato di sorveglianza risale agli anni Novanta quando la ricerca per le risorse naturali utili a sostenere l’economia cinese orientata alle esportazioni portò alla trasformazione del sud della regione a maggioranza uigura in una colonia interna. La risposta uigura, reale e immaginata, all’espropriazione ha portato all’adozione della retorica della Guerra al terrore e delle tattiche post-11 Settembre da parte dello Stato. Questo spazio di guerra ha fornito la base per costruire e sperimentare le nuove tecnologie del controllo della popolazione che hanno spinto alla crescita esponenziale delle industrie della visione computerizzata e del controllo digitale in un’ampia gamma di ambiti. Allo stesso tempo, il sistema dei campi e della sorveglianza sono divenuti il vettore dell’economia regionale, attirando aziende interessate ai sussidi, ai bassi costi, al lavoro sottomesso in settori poco qualificati come la produzione di indumenti. Ciò significa che ci sono state un’azione e una risposta economica e politica che hanno prodotto la dinamica che oggi vediamo nel Xinjiang.

È importante dire come questa dinamica sia collegata con i movimenti che caratterizzano i sistemi economici e politici globali non solo per le filiere, per lo sviluppo di strumenti di controllo e per le teorie dell’insorgenza, ma anche in relazione a quel che sono le frontiere del capitalismo contemporaneo.

Parte di ciò che voglio mettere in luce nel libro è come il termine “capitalismo del terrore” debba essere pensato in relazione ai recenti studi che si concentrano su delle particolari frontiere del capitalismo globale come il capitalismo dei disastri e quello della sorveglianza (Klein 2007; Zuboff 2019). È anche importante concentrarsi sul modo in cui queste nuove formazioni globali devono essere pensate e articolate dentro i processi imperialisti e coloniali attuali del capitalismo razziale.

Il capitalismo dei disastri teorizza la risposta del complesso economico e politico ai disastri legati alla crisi climatica, un tipo di “capitalismo del contro-disastro” che si giustifica oscurando il ruolo del capitalismo e dell’ideologia politica nella produzione stessa dei disastri. Similmente, il capitalismo della sorveglianza o dataveillance si nasconde in piena luce, copre con la patina della convenienza smart e della velocità della logistica la produzione di soggetti digitali controllati e lo sfruttamento di lavoratori precari, spesso razzializzati. Queste nuove formazioni globali sono connesse al capitalismo razziale, questo consente di capire come il processo di formazione delle frontiere abbia la propria premessa nell’espropriazione della terra e del lavoro dell’altro etno-razzializzato; è un tipo di capitalismo che si giustifica oscurando la produzione della razza e del valore della differenza.

Il capitalismo del terrore è collegato ai contesti di questi sistemi globali contemporanei e alle loro storie. È un tipo di “capitalismo dell’antiterrorismo” che trova la sua premessa sulla prevenzione di eventi terroristici concepiti come disastri. Però, chiamandolo “capitalismo dell’antiterrorismo” si offusca il modo con cui la formazione capitalista stessa produce la figura del terrorista da intendersi come oggetto di investimento. I terroristi e il terrorismo non sono dati a priori, ma sono piuttosto fenomeni storicamente contingenti. Trattarli come oggetti concreti che possono essere “contrastati”, serve a mascherare la nuova forma di capitalismo razziale che si attacca ai corpi musulmani come risultato della Guerra globale al terrore (Mamdani, 2002; Rana, 2011; Brophy, 2019). In questo senso il capitalismo del terrore, e particolarmente nel contesto domestico, interno e coloniale come quello del Nord ovest della Cina, combina la macchina da guerra della prevenzione del terrorismo come disastro, la data-sorveglianza delle aziende e della polizia con l’apparato di razzializzazione dei sistemi della frontiera capitalista e coloniale. Il capitalismo del terrore riguarda la produzione del terrorista come categoria giuridica e come oggetto di uno sguardo tecnologico, e a sua volta l’espropriazione della terra e del lavoro di coloro che sono prodotti come potenziali terroristi.

Inquadrare il sistema come un’espressione del capitalismo del terrore consente di avere un oggetto di critica diverso rispetto all’interpretazione del sistema come una nuova forma del terrore di stato. Il capitalismo del terrore, a differenza del terrore di stato, mette l’attenzione sul legame fra l’investimento dello stato e dell’industria privata nelle attività ordinarie del processo di creazione capitalistica della frontiera.

Ancora più importante è il fatto che rifocalizza l’attenzione fuori dalle metodologie nazionalistiche che sviluppano narrazioni basate sull’ “autorità dello stato” e che dominano la maggior parte della discussione nelle scienze sociali contemporanee cinesi; in questo modo si blocca quel facile ricadere nei binari della guerra fredda, per i quali la Cina è il luogo del dispotismo illiberale e della crisi dei diritti umani, ignorando come i sistemi del capitalismo razziale e della sorveglianza che prendono di mira cittadini indifesi sono generati negli USA e altrove. Questa argomentazione non nega il ruolo del Partito Comunista Cinese nell’ordinare e incentivare l’industria privata a entrare in questi sistemi; serve solo a dire che il quadro che si limita a indagare il terrore di stato è diventato dominante, ma la mia analisi dimostra come tale quadro non comprende a pieno le logiche economiche e politiche e gli effetti materiali del sistema.


IF: La sorveglianza digitale è un argomento fondamentale in tutti i tuoi libri, visto che, come hai chiarito, gli avanzamenti tecnologici in questo settore sono ciò che ha reso possibile i campi nel Xinjiang. Mentre sottolinei come i sistemi di sorveglianza sostengono il razzismo sistemico e la disumanizzazione rendendo detenibili popolazioni mirate, pure in Occidente, spieghi anche che ci sono differenze significative tra ciò che sta accadendo nella Cina nord-occidentale e altrove. Scrivi in In the Camps: «Nel Xinjiang la rete delle telecamere è molto più densa ed è supportata da checkpoint e dalla sorveglianza dei dati, ogni residente della regione ha fornito i propri dati biometrici alle autorità per l’onnicomprensiva “salute pubblica”. Grazie all’accuratezza e alla scala dei dataset su cui i loro algoritmi sono preparati, gli strumenti a disposizione delle autorità del Xinjiang sono molto più precisi e invasivi”. Se la tecnologia è ritenuta neutrale e la differenza è solo nei gradi, vietare il commercio con le aziende cinesi impegnate in questi campi o chiedere che le università smettano di cooperare con gli attori cinesi in questi ambiti, anche se importante, è come arrampicarsi sugli specchi. Nel suo trattato sulla politica post-pandemica, Benjamin Bratton ha di recente sostenuto la necessità di un cambiamento epistemico verso una “biopolitica positiva”, che comporterebbe una sostanziale rivalutazione/riformulazione del termine “sorveglianza”. Pensi che questo sia possibile e consigliabile?


DB: La tecnologia avanzata ha di certo un ruolo da svolgere in un’ampia serie di questioni che il mondo contemporaneo affronta, sicuramente in termini di crisi climatica e di disuguaglianza sociale globale. La risposta allo stato di sorveglianza e al capitalismo digitale non è semplicemente vietare gli strumenti algoritmici. Piuttosto, richiede un orientamento tecnologico per la liberazione umana, la giustizia sociale e la protezione delle popolazioni vulnerabili. Significa limiti chiari e applicabili su quali tipi di dati possono essere raccolti e per quale scopo. Rifiutarsi di sostenere le aziende cinesi che sono coinvolte nei campi, o boicottare le aziende statunitensi che sostengono i sistemi militari e di polizia degli Stati Uniti – cose che sostengo come tattica a breve termine da una prospettiva di giustizia morale – non produrrà di per sé i cambiamenti strutturali che sono necessari per far funzionare la sorveglianza in un modo fondamentalmente diverso (come quello che suggerisce Bratton). Come scienziato sociale, il mio metodo di ricerca è esso stesso una forma di sorveglianza – un processo a livello granulare di osservazione e partecipazione ai fenomeni che voglio capire. In passato, il metodo dell’etnografia è stato messo al servizio di progetti imperiali e, in Iraq come in Afghanistan, della teoria della contro-insurrezione. Il problema della sorveglianza non è limitato al metodo o alla tecnologia in sé, ma piuttosto è legato alla questione di chi sta guardando, cosa sta guardando e per quale scopo. In un’epoca di recinzioni digitali e di big tech, la totalità della vita è ora oggetto di sorveglianza e il “chi guarda” è definito da coloro che controllano queste recinzioni. Per i cittadini protetti come me, questa situazione è sconcertante ma non terribile. Per i cittadini non protetti come gli uiguri, o i migranti senza documenti negli Stati Uniti, queste tecnologie marcano la vita. Il design e la regolamentazione della tecnologia devono partire da questa posizione, piuttosto che da quella dei cittadini protetti. In definitiva, questo è ciò che spero che questi due libri spingano i lettori a considerare.

Articolo pubblicato su Made in China Journal

Traduzione in italiano a cura di Giogo per una pubblicazione congiunta su Dinamopress e Sinosfere

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Smith, Chris and Ngai Pun. 2006. ‘The Dormitory Labour Regime in China as a Site for Control and Resistance.’ The International Journal of Human Resource Management 17(8): 1456–70.
Zuboff, Soshana. 2019. The Age of Surveillance Capitalism. London: Profile Books.

Darren Byler è professore associato di studi internazionali alla Simon Fraser University di Vancouver, British Columbia. È autore di un’etnografia intitolata Terror Capitalism: Uyghur Dispossession and Masculinity in a Chinese City (Duke University Press, 2022); di In the Camps: China’s High-Tech Penal Colony (Columbia Global Reports 2021), ed è co-editore di Xinjiang Year Zero (ANU Press, 2021). I suoi attuali interessi di ricerca si concentrano delle infrastrutture dello sviluppo e sulla Cina globale nel contesto dello Xinjiang e della Malesia.

Ivan Franceschini è post-doc presso l’Università Nazionale Australiana. La sua ricerca si concentra principalmente sulle questioni del lavoro in Cina e sull’impatto sociale degli investimenti cinesi nel sud-est asiatico, in particolare in Cambogia. È il fondatore e co-editore di Made in China Journal e di The People’s Map of Global China. I suoi ultimi libri sono i volumi co-editi Afterlives of Chinese Communism: Political Concepts from Mao to Xi (ANU Press e Verso Books, 2019), Xinjiang Year Zero (ANU Press, 2021), e Proletarian China: A Century of Chinese Labour (Verso Books, 2022). Con Tommaso Facchin, ha co-diretto i documentari Dreamwork China (2011) e Boramey: Ghosts in the Factory (2021).