MONDO
In prigione, ancora, per aver protestato contro il regime coloniale israeliano
Lunedì 6 gennaio due poliziotti sotto copertura hanno arrestato l’attivista israeliano Jonathan Pollak – da sempre attivo con il collettivo Anarchists Against the Wall – presso il suo luogo di lavoro a Tel Aviv, la sede del quotidiano “Haaretz”
Il suo arresto, incitato e montato dal gruppo di estrema destra Ad Kan, segna una novità nel decennale processo di espropriazione, colonizzazione, discriminazione e segregazione da parte dello stato israeliano nei confronti della popolazione palestinese e di tutte le persone che si oppongono al suo regime.
Il gruppo Ad Kan, supportato dal Samaria Settlers’ Committee – organizzazione di estrema destra finanziata in parte con soldi pubblici – si è reso noto qualche anno fa per aver infiltrato alcuni dei suoi membri presso associazioni e collettivi che lottano contro il regime coloniale israeliano. Che il livello di controllo sociale e repressione abbia fatto un salto di qualità lo si può riscontrare proprio in questo passaggio: mettere in conto l’infiltrazione di membri degli apparati di “sicurezza” è cosa ovvia, meno da parte di privati cittadini.
In questa maniera, tre attivisti israeliani sono stati spiati con telecamere nascoste durante azioni di solidarietà in West Bank al fianco della popolazione palestinese. Jonathan Pollak era uno di questi.
Alla fine del 2018 il terreno era così pronto per il lancio di un’azione penale privata contro i tre attivisti, procedimento sui generis anche per un regime come quello israeliano, che sullo stato d’eccezione ha imperniato la sua storia.
Il contenuto dell’azione penale è tra i più utilizzati per limitare la libertà delle e degli attivisti palestinesi e, in seconda battuta, anche di quelli israeliani e internazionali: aggressione a pubblico ufficiale o, come più correttamente chiamati dalla popolazione palestinese, “forze di occupazione israeliane”.
La denuncia di Ad Kan non fornisce tuttavia alcuna prova per dimostrare il coinvolgimento degli attivisti, riporta solamente la loro presenza ad azioni di solidarietà al fianco della popolazione palestinese, durante le quali giovani palestinesi avrebbero lanciato pietre contro le forze di occupazione – gesto entrato nell’immaginario israeliano e internazionale come massima forma di affronto alla vita di chi ha dalla sua parte spray urticante, lacrimogeni, bombe sonore, mezzi blindati, proiettili rivestiti di gomma e proiettili veri.
Inoltre, indipendentemente dall’intenzione, l’aggressione a pubblico ufficiale non rientra tra le competenze di procedimenti privati come quello portato avanti da Ad Kan, dal momento che solo lo stato può sporgere denuncia per aggressione contro uno dei suoi dipendenti.
Pollak si è ripetutamente rifiutato di comparire dinanzi alla corte, non riconoscendo la legittimità di un sistema che pratica atti di colonialismo, apartheid ed espulsione nei confronti di tutta la popolazione palestinese, sia essa all’interno della West Bank e della Striscia di Gaza, in Israele stesso e nella diaspora. L’arresto del 6 gennaio deriva proprio dai ripetuti rifiuti, con conseguente mandato d’arresto rilasciato dalla corte.
A maggio 2019, tramite i suoi canali facebook e twitter, Ad Kan aveva lanciato una versione “social” di avviso di cattura nei confronti di Pollak, proprio a causa dei suoi ripetuti rifiuti di comparire dinanzi alla corte. Ormai de-umanizzato e quindi da mettere al patibolo, l’avviso di cattura aveva portato all’aggressione dell’attivista nel mese di luglio e, quindi, al suo arresto.
Sono proprio questi ultimi aspetti a gettare ombre ancora più scure sullo sul livello di repressione e controllo sociale esercitati dalle autorità israeliane. Se l’aggressione a pubblico ufficiale – ponendo un attimo da parte il fatto che non sia avvenuta – non rientra nella giurisdizione dei procedimenti privati, come ha fatto quest’accusa ad arrivare fino all’arresto senza essere subito dismessa? Come hanno fatto gli agenti sotto copertura a rintracciare Pollak?
La risposta a queste domande pare essere la più ovvia, retorica. In un periodo di forte debolezza della solidarietà internazionale in loco, schiacciata com’è dalla normalizzazione della cooperazione internazionale, di irrigidimento della legislazione israeliana verso chi si oppone al regime e con i giochi di potere dietro le inutili elezioni appare evidente come le maglie si stiano stringendo e le relazioni tra “società civile”, partiti, apparato militare e organi legislativi siano sempre più stretti, con l’obiettivo di sigillare il sogno etnocratico del sionismo di uno stato per soli ebrei israeliani dal Mediterraneo al Mar Morto, una realtà al momento solo de facto. Silenziare le voci di chi si oppone a tutto ciò diviene quindi un tassello fondamentale per il suo compimento
Di seguito la traduzione della lettera dal carcere scritta da Jonathan Pollak e pubblicata dal quotidiano “Haaretz” il 7.01.2020. Le assonanze con le parole di Nicoletta Dosio, attivista No TAV in carcere, dovrebbero risuonare forte nelle nostre teste, nei nostri stomaci.
La lettera di Jonathan Pollak
Attualmente sono detenuto in un carcere israeliano, a seguito del rifiuto di partecipare o cooperare con accuse penali contro di me e altre due persone per aver preso parte alle proteste palestinesi in West Bank contro il regime coloniale israeliano. Poiché sono un cittadino israeliano, i procedimenti si svolgono in un tribunale israeliano a Gerusalemme e non presso il tribunale militare, dove vengono processati i palestinesi.
Sono passati quasi nove anni dall’ultima volta in cui sono stato incarcerato per più di un giorno o due. Molto è cambiato da allora. Politicamente, la realtà non assomiglia nemmeno a quella di un decennio fa, e nessuno dei cambiamenti è stato per il meglio.
Politicamente, il mondo sembra aver perso gran parte del suo interesse per la lotta di liberazione palestinese, rafforzando Israele come non mai. Non sono in grado di discutere dei profondi cambiamenti all’interno della società israeliana e di come si sia spostata ancora più a destra. I liberali israeliani sono molto più adatti a questo compito, perché tengono al loro paese e provano un senso di appartenenza che io non posso sentire e non voglio sentire.
Personalmente sono più vecchio, più stanco e, soprattutto, non più in salute come in passato. Certo, il prezzo che ho pagato per la mia parte nella lotta è una frazione di quello pagato dai compagni palestinesi, ma non posso negare il suo peso soggettivo su di me: da lesioni fisiche, alcune irreversibili, attraverso sporadici momenti di disperazione, ansia e senso di impotenza, alla sensazione ingombrante della perdita e alla presenza della morte – e alla presa che tutto ciò ha sulla mia vita quotidiana. Eppure, più le cose cambiano, più rimangono le stesse. In questo momento, proprio come lo era allora, stare in prigione è meglio di qualsiasi altra alternativa disponibile per me.
Le inconsistenze legali delle accuse mosse contro di noi sono di scarsa importanza. Mentre è giusto supporre che, se avessi accettato di collaborare, il processo si sarebbe concluso con un’assoluzione, il mio rifiuto di riconoscere la legittimità della corte si basa su due motivi principali.
Il primo è che i miei compagni palestinesi non godono il lusso di essere processati nelle condizioni relativamente confortevoli dei tribunali israeliani. Piuttosto, vengono processati in quella parodia di sistema legale che sono i tribunali militari israeliani. A differenza mia, i palestinesi non hanno la possibilità di rifiutare di cooperare con i loro carcerieri, dal momento che la stragrande maggioranza di loro viene processata mentre viene tenuta in custodia per la durata dei loro procedimenti.
Inoltre, la punizione cui sono sottoposti i palestinesi è significativamente più dura di quella specificata dalla legge israeliana. Pertanto, anche a questo proposito, nonostante il rifiuto di riconoscere la legittimità della corte, il prezzo che probabilmente pagherò è significativamente inferiore a quello pagato dai miei compagni.
Il secondo, più fondamentale motivo per rifiutare di cooperare, è che tutti i tribunali israeliani, militari o meno, non hanno alcuna legittimità per presiedere alle questioni di resistenza al regime coloniale israeliano, un regime ibrido, che va da una democrazia distorta e discriminatoria dal punto di vista razziale in quello che è Israele stesso e una dittatura militare a tutto campo in West Bank e nella Striscia di Gaza.
Di fronte al tremendo spostamento a destra nella politica israeliana, ciò che rimane della sinistra sionista – una volta gruppo d’élite dominante nel paese – si consuma lamentando il declino della democrazia israeliana. Ma quale democrazia vogliono difendere? Quella che ha espropriato i suoi cittadini palestinesi delle loro terre e dei loro diritti? Quella che, nella migliore delle ipotesi, considera questi cittadini palestinesi di seconda classe? Forse è la democrazia che governa la Striscia di Gaza attraverso un feroce assedio mentre regna come una dittatura militare in West Bank?
Nonostante l’ovvia natura del regime israeliano, i liberali israeliani non sono disposti a contestare la premessa fondamentale del discorso interno israeliano e riconoscere che lo Stato di Israele semplicemente non è una democrazia. Non lo è mai stata.
Per unirsi alla lotta per rovesciare l’apartheid israeliano, i pochi cittadini ebrei israeliani disposti a farlo dovranno prima riconoscere che sono troppo privilegiati ed essere disposti a pagare il prezzo per rinunciare a questo status. Una ribellione aperta contro il regime è in atto da decenni, attuata dal movimento di resistenza palestinese. Il prezzo pagato da coloro che vi sono coinvolti è immenso. I cittadini ebrei israeliani devono cambiare paradigma e seguire le loro orme.
Introduzione e traduzione a cura di Simone Ogno
Articolo originale pubblicato su haaretz
Foto di copertina di activestills.org
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