ITALIA
Precariato. Bufera su “la Repubblica”
Giornalista e videomaker originario di Vicenza, Fabio Butera ha scritto una lettera a “la Repubblica”, anagrammando il proprio nome, fingendosi grafico e denunciando il trattamento ingiusto subito da un’importante azienda. Immediato il sostegno dell’editorialista Francesco Merlo: peccato che nella realtà la vicenda riguardasse proprio il quotidiano romano
«Si partì con la flessibilità, che avrebbe reso moderno il mercato del lavoro, e si è arrivati ai trucchi del precariato eterno»: così Francesco Merlo, firma de “la Repubblica”, si è espresso, rispondendo alla lettera di Tobia Bufera, grafico di 37 anni e per sei collaboratore stabile e continuo di un’azienda che poi gli ha chiesto di firmare un foglio in cui dichiara essere solo un fornitore esterno.
In realtà, però, Tobia Bufera non esiste e Francesco Merlo è rimasto vittima dell’azione situazionista di Fabio Butera, giornalista e video-reporter vicentino che, nel corso degli anni ha sviluppato un prolungato e quasi esclusivo rapporto lavorativo con il quotidiano del gruppo Gedi, realizzando servizi e articoli, coprendo, telecamera in spalla, buona parte del territorio italiano.
La collaborazione con il giornale fondato da Eugenio Scalfari inizia nel 2013 e si conclude inaspettatamente nel novembre 2018: «In quel momento l’azienda ha chiesto di firmare un foglio in cui ci s’impegnava a non pretendere nulla, mentre io mi aspettavo che dopo tutti quegli anni arrivasse un contratto da dipendente».
Butera non accetta dunque di firmare il documento e intenta causa a “la Repubblica” per ottenere quanto ritiene di suo diritto.
Il proseguo della vicenda si svolge nella aule di tribunale e soltanto nel marzo 2021 arriva la sentenza. «Questa sostiene che, nel periodo in cui ho lavorato per “la Repubblica”, avrei dovuto essere assunto come redattore inviato, con un contratto da dipendente». Allo stesso tempo, per un’ormai datata distinzione tra giornalista professionista e giornalista pubblicista, a Butera, che in quegli anni apparteneva alla seconda categoria, non veniva riconosciuto il reintegro in redazione.
La risoluzione in sede giudiziaria della vicenda ha però lasciato a Butera la necessità di comunicare, di «socializzare», come dice lui stesso, il suo caso, per avviare anche una riflessione collettiva sul diritto del lavoro nell’ambiente giornalistico. «Siamo in tanti nel mondo del giornalismo a lavorare in queste condizioni, da precari, molto spesso a partita Iva, pagati a pezzo e spesso anche una miseria per articoli e video realizzati. Questo compromette anche la qualità del giornalismo».
Foto da Flickr.
Racconta ancora Butera: «Allora ho deciso di scrivere al quotidiano romano, domenica scorsa, inventando la storia di un grafico della mia età che ha lavorato per anni come partita Iva per un’azienda. Sapevo che difficilmente avrei avuto lo spazio con il mio nome ed esplicitando il mio caso, però ho pensato a questo escamotage che ha avuto il merito di rendere pubblica una situazione che non è soltanto la mia».
Involontariamente, Merlo ha finito per bastonare sul piano etico il giornale per cui lavora. Ma il gruppo Gedi, proprietario de “la Repubblica”, non è certo l’unica azienda a mettere in atto tali meccanismi. «Vale nel giornalismo, come in tanti altri ambiti lavorativi. In un mondo del lavoro, in cui i lavoratori sono sempre più soli e fragili, spesso si accettano pessime condizioni, precarie e senza tutele», conferma Butera.
In questo sconfortante panorama, il video-reporter veneto scorge però anche qualche barlume di speranza: «Tra i rider, tra i lavoratori della logistica, ma anche nello stesso mondo del giornalismo, ci sono persone che provano a unirsi per superare un po’ la solitudine di rapporti di lavoro in cui altrimenti si cerca sempre di salvarsi da soli».
Butera, poco prima di cessare il rapporto di collaborazione con “la Repubblica”, si era occupato proprio della complessa e ingiusta situazione dei rider e in quell’occasione era entrato in contatto con le romane Camere del lavoro autonomo e precario (Clap). «Nel maggio 2018 mi sono occupato dei rider con un reportage abbastanza lungo: ero diventato ciclo-fattorino per un mese, avevo fatto quell’esperienza per sviluppare poi un’inchiesta. Raccontando come funziona quel lavoro e cercando di capire le contraddizioni di questi nuovi impieghi in cui il padrone è l’algoritmo, ero venuto a conoscenza di tante realtà che si occupano della questione a livello di organizzazione sindacale e di diritto del lavoro. Così ho conosciuto le Clap».
L’associazione romana e lo studio legale a cui essa si appoggia hanno poi seguito Butera nelle varie fasi del procedimento giudiziario. Mentre, in occasione del petit-jeu a Merlo, le Clap si sono espresse così tramite i propri canali di comunicazione: «La storia di Fabio è quella di tante precarie e di tanti precari del nostro Paese malato: sfruttamento, finto lavoro autonomo e retribuzioni da fame. In questo caso, la lettera pubblicata dal quotidiano “la Repubblica”, inviata dallo stesso Fabio a firma del suo nome anagrammato, è riuscita a svelare l’ipocrisia delle grandi testate giornalistiche, che si schierano contro “i trucchetti del precariato eterno” solo quando colpiscono lavoratrici e lavoratori impiegati in altre aziende o altri settori. Queste piccole grandi vittorie ci raccontano che dire ‘NO’ ai ricatti è possibile, ed è possibile anche vincere».
Anche il Coordinamento dei giornalisti precari del quotidiano di Largo Fochetti ha commentato la la lettera di Butera e la conseguente risposta, rilevando che «questa vicenda si inserisce in un periodo in cui il Coordinamento dei precari di Repubblica ha chiesto più volte, senza mai ottenerlo, un appuntamento con l’azienda per avere chiarezza sul futuro di precari storici».
Ma, oltre alle Clap e al Coordinamento dei precari, Butera cita anche un’altra organizzazione che gli è stata vicino: «Io faccio parte di un esperienza che si chiama GV Press. È un’associazione di circa un’ottantina tra giornalisti e videomaker sparsi per tutta l’Italia. Incontriamo le stesse difficoltà e abbiamo capito che unendoci possiamo ottenere più risultati. Abbiamo attivato, tra noi, iniziative di mutualismo: se a qualcuno si rompe la telecamera, come associazione ne forniamo una per esempio».
Proprio come tra i rider, il futuro delle lotte sindacali passa soprattutto dalle mani dei lavoratori stessi. «Anche il giudice, nel pronunciare la sentenza, si è servito di un’analogia con la situazione dei rider al fine di spiegare la natura dei nuovi lavori in cui magari scegli tu quando metterti a disposizione dell’azienda (o della piattaforma), ma se non lo fai vieni sanzionato in qualche maniera», ricorda Butera, che conclude: «A volte tendiamo a considerare il mondo del lavoro come se fosse composto soltanto da individui soli e rassegnati ad accettare condizioni sfavorevoli. Ma ci sono tante realtà che provano ad andare in controtendenza, a unirsi, a pensare in termini collettivi di mutualismo, perché insieme si è più forti».
Foto di copertina da Flickr.