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CULT

Per una politica del general intellect

Nel 1968-69 non incontrammo Krahl e i referenti stranieri di movimento erano piuttosto Cohn-Bendit e Rudi Dutschke, mentre ascoltavamo ancora le litanie adorniane sulla vita offesa o stralciavamo dal Grande Rifiuto e dall’Uomo a una dimensione di Marcuse gli echi eccitanti dei movimenti americani e dell’irruzione al nostro fianco di altri soggetti. Fu solo nel 1973, esaurita la fase dell’antiautoritarismo, del movimento indistinto e del terzomondismo che prendemmo contatto con un pensiero che faceva i conti con la tradizione europea del marxismo ma non era marxismo occidentale eurocentrico – parlo della prima traduzione per la Jaca Book degli scritti di Hans-Jürgen Krahl, Costituzione e lotta di classe (di cui qualche preziosa anticipazione era uscita sui “Quaderni piacentini” a inizio decennio).

Questo libro ebbe un duplice effetto.

Il primo strettamente filosofico in quanto, insieme all’uscita e ristampe negli anni ’60 dell’antologia benjaminiana di Angelus novus, ci consentiva uno sguardo nuovo sulla scuola di Francoforte, mostrandone le faglie e i sentieri interrotti, facendoci prendere atto sia della chiusura della pur gloriosa stagione di Adorno, la cui ultima filosofia «non ha potuto né voluto congedarsi dal suo congedo» (L’intelligenza in lotta, p. 70) e soprattutto contestando  sul nascere quella che sarebbe stata la più insidiosa versione dell’apocalisse di Francoforte in salsa liberale, la futura egemonia intellettuale di Habermas.

Il secondo fu un effetto politico nella deriva gruppettara post-68 e agli albori della prassi operaista, ponendo l’accento sulla nuova composizione di classe, le modificazioni che attraversavano il proletariato industriale, il divenire-fabbrica dell’intera società con la connessa impossibilità di identificare lavoratori produttivi e soggetti rivoluzionari e infine l’allargamento del lavoratore complessivo in direzione dell’intellettualità di massa preconizzato da un’innovativa lettura dei Grundrisse. Si compivano qui il superamento esplicito degli stessi limiti di Marx e il simultaneo rifiuto dei movimenti spontanei e del consunto modello partito terzinternazionalista in una forma autonoma di organizzazione.

L’oltrepassamento di un concetto ristretto di proletariato (fordista prima ancora che leninista ortodosso) veniva a correggere i limiti volontaristici delle benemerite esperienze dei “Quaderni rossi” dal 1962 in poi e dell’alleanza operai-studenti del 1968-69, mentre la critica della forma-partito leniniana, estesa al di là della sua fase storica, veniva giustificata in aderenza alla situazione effettiva del mondo occidentale e non importata dalla parallela Rivoluzione culturale cinese, spesso da noi sedimentata in esperienze grottesche.

Una seconda fase di ricezione si ebbe nella seconda metà degli anni ’70, dopo la crisi dei gruppi italiani e il declino di quelli tedeschi e dopo l’avvio di forme chiuse di lotta armata, in concomitanza con l’esperienza dell’Autonomia operaia e di tendenze (vedi Toni Negri) che si richiamavano esplicitamente alle tesi di Krahl, sottolineando stavolta gli aspetti relativi all’organizzazione e al linguaggio. A questo punto acquista il suo senso proprio la critica a Habermas, che prima facie avevano accolto solo come polemica contro il “fascismo rosso” e il francofortismo epigonico ma ora potevano misurare in tutto il suo rifiuto del parlamentarismo idealizzato di fine secolo e ancor più come ridefinizione dei concetti di produzione e interazione linguistica.

La distinzione habermasiana fra agire strumentale e agire comunicativo (a tutto vantaggio del secondo) era impugnata con il pertinente rilievo che Habermas può su questo terreno attribuire a Marx «un concetto ristretto di prassi solo perché muove da un concetto ristretto di produzione. Secondo Marx, infatti, la produzione racchiude tutti gli elementi della prassi sociale, ossia il rapporto soggetto-oggetto e l’intersoggettività, il lavoro e la divisione del lavoro», laddove Habermas «riduce il concetto di produzione a un rapporto soggetto-oggetto, non intersoggettivo, dell’agire strumentale, ossia, a un concetto strumentalizzato di lavoro», smaterializzando nel contempo l’intersoggettività e la prassi rivoluzionaria (Produzione e lotta di classe, in op. cit., p. 132). In realtà, Krahl ritiene che per alcuni aspetti la teoria marxiana della produzione sia in effetti carente, dato che restringe il proletario al lavoratore produttivo della fabbrica industriale (o l’operaio sociale all’operaio fordista, come dirà in quegli anni di incipiente post-fordismo Negri) e che, d’altra parte, in Marx manchi non l’interazione o il riconoscimento bensì una politica materialistica del linguaggio in cui si manifesti l’eccedenza di un momento della sovrastruttura rispetto alla determinazione strutturale, la produttività della cooperazione sociale. L’«individuo sociale» dei Grundrisse irrompe sulla scena sconvolgendo la trama della ripetizione radicale e socialmente egualitaria delle rivoluzioni borghesi che era stato il limite della teoria marxiana della rivoluzione, di fatto non più sviluppata dopo l’epopea della Comune parigina: ciò che rappresenta la vera lacuna del marxismo contemporaneo, non colmata, a livello della nuova composizione di classe, neppure dall’Ottobre leniniano.

Il protagonismo del lavoro tecnico-scientifico in una composizione di classe che abbraccia e supera il proletariato industriale, esigendo forme di lotta e percorsi organizzativi inediti, appare chiaro già in uno dei suoi primi scritti dell’estate 1969, laddove si difende e insieme si critica  Marcuse, ridimensionato per «la sua incapacità a formulare i criteri per una Realpolitik rivoluzionaria, per i compromessi che una politica delle alleanze comporta», e, di conseguenza, la Sds – il Sozialistischer Deutscher Studentenbund, organizzazione giovanile della Spd, nata nel 1946 ed espulsa nel 1961, cuore del movimento tedesco – per «il travestimento del principio emancipativo della ragione nei vecchi panni delle categorie tradizionalistiche della lotta di classe [senza cogliere] né la realtà di classe né la necessità di emancipazione nelle metropoli altamente industrializzate del capitale» (Cinque tesi su Marcuse, in op, cit., pp. 87-89).

La nuova qualità della socializzazione del capitale estende il concetto di lavoro produttivo e la sussunzione reale del lavoro al capitale (Tesi sul rapporto generale fra intellighenzia scientifica e coscienza di classe proletaria, dicembre 1969, in op. cit., pp. 94-95), modificando quindi la strategia rivoluzionaria che non può più riferirsi al solo proletariato industriale ma deve fondarsi su uno strato allargato di produttori diretti, soprattutto includendo il lavoro intellettuale quale processo di formazione della forza-lavoro (ib., p. 97). Per riconnettere le categorie astratte della totalità con la soddisfazione dei bisogni, «il movimento dell’intellighenzia scientifica deve diventare il teorico collettivo del proletariato – è questo il senso della sua prassi» (ib., p. 111). L’individuo proletario è essenzialmente un produttore in senso lato e non un commerciante come l’individuo borghese classico, si fa moltitudine (diremmo oggi) nella produzione e non nella circolazione (ib., p. 113).

Come è possibile – si domanda Krahl nel suo scritto postumo, del febbraio 1970, Produzione e lotta di classe, «una conoscenza critica della società, se il linguaggio e la coscienza non contengono momenti che vanno per così dire al di là della determinazione della coscienza da parte dell’essere sociale?» (ib., pp. 121 ss.). Questo momento – assente, ripetiamolo, dopo il 1871 nella teoria rivoluzionaria di Marx – è il linguaggio, che «non può esserne un mero rispecchiamento, altrimenti sarebbe inspiegabile come possa darsi una conoscenza corretta della società» e soprattutto intervenire su essa per modificarla. Il linguaggio è così costitutivo della coscienza di classe, fa parte di quell’aspetto della soggettività operaia che non produce ma distrugge capitale, si autorealizza nella negazione. Questa è la contingenza genuina di una rivoluzione che non segue le norme della contingenza rivoluzionaria del XIX secolo, quasi che la coscienza di classe si formasse «secondo la logica metafisica dello spirito del mondo». La prassi linguistica e ideologica apre invece un nuovo ciclo in cui si sviluppa un agire rivoluzionario che incorpora il momento anti-autoritario come emancipazione dell’autonomia dei lavoratori da vecchie forme di organizzazione.

L’autonomia italiana si accostò a queste intuizioni incompiute di Krahl ben più di quanto non avessero fatto in Germania la Raf o da noi le strutture armate o i gruppuscoli di vario stampo. Ma restò un processo aporetico e di cui qualche elemento è passato alle generazioni successive.  In mezzo c’è stata la grande controffensiva capitalistica neoliberale degli anni ’80 che ha cercato di sequestrare  l’innovazione tecnico-scientifica sganciandola dal nesso con la classe operaia e anzi servendosene per frammentarla e sottometterla ulteriormente. È in queste nuove condizioni che dobbiamo far valere, controvento, il lascito di Krahl.