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Pluriverso #3 Transizioni di civiltà
Pubblichiamo qui la seconda Voce tratta dal libro “Pluriverso – Dizionario del Post Sviluppo”. Lì’antropologo colombiano Arturo Escobar scrive sul movimento diversificato e plurale, che reclama la fine del dominio eurocentrico e antropocentrico, che sta nascendo proprio a causa delle controindicazioni, dei fallimenti e persino degli orrori che questo sistema ha generato. Saprà creare trasformazioni significative e transizioni su larga scala?
La nozione di transizione/i di civiltà (civilizational transition/s) designa il complesso movimento dal dominio di un singolo modello di vita presumibilmente globalizzato – spesso designato come “modernità etero-patriarcale capitalista” – alla pacifica, sebbene tesa, coesistenza di una molteplicità di modelli: “un mondo in cui c’è posto per molti mondi”, un pluriverso. L’espressione muove dalle rivendicazioni che vedono l’attuale crisi multidimensionale – climatica, energetica, alimentare, di povertà e di significato – come il risultato di un particolare modello “civilizzatore” o modello di civilizzazione: quello della “civiltà occidentale”.
Questa visione trova eco in una varietà di contesti sociali, dalle lotte condotte dai popoli indigeni, dagli afro-discendenti e dai contadini dell’America Latina ai dibattiti su una “scienza alternativa” e gli studi sul futuro; passando per il pensiero buddista, l’ecologia spirituale e le pratiche di scrittura e di attivismo anti-capitaliste, ecologiche e femministe diffuse sia nel Nord che nel Sud globale.
Si tratta di una visione già anticipata da pensatori anti-coloniali come Aimé Césaire che scriveva: «Una civiltà che si dimostra incapace di risolvere i problemi prodotti dal suo stesso funzionamento è una civiltà in decadenza. […] Una civilizzazione che gioca con i propri principi è una civilizzazione moribonda» (Césaire 1972[1955], p. 9).
E risuona oggi in molti luoghi. Nelle parole del venerato maestro buddista, Thich Nhat Hanh, che ci invita a contemplare attivamente la fine della civiltà che è causa del riscaldamento globale e di un consumismo pervasivo: «Inspirando, so che questa civiltà sta per morire. Espirando, questa civiltà non può sfuggire alla morte» (Nhat Hanh 2008, p. 55).
Le origini del modello di civilizzazione occidentale – quale specifico progetto di dominio economico, militare, sessuato e di genere, razziale e culturale – si collocano in maniera diversificata nella Conquista dell’America, nella Pace di Westfalia (1648) che pose fine alle guerre di religione intraeuropee e stabilì le basi per la formazione dei moderni Stati nazionali; nell’Illuminismo o nella Rivoluzione francese che inaugurò l’era dei Diritti dell’Uomo.
Tuttavia le sue radici più profonde affondano nel terreno storico del monoteismo patriarcale giudeo-cristiano che, da un punto di vista critico, è caratterizzato da quanto segue:
la classificazione gerarchica delle differenze secondo criteri razziali, di genere e di civiltà (colonialità);
il dominio economico, politico e militare sulla maggior parte delle regioni del mondo;
il capitalismo e i cosiddetti mercati cosiddetti liberi come modello economico;
la secolarizzazione della vita sociale;
il liberalismo egemonico basato sulla proprietà individuale, sulla proprietà privata e sulla democrazia rappresentativa;
sistemi di conoscenza basati sulla razionalità strumentale, con la conseguente netta separazione tra uomo e natura (antropocentrismo)
Ogni civiltà si fonda su un particolare sistema di credenze e di idee (premesse epistemiche e ontologiche), spesso profondamente radicate in miti di fondazione. Le civiltà non sono statiche e le relazioni tra civiltà sono mutevoli e soggette a rapporti di potere. Tutti i principali storici e teorici delle civiltà concordano sul fatto che quest’ultime sono plurali – non può esistere, cioè, una sola civiltà.[1]
L’Occidente tuttavia ha acquisito un’alta capacità di “dominio civilizzatore” conseguito attraverso il parametro dell’unificazione economica e politica. Lo stesso non si può dire del dominio culturale, nonostante l’irruzione della modernità e del processo di modernizzazione nelle società non moderne e, negli ultimi decenni, della globalizzazione intesa quale vettore di universalizzazione di una supposta “civiltà superiore”.
Il progetto di una civilizzazione globale non si è comunque realizzato. Le nazioni e le civiltà si rifiutano di assemblarsi ordinatamente in un medesimo ordine, sebbene l’esperienza globale sia profondamente plasmata dal modello eurocentrico e trans-atlantico.
In Messico, per esempio, dopo oltre cinque secoli di imposizione del progetto coloniale occidentale, la civiltà indigena mesoamericana continua a essere viva e culturalmente vivace. Si può forse dire lo stesso di altri paesi e regioni del mondo. È sempre più evidente che la democrazia non può essere esportata con la forza; questo è ancora più vero nel caso delle civiltà.
L’irrazionalità e la violenza del modello dominante sono visibili ovunque. Alcuni teorici critici evidenziano come la vita moderna sia caratterizzata da una povertà spirituale ed esistenziale, segnata dalla diffusione dell’ontologia patriarcale e capitalistica caratterizzata da divisioni gerarchiche, dominio, appropriazione, controllo e guerre.
Un movimento diversificato e plurale, che reclama la fine del dominio eurocentrico e antropocentrico, sta nascendo proprio a causa delle controindicazioni, dei fallimenti e persino degli orrori che questo sistema ha generato, a discapito delle sue enormi conquiste tecnologiche (sempre più discutibili da un punto di vista ecologico e culturale).
Questo movimento veicola una serie di visioni circa forme creative di transizione che implicano anche azioni concrete. Nel Nord globale, l’appello al cambiamento di civiltà può essere rintracciato per esempio nelle economie eco-femministe di sussistenza; nelle proposte di decrescita; nella difesa dei beni comuni; nel dialogo interreligioso e nelle strategie per la localizzazione dei sistemi alimentari, energetici e di trasporto.
Nel Sud globale, le visioni della transizione si fondano su ontologie che sottolineano la radicale interdipendenza di tutto ciò che esiste. Questa visione bio-centrica trova chiara espressione nella nozione di buen vivir, di benessere collettivo in accordo alle proprie cosmovisioni, nei diritti della natura e nelle transizioni al post-estrattivismo, tutti esempi di post-sviluppo.
È troppo presto per dire se queste visioni e questi movimenti eterogenei e vagamente assemblati raggiungeranno un livello di auto-organizzazione in grado di inaugurare trasformazioni significative e transizioni su larga scala. Per la maggior parte dei teorici della transizione, mentre il risultato non è affatto garantito, il passaggio a un diverso modello di civiltà – o serie di modelli – non è precluso.
Per molti ciò sta già avvenendo, attraverso una molteplicità di pratiche che incarnano, nonostante limiti e contraddizioni, valori di società profondamente ecologiche, non capitalistiche, non patriarcali, non razziste e pluriversali.
La nozione di transizioni di civilità stabilisce un orizzonte per la creazione di visioni politiche ampie che si muovono al di là degli dello sviluppo e del progresso e degli universali della modernità occidentale come il capitalismo, la scienza e l’individuo.
Non richiede un ritorno alle “tradizioni autentiche”, né forme di ibridità da raggiungere attraverso la sintesi razionale dei migliori tratti di ciascuna civiltà, come se si potesse applicare alle civilità il seducente ma innocuo linguaggio liberale delle “migliori pratiche”. Lungi da ciò, questo appello abbraccia una coesistenza pluralistica di “progetti di civiltà” attraverso dialoghi inter-civili che incoraggiano contributi che vanno al di là dell’attuale ordine mondiale eurocentrico. Prevede la ricostituzione della governance globale lungo basi di civiltà plurali, non solo per evitare il loro scontro, ma per favorire costruttivamente il fiorire del pluriverso.
Parole chiave: Civiltà occidentale, modernità patriarcale capitalista, ontologie, pluriverso
Approfondimenti
G. Bonfil Batallax, México Profundo. Una civilización negada, Grijalbo, México, DF 1987.
A. Césaire, Discorso sul colonialismo, Ombre Corte, Verona 2010[1950].
F. Eboussi Boulaga, Muntu in Crisis: African Authenticity and Philosophy, Africa World Press, Trenton, NJ 2014.
Great Transition Initiative (GTI), http://www.greattransition.org/. Ultimo accesso 16-11-2020.
A. Nandy, Traditions, Tyranny, and Utopias, Oxford University Press, Delhi 1987.
T. Nhat Hanh, The World We Have, Parallax Press, Berkeley 2008.
Arturo Escobar è professore emerito di antropologia presso la University of North Carolina, Chapel Hill, ed è associato a diverse università colombiane. Il suo libro più noto è Encountering Development: The Making and Unmaking of the Third World (1995). I suoi libri più recenti includono Otro possible es possible: Caminando hacia las transiciones desde AbyaYala/Latino-America (2018); e Designs for the Pluriverse: Radical Interdependence, Autonomy, and the Making of Worlds (2017). Lavora da più di vent’anni con i movimenti sociali afro-colombiani.
[1] È il caso anche di Arnold Toynbee, Fernand Braudel e persino di Samuel Huntington che ha coniato il celebre concetto di “scontro di civiltà”, basato su una nozione oggettivata di civiltà multiple, ma separate.
Immagine di copertina e nell’articolo: Medios Libres Cali