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Plurale, femminile, senza fine: l’eroe migrante.

L’epica migrante è al centro della nuova puntata di “Conflitto, esperienza e letteratura”. Una rilettura del romanzo Madre Piccola, di Cristina Ali Farah, la storia di una famiglia somala durante la diaspora

Il fine ultimo dell’eroe è sempre stato tornare: con un bagaglio di conoscenze insperate e un’esperienza superiore a qualunque altro essere umano. E tornando, raccontare, fondare o rifondare, affinché la terra dei padri possa continuare a esistere. Il principio dell’eroe è sempre stato un contratto, sancito con l’istituzione – terrena o divina – che imponeva il viaggio come prova o punizione. Al termine della sua sfida, l’eroe chiude sempre il cerchio, o quasi, e per questo merita che le sue gesta vengano raccontate. Se non torna, se non chiude o risolve, se non fonda o rifonda, non è eroe. Che senso ha narrarne? Meglio è parlarne poco: il suo discorso potrebbe annullare e deviare altre propensioni alla gloria e con esse frammentare, alterare e smascherare un inganno ancestrale: l’ordine del racconto è il racconto dell’ordine. Al di fuori di questo spazio, perimetrato e sottoposto a sorveglianza, gli eroi scoprono di non avere fine, e che la loro unica certezza è quella di dover passare.

Tra gli eroi che non tornano, più che destinati, costretti al viaggio da un tradimento inenarrabile – cacciati da quella stessa istituzione, la patria, lo stato nazione, che doveva proteggerli e, un tempo, li chiamava tutti fratelli, esortandoli spesso al sacrificio – ci sono le donne e gli uomini migranti. Viaggio di vita, il loro, sfida ardua e insostenibile, fuori dal perimetro delle storie ufficiali, il cui racconto è la traccia di un’epopea spuria, un’avventura non omologabile – hanno fatto fatica e, ci auspichiamo ne faranno ancora, a trovargli un posto nel canone letterario – un’epica che più di ogni altra parla – metafore e allegorie al seguito – alla moltitudine.

In Italia, una delle opere più rappresentative di questa letteratura è Madre Piccola di Cristina Ali Farah, pubblicato nel 2007 da Frassinelli. Storia di intrecci familiari, svoltisi durante la diaspora somala, ha una struttura polifonica – qualità questa riscontrabile in molte opere della letteratura migrante. I narratori principali, nonché protagonisti, e dunque eroi, sono due donne Domenica Axad e Barni. La struttura della narrazione è circolare, di fatto segue il movimento di Domenica verso Barni, dalla loro prima separazione al nuovo incontro. Una circolarità che a differenza di quella evocata nella riflessione sull’eroe classico, qui diventa traccia di un principio etico fondato sulla relazione con l’altro, la reciprocità e la responsabilità. Il loro riavvicinamento è un’azione definita e concepita come una rinascita, una rideterminazione, sviluppata grazie alle relazioni personali che hanno imposto il superamento delle rispettive finzioni individuali, di quelle ostinazioni identitarie di cui l’eroe in viaggio non può più servirsi:

“[…] se smetteremo questa maschera immobilizzante, se ci libereremo dall’involucro in cui tutto è familiare, se strapperemo la pellicola che ci isola dalla gente tra cui viviamo; se ci lasceremo scalfire, qualcosa si rinvigorirà dentro.”

Queste le parole di Barni, a conclusioni delle loro avventure.

Al centro del discorso di cui si fa carico il romanzo, c’è proprio la rinuncia alle predestinazioni e alle prescrizioni imposte da quei discorsi istituzionali che, dopo aver costretto il soggetto alla fuga, continuano a manifestarsi con la presunzione di imporre ancora le loro leggi. E in breve, e forse inevitabilmente, questa tensione tra opposte direzioni, tra desideri e doveri, tra norme e trasgressioni, assume il carattere di uno scontro di genere. Sono le donne in Madre Piccola a scoprire ed esperire sulla loro pelle che nonostante il disastro della comunità da cui provengono, anche durante l’esilio, l’ossessione identitaria lungi dal ridimensionarsi, continua a essere motore di sofferenza. Così Domenica racconta a Barni le difficoltà di Shamsa, una loro connazionale, scappata dalla Somalia contro la volontà del padre:

[…] Ma – demistificando – credo di aver riconosciuto la radice di quel male. […] quello che mi opprimeva in quei mesi – quando accompagnavo i figli di Shamsa a scuola […] – era un sospetto che si insinuava sottilmente. Non riuscivo a spiegarmi perché la mia gente, che credevo così solidale, sta abbandonando questa ragazza a se stessa. […] Io credo di capire che ci sia sotto una storia di disubbidienza. Shamsa non era partita contro il volere di suo padre, lo zio Foodcadde?

Il processo di crisi che ha coinvolto la comunità – a cui tutti i personaggi del romanzo appartengono – situa da un lato le donne come soggetti attivi, competenti – per via delle esperienze vissute e delle competenze acquisite – e di conseguenza critici e dall’altro il consesso degli uomini – statici, severi, incapaci di affrontare le trasformazioni. Le prime sono radicalmente opposte a ogni forma di genealogia, i secondi sono vincolati a essa e rappresentano il fallimento di un’istituzione e del suo processo di disciplinamento. La loro unica esigenza continua a essere quella di riconoscere e ricondurre il medesimo al medesimo.

Così Taageere, isolato negli Stati Uniti, parla di suo figlio e di sua moglie Domenica:

[…] Il bambino per te è oro fuso? Sono felice quando ti sento parlare così. […] E conosci anche il bene di nostro figlio? Allora perché hai dimenticato che i bambini di norma hanno bisogno di un padre? […]

La sua posizione si rafforza in breve con un riferimento alla legge che esso rappresenterebbe in quanto uomo:

[…] Prendermi le mie responsabilità? Se me lo permettono. Ma lo ripeto ancora una volta: è grazie a me che l’hai potuto tenere, io te l’ho lasciato crescere. Lo sai che siete tutti e due miei. Eravate miei e lui continua a essere mio. Mio figlio, mia appartenenza.

Quello a cui si richiama è il rispetto di un ruolo che esiste al di là delle azioni in cui si concretizza nella quotidianità, la sua è un’etica che deriva la sua forza dalla tradizione:

[…] Il diritto di decidere per mio figlio, io lo conservo, non lo dimenticare. Tu e lui, due persone distinte, ma finché lui è un bambino io ho i miei diritti anche su di te.

Tutti gli uomini del romanzo – Taageere, Saciid Saleebaan, lo zio Foodcadde – interpretano gli eventi solo secondo i precetti – sono mariti e padri che puniscono senza comprendere, sempre privi di responsabilità dirette, insolventi rispetto ai doveri a cui l’esperienza dell’espulsione e del transito li espone. Al contrario gli eroi femminili propongono letture eretiche delle leggi e delle tradizioni. Lo fanno non in virtù di un capriccio, ma a seguito delle loro esperienze di vita. Esemplare è ancora il caso di Barni, che reinterpreta la parabola somala del figlio snaturato che abbandona il padre anziano sotto un albero:

“ […] Il figlio snaturato, una volta vecchio, è a sua volta condotto dal proprio figlio sotto l’albero accanto al termitaio. […] quando capisce che il destino che gli spetta è lo stesso […] chiama a sé il figlio […]. Lo chiama per dirgli che lui sa quello che il figlio sta per fare […]. e non cerca di convincere il figlio a non abbandonarlo. […] assolve suo figlio e lo manda via con una benedizione. […] assume su di sé il peccato e libera il figlio dalla colpa. […] Non è quello che vedono tutti, che i vecchi vanno rispettati se si vuole essere rispettati da vecchi, ma che il cerchio va spezzato, che bisogna avere il coraggio di perdonare e di rompere il circolo”.

In Madre Piccola l’epica migrante svela il significato allegorico con cui si rivolge alla moltitudine. Descrive un passaggio da una condizione definita e immutabile, i cui valori sono confini invalicabili – l’identità individuale, nazionale, di genere; il destino come ciò che è stabilito fermamente, e dunque irrevocabile – a una nuova forma relazionale che non accetta vincoli, se non quelli determinati dalle necessità dei soggetti agenti. Qui all’alterità vista come negazione del sé, nemico letale, si oppone una visione che la traduce in possibilità, luogo di transizione, evoluzione degli esseri. Siamo dentro i principi dell’etica della responsabilità e della cura. Questo eroe è in viaggio e forse lo sarà per sempre: è un’impresa che non si chiude mai la sua, che non fonda miti eterni, che si rigenera nell’incontro, che non impone direttive e direzioni appellandosi al precetto, che cura sé con gli altri, e che riesce a declinarsi al meglio soprattutto al femminile.

Le puntate precedenti della rubrica:

Conflitto, esperienza, letteratura
SIC, metodo e comunità in “territorio nemico”