MONDO
Pillole di Nigeria: “No Wahala, sista!”
Naija è il nome con cui il popolo nigeriano chiama il proprio Paese: un Paese in cui più del 60% della popolazione vive in condizioni di estrema povertà, nonostante il PIL sia il più alto di tutta l’Africa.
Riceviamo e pubblichiamo il racconto di una compagna che ha trascorso 40 giorni in Nigeria – tra Lagos e Benin City- per un progetto di ricerca sulle migrazioni femminili nigeriane. Le opinioni espresse nel presente articolo sono personali.
È stata la prima espressione che ho imparato nel pidgin english nigeriano, “No wahala”, “nessun problema”, e l’ho sentita dire nelle occasioni più differenti: quando all’improvviso se ne va la luce e non sai quando tornerà, all’ennesima ruota bucata a causa delle strade dissestate, al mio tentativo di aiutare una bambina al massimo di 5 anni a trascinare un enorme secchio pieno d’acqua, quando chiedi all’autista di un furgoncino di farti salire a bordo, ma poi vedi che ci sono già altre otto persone e magari tu puoi aspettare il prossimo … no wahala, sister. Non c’è alcun problema.
Lagos è stata la prima città che mi è entrata negli occhi con prepotenza, con quel brulichio di persone che la attraversano a ogni ora del giorno e della notte e che sembrano non dormire mai. O meglio, i poveri, non dormono. Tengono aperti i loro negozietti fatti di lamiere fino a notte fonda, al buio, caricano pesi sulla testa continuando a camminare come se niente fosse, aggiustano robe elettroniche venute da chissà dove, vendono di tutto alle macchine bloccate nel traffico infernale della città, cominciando a correre loro appresso quando le macchine prendono un po’ più di velocità. Corrono, cercando di vendere quanto più possibile, e di notte si sistemano sotto ai ponti di quelle stesse strade, visto che provengono da villaggi che è difficile raggiungere, per poi ricominciare il giorno dopo.
I ricchi invece sembrano avere il mondo nelle loro mani e le loro case lussuose, protette da guardie a volte armate sorgono a pochissimi metri da quegli stessi ponti, da quelle stesse lamiere.
Aliko Dangote, nigeriano proveniente dal Nord, è l’uomo più ricco dell’intera Africa. Quando chiedi il perché di decine di camion parcheggiati su una corsia che in realtà dovrebbe essere percorribile, in una strada a scorrimento veloce, in piena città, la spiegazione che ti dà la gente è semplicemente: “Dangote”. Anche Dangote, soprattutto lui, ha il mondo nelle sue mani.
La sperequazione della ricchezza la respiri a fondo, come l’odore forte della benzina dei generatori. Nonostante la Nigeria abbia il PIL più elevato d’Africa, avendo superato nel 2014 quello del Sudafrica, più del 60% della popolazione vive in estrema povertà: senza acqua potabile, senza elettricità, impegnata in attività di sussistenza quotidiana logoranti e spesso rischiose per la salute. Il numero di persone con disabilità gravi in seguito a incidenti domestici o sul lavoro che si vedono per le strade di Lagos chiedere l’elemosina è impressionante.
Nessun tipo di sostegno è previsto, né per loro né per le persone che, se si ammalano, non possono accedere alle cure sanitarie perché estremamente costose. Gli ospedali sono quasi vuoti perché le persone non si possono permettere di essere curate. Anche le sacche di sangue per le trasfusioni si pagano, o i trattamenti per l’HIV. Alcuni nigeriani che ho incontrato mi hanno parlato di una “guerra silenziosa”, perché le persone muoiono, senza alcun bisogno di proiettili o pistole, ma semplicemente a causa della noncuranza del Governo rispetto all’accesso ai bisogni primari.
La rabbia che si percepisce tra le persone è come soffocata, in una sorta di pentola a pressione che prima o poi deve per forza esplodere e in questo un ruolo fondamentale è giocato dalla religione cristiana, con le numerose chiese, cattoliche o evangeliche e pentecostali, che sorgono a ogni angolo di strada e che promettono felicità e paradiso a chi in questa vita è già all’inferno.
La messa pentecostale a cui ho voluto partecipare, per capire un po’ meglio le dinamiche religiose che pervadono l’intera esistenza di gran parte della popolazione, è stata illuminante in questo senso. Due ore e mezzo di canti e ringraziamenti al Signore e di sermoni il cui messaggio è fin troppo chiaro: se sei ricco è perché te lo sei meritato, se invece vivi nella povertà è colpa tua, perché non ti sei abbastanza dato da fare per avere successo. Anche se non hai l’elettricità per gestire il tuo negozietto, anche se il Governo è tra i più corrotti al mondo, anche se vivi in un Paese le cui risorse sono state saccheggiate dall’Occidente. È colpa tua, brother.
Avere continuamente davanti agli occhi il lusso, la ricchezza dei pochi e non poterla neanche sfiorare: è questo il cortocircuito a cui la maggior parte del popolo nigeriano è condannato, senza possibilità di appello.
Eppure la storia di quella che solo in seguito alla colonizzazione britannica è stata definita “Nigeria” ha radici antiche: il Regno del Benin era uno dei più potenti in Africa, fino a che nel 1897 non è stato spazzato via dagli Inglesi, che ne hanno fatto prima un protettorato e poi una vera e propria colonia, allargando il proprio dominio e mettendo insieme gruppi di popolazioni con storia e tradizioni estremamente differenti le une dalle altre, oltre a accaparrare tutto quello che si poteva depredare.
L’orgoglio della storia di Benin, in questa parte di Nigeria, è ancora molto forte: uno dei simboli di Benin City è Idia, la regina madre di Oba (Re) Esigie, al potere dal 1504 al 1550, descritta come una stratega politica e una guerriera: i bronzi che la raffigurano sono bellissimi e tuttora il suo viso scolpito campeggia sopra l’arco che porta alla strada dei bronzi, designata dall’UNESCO patrimonio dell’umanità.
Camminando per le vie di Benin City ci si imbatte in questi piccoli pezzi di storia, che sembra ora non avere più senso, di cui sembra non essere rimasto niente. La gente è troppo impegnata nella sussistenza per potersene ricordare.
Potersi ricordare di Jaja di Ipobo, di Ken Saro Wiwa, di Fela Kuti, di Chinua Achebe, delle lotte della popolazione del Delta del Niger contro le multinazionali del petrolio, del Biafra è un lusso che non tutti possono permettersi.