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“Pieces of a Woman”. Nella foresta dei simboli, elaborando il trauma

“Pieces of a Woman” è il film con cui il regista ungherese Kornél Mundruczó mette in scena una vicenda personale condivisa con la sceneggiatrice Kata Wéber: una storia di perdita e ricostruzione, in cui a giocare un ruolo decisivo è il conflitto aperto tra Reale e sua rappresentazione

A metà esatta di Pieces of a Woman, dopo aver fatto sesso con la cugina della sua compagna Martha, il personaggio di Sean, interpretato da Shia LeBeouf, rievoca a partire da un dipinto la clamorosa storia del Tacoma Narrows Bridge, che nel 1940 era il terzo ponte d’America, ma a pochi mesi dalla sua inaugurazione divenne protagonista di un evento sorprendente e imprevisto: il suo misterioso collasso. Le ragioni, discusse e studiate da più e più esperti, non ebbero a che fare con la tenuta dei materiali o la qualità della struttura, ma con il fenomeno fisico della risonanza che Sean, operaio edile impegnato guarda caso nella costruzione di un nuovo ponte a Boston, illustra con parole sue: «Ogni solido ha una sua frequenza oscillatoria: se la frequenza interna combacia con la frequenza esterna, c’è risonanza. A volte la risonanza è talmente forte da far crollare un ponte intero».

Per ragioni forse non esattamente logiche, l’evocazione di questo curioso aneddoto riporta lo spettatore all’evento che muove e infesta l’intero ultimo film dell’ungherese Kornél Mundruczó, il primo girato negli States, scritto dalla drammaturga Kata Wéber a partire da una dolorosa esperienza personale condivisa col regista: Pieces of a Woman è in effetti, fin dal titolo, il racconto di un collasso interiore, di uno sgretolamento con cui la protagonista Martha – intensamente interpretata da Vanessa Kirby – si trova a dover fare i conti per rilanciare la propria vita. L’antefatto generatore del trauma non è – per scelta – lasciato fuori campo, ma occupa la prima mezzora di film attraverso un provocatorio piano sequenza che, al netto di un certo compiacimento, riesce nell’impresa di restituire con la finzione l’angoscia di un evento quasi indicibile: la morte di una figlia appena partorita nel letto di casa propria, accanto al compagno inerme, a seguito di complicazioni del travaglio.

 

 

I molti articoli che hanno raccontato il film, dalla sua anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia alla distribuzione internazionale su Netflix, hanno facilmente concentrato l’attenzione su questo virtuosistico, memorabile incipit, lasciando che tutto il film venisse risucchiato dal suo vortice energetico e metaforico: è del resto innegabile che la continuità temporale dell’azione, in una storia per il resto franta su una manciata di giorni sparsi tra un autunno e la primavera successiva, venga paradossalmente accordata soltanto a un evento che non conosce obbiettività percettiva. È proprio questa oggettività apparente a rilanciare la dimensione ellittica e centrifuga del resto del racconto, in cui se di elaborazione di una mancata genitorialità si vuole parlare (e si può), a contare è soprattutto il problema del trauma che si pone tra la nostra dimensione interiore e l’immagine della realtà su cui fondiamo il nostro equilibrio quotidiano. Lo stesso equilibrio che un fenomeno di risonanza può  violentemente alterare.

A complicare la lettura del film – e certamente ad intensificarne l’intreccio – subentra anche la sua tensione multifocale: da quando si presenta l’evento traumatico, la storia privilegia naturalmente il punto di vista e l’esperienza di Martha, ma non esita ad abbandonarli (una scelta di regia che non dovrebbe passare inosservata) per seguire il percorso di Sean, uomo fragilissimo, incline a vizi e al tradimento, proteso nostalgicamente al passato e al contempo in fuga dal fantasma delle sue origini. Origini proletari che Martha non gli rinfaccerebbe, ma che la madre di lei, Elizabeth, ricchissima ereditiera ebrea scampata neonata all’Olocausto, non esita a vedere come un tragico problema da risolvere: anche grazie all’interpretazione di Ellen Burstyn, è proprio il personaggio di Elizabeth che, tra mille macchinazioni a metà tra buona fede e spietato cinismo, la figura chiave di un film che dalla crisi della coppia allarga la sua prospettiva sulla società tutta. È attraverso Elizabeth che – senza troppo svelare – si consuma il conflitto relazionale tra Martha e Sean, del quale denaro e libertà si rivelano elementi sintomatici ben più del lutto; ed è attraverso Elizabeth che prende avvio un vero e proprio processo contro la levatrice Eva che, sostituendo la collega che Martha attendeva a casa propria, ha provocato questo enorme danno.

 

 

Divisa tra la mascolinità tossica del compagno ferito, le pressioni e l’invito all’orgoglio che sua madre le impone attingendo direttamente al trauma della Storia in cui si è trovata a dover sopravvivere, Martha è dunque una donna fatta a pezzi, non solo dal dolore della perdita, rispetto al quale mostra più che altro una distaccata afasia, ma specialmente dalle narrazioni che gli altri proiettano su di lei e sulla sua piccola storia, chiedendole con forza di prendere posizione. La scrittrice Rachel Cusk scrive che «qualunque cosa vogliamo pensare di noi stessi, non siamo che il risultato di come gli altri ci hanno trattato» e, sotto molti aspetti, il superamento del lutto che tutti chiedono a Martha di affrontare, anche per loro procura – ora concedendosi di seppellire sua figlia ora cercando rivalsa legale su una malcapitata –, è ostacolato dalla negazione di uno spazio e di un tempo davvero personali entro cui ricomporre una forma di integrità.

In un importante saggio di taglio letterario di qualche anno fa, Senza trauma, Daniele Giglioli connetteva alla crisi dell’esperienza del nostro tempo il problema della coscienza di una dimensione traumatica sospesa tra Reale e rappresentazione: «a differenza della realtà, il Reale è ciò che resiste testardamente a ogni tentativo di simbolizzazione. È un buco nell’ordine simbolico». È interessante osservare come il film di Mundruczó si collochi – e forse, vada discusso – proprio sul filo incessante di questo conflitto: l’elaborazione del trauma cui Martha, forse per la prima volta nella sua vita, si trova a poter rispondere con la sua voce, è un percorso irto di simboli con cui la donna letteralmente triangola il tentativo di ricostruzione di una propria unità interiore, a partire dalle molte mele che, come un’Eva contemporanea (il nome ritorna), si trova a mangiare, maneggiare e persino coltivare… Così come il correlativo didascalico del ponte a Boston la cui progressiva costruzione scandisce i capitoli del film e accompagna il processo di rigenerazione della protagonista, che da quel ponte aprirà l’urna delle ceneri di propria figlia. Eppure a segnare una svolta in Martha è qualcosa di molto più irriducibile del simbolo: è una fotografia (analogica e raccontata mentre viene sviluppata in una camera oscura, uterina, estranea dunque a qualsiasi manipolazione), l’immagine di una bambina appena nata e di una madre che, nonostante tutto, hanno vissuto qualche istante insieme. Da questo punto di fuga – che, quasi dimenticato, è anche il controcampo invisibile, il negativo, l’unico punto di frattura della rappresentazione continua del piano sequenza iniziale – Martha saprà ricomporre i pezzi in cui il mondo l’ha divisa, generando una nuova immagine di sé.

 

In copertina e nel testo, alcune immagini di “Pieces of a Woman” di Kornél Mundruczó