approfondimenti
ITALIA
Il perturbare dei femminismi
A partire da una conversazione tra Ida Farè e Primo Moroni del 1987, una riflessione a quattro mani intorno all’impatto dei movimenti femministi sui gruppi militanti misti
Ormai più di un anno fa una compagna – nonché sorella – ci ha voluto fare un bellissimo regalo, condividendo con noi il video di un entusiasmante confronto tra due persone, due compagn* ma soprattutto due amic*. Si tratta di una conversazione tra Ida Farè (femminista, giornalista, docente di Architettura e scrittrice) e Primo Moroni, datata 1987. L’argomento attorno al quale si anima il confronto ci è sembrato quanto mai attuale, presente, perturbante: l’entrata in campo dei femminismi nell’ambito delle collettività militanti miste. A ormai quattro anni dall’irruzione sulla scena sociale e politica di quell’atteso imprevisto che è il movimento transfemminista globale – che in Italia ha preso il nome di NonUnaDiMeno – crediamo sia quanto mai improrogabile interrogarci sulle modalità attraverso cui le pratiche e le questioni transfemministe stiano modificando, innervando e perturbando le soggettività politiche (miste e non miste) e, più complessivamente, le relazioni politiche (e non) che vivono al loro interno. Non potevamo dunque lasciarci sfuggire l’occasione di/per riflettere sul presente a partire dalle suggestioni passate che questo dialogo ci consegna. È per questo allora, e per le altre innumerevoli ragioni che ci legano a lei, che ci teniamo a ringraziare Maysa Moroni per averci regalato questa preziosa opportunità che, a nostra volta, consegniamo alla lettura, al dibattito, all’elaborazione collettiva (o a ciò che sarà). Un pensiero speciale lo rivolgiamo poi a Primo Moroni e a Ida Farè, entrambi infatti hanno lasciato un incolmabile vuoto ma, allo stesso tempo, dei segni indelebili/degli strumenti fondamentali per continuare ad agire e a lottare
Abbiamo pensato di approfondire quattro questioni che emergono in maniera chiara da questa conversazione che guarda retrospettivamente ad un periodo storico che parte dall’inizio degli anni ’70, attraversando la vita (le vite) e la storia dei movimenti italiani di quegli anni.
Ricerca e costruzione di un’identità propria
Ida: «Io penso che poi l’essere delle donne ha avuto anche una modalità più propria. Voglio dire, non tanto contro l’uomo ma nel senso di ricerca di un’identità attraverso i luoghi e attraverso il pensiero di donna che non immediatamente si scontrava con l’uomo. Però, certo, c’è stata anche questa parte di scombinamento».
Cosa significava per una donna ed attivista politica interrogare il proprio desiderio militante all’inizio degli anni Settanta? Era una fase, quella, in cui la risposta collettiva alla domanda qui avanzata si trasformava immediatamente in ricerca e costruzione di una “nuova identità”, immaginata e disegnata a partire dalle donne stesse. Le parole di Ida Farè raccontano infatti di come la ricerca femminista sulle identità, e la necessità per le donne di trovare modi di dirsi e di agire, non nascano come un gesto contrappositivo nei confronti degli uomini ma dall’impossibilità di riconoscersi sia nelle descrizioni del femminile fuori dai contesti politici che nella figura del militante, costruito esclusivamente a partire da rappresentazioni maschili. Se infatti il femminile egemonico nella società era ancora legato alla figura di moglie e madre intrappolata in ruoli e compiti specifici, l’adesione a gruppi o partiti politici di sinistra non comportava immediatamente per le donne l’accesso a spazi di libertà in cui re-inventarsi la vita. Per gli uomini le pratiche militanti potevano significare protagonismo e reali alternative di vita, mentre per le donne spesso la militanza voleva dire adeguarsi a modelli maschili o ritrovarsi nuovamente in una posizione subordinata e marginale.
In tutta la storia dei femminismi, non a caso, le donne si sono appropriate del lessico politico degli esclusi, dall’uguaglianza della Rivoluzione Francese all’emancipazione sindacale, per risignificarlo e svelarne la parzialità, in una continua apertura di spazi di senso e di azione. Anche negli anni ’70 assistiamo allo stesso movimento, in cui le donne e le persone LGBT prendono così sul serio la radicalità dei movimenti sociali da scontrarsi contro i loro limiti, mettendoli in luce nel tentativo di superarli.
Primo: «Di colpo le giovanissime lasciavano una parte della statistica politica e cominciavano a leggere letteratura colta delle donne e, in più, a chiedere una serie di strumenti di informazione anche di tipo storico, per andare all’origine di questo percorso da cui si era formata la subordinazione femminile [..] Nascevano decine e decine di riviste autogestite fatte dalle donne. Alcune molto dure, molto radicali; altre più mediate, nella ricchezza che tutti conoscono. O perlomeno, le donne e quelli chi sono stati un po’ nei movimenti sanno che non era una cosa unitaria. Era unitaria per ciò che riguardava la questione dell’“essere una differenza”, all’interno c’erano tante posizioni e ricchezza di dibattito».
L’affermazione del soggetto “donna” rappresenta una sfida collettiva che assume da subito una connotazione processuale e che si dipana nel tempo e nello spazio, pubblico e privato, attraverso l’immaginazione e la creatività messe in comune. Per le femministe diventa poi necessario tracciare una genealogia del margine in cui vivono, non per cristallizzarlo in un’identità, ma per trovare strumenti di conoscenza di sé che diano vita a pratiche politiche di sorellanza. Pratiche, plurali e condivise, come plurali sono le identità che le animano, in un fiorire di differenze di cui forse ora, anche a causa del modo in cui sono state raccontate o ignorate dalla storiografia, fatichiamo a rintracciare la complessità che, per fortuna, questo dialogo ci restituisce.
La potente appropriazione/produzione di Saperi nuovi
Ida: «ecco sì, però lì nei corsi delle 150 ore io ricordo di aver partecipato con Lea Melandri, e ricordo una cosa bellissima che mi ha molto colpito: le donne che non volevano parlare della loro condizione femminile che conoscevano a memoria, ma le donne che volevano occuparsi di scienza, che volevano sapere di matematica. E questa cosa me la ricordo con grande emozione. Questa donna di 50 anni che si alzava la notte e scriveva delle considerazioni filosofiche no!?! Diceva: “io sono una donna ma voglio pensare voglio essere, in questo mondo, come donna che accede al mondo. E non voglio raccontare la mia storia di casalinga”, e questo è bellissimo ecco».
L’affermazione di un’identità propria e molteplice, passa inevitabilmente per la riappropriazione e la produzione di saperi nuovi da parte delle donne. Saperi attraverso i quali rivendicare uno spazio di possibilità alternativo a quello del focolare, in grado di rompere con il passato e con quelle che erano sempre state considerate le “competenze femminili”. Una conoscenza che diventa immediatamente atto di liberazione dall’imposizione di un ruolo e dalle innumerevoli aspettative ad esso connesse. La capacità creativa delle donne innerva, dunque, tutti i campi del sapere e diventa una lente attraverso la quale leggere la complessità del reale. È come un nuovo sguardo che si affaccia con curiosità sul Mondo ed in primis proprio sulla politica.
Primo: «Il movimento delle donne anticipa, in buona parte, la ricchezza del movimento ’77 che diventa poi più generale, pur nella loro differenza. È la prima critica radicale della politica che emerge dentro il circuito della nuova sinistra e si estende in tutti i campi, fino ad arrivare alla scienza, fino ad arrivare alla didattica, fino ad arrivare al vissuto quotidiano, alle leggi e all’assetto più generale della società. Beh, era una cosa enorme. È stata una cosa che permane ancora oggi come ricerca originale, culturale e scientifica, da parte delle donne».
La relazione con i saperi interna al movimento femminista si presenta da subito in forme variegate, poiché da un lato vi è la necessità di appropriarsi di saperi dai quali si era rimaste a lungo escluse, dall’altro si criticano quegli stessi saperi per come hanno contribuito a creare la subordinazione delle donne. Il sapere diviene così un campo di battaglia, in cui tracciare solchi e crepe per delineare un nuovo paesaggio, una nuova storia e nuovi usi della conoscenza. Il femminismo pratica e produce un sapere situato, che immediatamente si fa prassi nella capacità di ridisegnare il mondo e non solo di descriverlo. Il sapere femminista parte dalla consapevolezza di essere state a lungo oggetti di saperi e che la trasformazione (il passaggio) in soggetto ha senso solo se trasformativa, capace di osservare i processi di esclusione ed inclusione per sovvertirli. È un sapere non neutro non solo perché non lo sono i corpi che lo incarnano ma anche per lo sguardo che lo innerva, connettendo campi diversi con una visione eminentemente politica.
Il maschile impreparato
Primo: «Devo dire che eravamo tutti impreparati, io stesso ho sopportato con difficoltà questa offensiva durissima di richiesta di spazio. C’è voluto un paio d’anni prima che mi abituassi… devo dire che non l’ho mai superata del tutto se è per quello. Però… vabbé… riconosco la grandezza, cosa ha introdotto di diversità e di ricchezza questo movimento».
La pratica politica delle femministe si caratterizza così per la simultanea rivendicazione di spazio e di tempo: una stanza per sé e le altre per non essere intrappolate negli automatismi della politica nonché per avere tempo per smontarli, in un costante fiorire di gruppi, esperienze, liti, manifestazioni e domande. Primo Moroni, lucidamente e a partire da sé, ci parla delle reazioni maschili a queste richieste, che vengono immediatamente viste come contrappositive. Sicuramente i femminismi esplicitano una critica radicale del patriarcato che agisce attraverso un maschile egemonico, una critica dura e senza sconti che gli uomini/compagni spesso vivono unicamente come un’accusa e che molto spesso viene letta come un unico discorso e, dunque, caricaturizzato.
Primo: «Ho visto allora – e parlo da uomo – decine e decine di compagni stare proprio malissimo su quest’emergere della differenza femminile».
Emerge dunque con forza una sofferenza maschile, un’incapacità di comprendere che passa per la difficoltà a sentirsi chiamati in causa in quanto complici di un sistema di oppressione che travalica i confini dello spazio pubblico, pervadendo le relazioni private. E questa difficoltà diviene rifiuto e scherno per tenere a distanza una perturbazione che illumina gli angoli opachi degli spazi della politica. Si tratta, infatti, di farsi carico del rischio di aver incarnato non solo dei privilegi, ma anche di aver riprodotto delle strutture di oppressione ed esclusione, perfino mentre si cercava di costruire un mondo nuovo. E se è già difficile riconoscersi come agenti di pratiche gerarchiche quando si vogliono scardinare le gerarchie; è ancora più complicato se queste gerarchie si fondano soprattutto su gesti quotidiani, che assumono valore perché ripetuti. Le strade dell’adesione formale, di facciata, o del riso diventano così quelle più battute, insieme alla tacita richiesta che siano le donne e le persone LGBT a farsi carico della sovversione delle oppressioni, riproducendo l’idea che sia una questione (come dice bene Ida Farè) che riguarda soltanto loro, rafforzando l’immagine di un neutro maschile che può non interrogarsi su di sé, lasciando ad altr* il compito di smantellarlo.
Le tematiche affettivo/relazionali – Il personale è il politico
Primo: «Arrivavano questi uomini e molti di loro erano più giovani di me, io sono un po’ tra i più vecchi di quella generazione lì e si appoggiavano al banco dove stavo sempre [Ida: piangendo, piangendo], e cominciavano a raccontare delle storie stranissime. Che tornavano a casa e avevano questi contratti con le loro compagne, che queste mettevano in discussione tutto quanto il ruolo e che facevano una critica durissima su quello che loro dicevano nelle assemblee o nelle riviste o nelle attività politiche, e che non aveva riscontro nel privato. E lì ha cominciato a circolare questa parola magica che era “il personale è il politico” che, detta oggi, sembra una cosa scontata e banale, ma quando è venuta fuori ha avuto un effetto assolutamente dirompente e non immediatamente chiarito su questa questione. Ricordo che almeno tre o quattro delle riviste che giravano nella libreria si sono letteralmente spaccate su questa questione, proprio con redattori che se ne andavano, donne che uscivano, alcuni che andavano fuori di testa completamente nel privato e non si presentavano più nelle attività. Il primo anno e mezzo è stato molto confuso».
Lo slogan “il personale è politico”, frutto dello stravolgimento di saperi e pratiche messo in atto dal femminismo, perturba le possibilità di pensare una pratica politica esclusivamente razionale, fatta solo di analisi e strategie e sorda alle emozioni che non siano l’entusiasmo acritico. Come sottolineato anche da Ida Farè non si tratta, e non si è trattato, di fermarsi all’analisi intimista di un disagio individuale ma di trovare collettivamente le tracce strutturali di quello stesso disagio per costruire pensieri e parole in grado di uscirne. Il personale è politico significa, in questa accezione, mettere in luce le trame che legano le dimensioni pubbliche e quelle private in un duplice senso: nelle oppressioni che si subiscono e in quelle che si agiscono, negli spazi di potere che si smantellano e in quelli liberati che si ricreano, riconoscendo di non essere estranee alle gerarchie attraverso cui si struttura la società non per assolversi bensì con lo scopo di usare le fratture che si creano tra le nostre vite e le nostre pratiche politiche per far passare la luce, senza livellarle o nasconderle.
Ida: «Però devo dire che, intorno agli anni ’75 ’76 ’74, così, tutti i gruppi di donne interni ai gruppi della sinistra extra parlamentare – come si chiamava allora – si sono messi in crisi con la modalità maschile di fare politica dei loro gruppi e sono, prima o poi, usciti in modo clamoroso e scegliendo una politica più specifica di donna. E questa cosa ha suscitato, non so, un grande sconquasso. Che poi si è riflettuto anche in altre storie ancora assunte dagli uomini. Però devo dire che è stata un’esperienza molto difficile e anche molto bella. Per esempio, si era partiti dall’angelo del ciclostile, la contestazione della famosa figura dell’angelo del ciclostile e c’era un rifiuto delle modalità di fare politica ancora una volta gerarchiche: chi parlava meglio, chi aveva più potere, chi aveva studiato di più la sera prima e quindi raccontava la cosa in modo migliore. E c’era questa contestazione che veniva da parte delle donne ed era molto carino perché c’era sempre una che si alzava e diceva “io mi sento male”, faceva “io mi sento a disagio, io mi trovo male”. E allora, il portare la parte emozionale, di disagio, di affettività all’interno di un discorso che in qualche modo viaggiava sempre secondo regole costituite, razionali, di obiettivi, di tattiche e di strategie era di una novità sconvolgente».
Il femminismo introduce con forza le tematiche affettivo-relazionali nella teoria e nella pratica politica, affermandone la legittimità e costruendo uno spazio di agibilità per le questioni ad esse affini. Alla politica performativa, ancorata alla pratica dell’obiettivo, si sostituisce la pluralità di presa di parola e la condivisione di vissuti legati al quotidiano percepiti come immediatamente politici. Questa dirompente novità stravolge gli assetti delle soggettività militanti, specialmente quelle miste, esitando molto spesso nella rottura e nella divisione degli stessi gruppi. Ci viene dunque da chiederci se la “scelta separatista” non sia forse stata l’unica strada praticabile per evitare che quella potenza femminista venisse annullata o fagocitata dall’implicita “gerarchia delle lotte” che dominava lo scenario politico. Spesso il separatismo è stato anche un sottarsi a quella costante necessità di difendersi, di spiegare il proprio femminismo e di rivendicarne l’importanza, che stare nei luoghi della politica mista richiedeva (e tuttora spesso richiede), costruendo spazi in cui potersi prendere il tempo di esplorare il proprio femminismo e non soltanto difenderlo. Tale scelta, come ricorda la stessa Ida Farè nelle sue parole, ha comportato fatica e dolore per le vite di tutt* i/le militanti. Allo stesso tempo il femminismo, acquisendo forza e potenza grazie alla sua messa in discussione dei saperi e della loro trasmissione, mette in discussione l’idea di una gerarchia politica basata unicamente sulla competenza e sulla performance. Non si tratta, in questo caso, di rivendicare l’ignoranza delle strategie politiche ma di riconoscere come si producono i meccanismi di produzione del sapere, su quali privilegi si basano e quali norme incarnano per smontarli e trasformarli in ingranaggi collettivi, che non procedano in maniera linearmente verticale, ma che si diramino in modo circolare, fatto di continuo scambio con l’esperienza. Il femminismo ci insegna a non dimenticare che la politica è un’arte pratica, che si apprende facendola, e che quindi le forme del fare non dovrebbero riprodurre esclusioni, ma essere molteplici e molteplicemente attraversabili.
L’odierno atteso imprevisto
Alla vigilia della manifestazione nazionale di NonUnaDiMeno del 23 novembre, non possiamo che ascoltare lo scambio tra Ida Farè e Primo Moroni immerse nel presente, nelle mobilitazioni che da tre anni inondano le nostre vite, le nostre strade, le nostre piazze e i nostri luoghi politici. Un movimento, quello transfemminista, che ha messo in discussione anche sé stesso e le relazioni al proprio interno, riconoscendo la violenza del genere non solo sulle donne, ma anche su tutte le soggettività che vengono femminilizzate. Un movimento che ci spinge costantemente a interrogarci, da femministe, sulle nostre pratiche politiche e sugli spazi che costruiamo, prendendoci il tempo, in ogni assemblea, di dare ai vissuti (anche emotivi) senza mai perdere di vista la loro profonda natura politica. E non si tratta, sia chiaro, di crogiolarsi nelle proprie emozioni o nella riflessione su di sé, ma di agire qui e ora, sempre e di nuovo, quella possibilità di un mondo altro, di una sovversione in atto, di una classe, un’alleanza, che si costruisce sulle differenze dei vissuti e sulla necessità comune di volerci non solo vive, ma libere. Quest’attitudine non ci ha infatti mai impedito di costruire un ragionamento radicale ed elaborato sull’esistente, sulla natura strutturale della violenza patriarcale che, da sempre, trova nel pensiero liberale e capitalista una base su cui poggiare i propri scellerati attacchi ai corpi e alle vite delle donne e delle soggettività; contribuendo alla costante riproduzione di gerarchie sociali che determinano diseguaglianze e ingiustizie. Il movimento transfemminista globale ha rappresentato l’atteso imprevisto silenziosamente costruito in anni di “invisibile” e tenace tessitura .
Un movimento che, però, viene ancora troppo spesso letto come un tema, una questione, una “vertenza” e non in termini di prospettiva. Ci sembra infatti che la reazione maschile (e non solo) alle maree femministe passi per una sorta di “svalutazione” o, anche, per la sensazione di sentirsi attaccati, che diventa immediatamente, e a sua volta, motivo di attacco.
Se, come dice Primo Moroni, l’emergere della differenza femminista fa «stare proprio malissimo» i compagni, troppo spesso questo stare male diventa insofferenza, o, nel migliore dei casi, richiesta di un nuovo lavoro di cura per comprendere il femminismo, chiedendo alle compagne di renderlo accomodante, comprensibile, rassicurante. Togliendo, cioè, quel perturbante che la differenza femminista porta con sé.
Il femminismo ci ha insegnato e ci ha imposto, in maniera molto chiara, di abbandonare il pensiero binario per provare a cogliere la realtà nelle sue molteplici sfaccettature. Ci ha spinte a ripensare le lotte non in una prospettiva gerarchica bensì circolare. Ci ha offerto la possibilità di dotarci di un metodo nuovo, da mettere continuamente a verifica.
Certo, non è tutto rose e fiori (o pane e rose), molti sono i limiti e le ombre su cui fare luce. Ma a quasi quattro anni dall’irruzione di questa marea, le vite e le forme di militanza di molte hanno subito radicali trasformazioni. E allora, è proprio a partire da questa consapevolezza che vorremmo trovare le modalità più adeguate per confrontarci sulle tematiche emerse anche con i tanti compagni con cui abbiamo condiviso – e condividiamo – una fondamentale parte del cammino.
Non abbiamo infatti altra scelta (e altro desiderio) se non quella di continuare a lavorare per dare spazio al perturbante, per sedimentare nuove forme politiche che abbiano l’ambizione di parlare a tant* e di trasformare il presente. La strada da percorrere è stata aperta, la possibilità di intraprenderla assieme è una responsabilità di tutt*.