ITALIA
Personale infetto, sanità corrotta
Da Nord a Sud, c’è una lunga storia di saccheggio della sanità pubblica che non va dimenticata: tra truffe al sistema sanitario, commissariamenti delle Asl per infiltrazioni mafiose, voragini di bilancio. E intanto il personale medico in prima linea contro il Covid-19 continua ad ammalarsi e morire. Viaggio nel sistema sanitario italiano
Se quella del Sars-Cov-2 è certamente un’emergenza di intensità inedita, altrettanto vero è che si sta sviluppando all’interno di una situazione già critica su molti fronti. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità (Iss), alla data del 26 marzo erano presenti sul nostro territorio almeno 6.416 casi di contagio fra il personale sanitario. Un numero alto (circa il 10% di medici e infermieri attivi) che, oltre ovviamente a rappresentare un rischio per la salute di chi contrae il virus, sta compromettendo sempre più il funzionamento e la gestione delle strutture sanitarie. Al punto che ci si chiede se non siano proprio queste ultime a costituire il maggior veicolo di diffusione della pandemia nel nostro paese (si veda a questo proposito la lettera scritta da alcuni medici dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo).
«Eravamo in estrema difficoltà già prima dello scoppio dell’epidemia, figuriamoci ora», afferma un operatore sanitario che preferisce restare anonimo. Lavora a Treviglio, in provincia di Bergamo, la più colpita in termine di contagi e decessi. «A livello territoriale mancano risorse e personale, ma soprattutto c’è una totale assenza di gestione e direttive – continua – È solo da pochi giorni, per esempio, che siamo riusciti ad approntare un luogo di vestizione sicuro e isolato dal resto della struttura. Inizialmente, eravamo costretti a cambiarci in corridoio! C’è stata dunque una commistione totale fra personale sanitario, pazienti infetti e non infetti. In più, mancavano sia i dispositivi per la protezione individuale sia delle misure chiare per il loro utilizzo: nei primi giorni veniva imposto di indossare la mascherina solo a quegli operatori che lavoravano in prossimità di un paziente infetto. Ora, chiaramente, la indossiamo tutti ma in un regime di scarsità che ci costringe a utilizzare sempre la stessa nell’arco della giornata e dunque a non mangiare e a non bere per l’intera durata del turno di lavoro».
Come attestano i dati forniti in apertura, non è certo un mistero l’elevato numero di contagiati fra gli operatori sanitari. Eppure i tamponi vengono effettuati solo nei contesti e nelle situazioni più critiche, lasciando così scoperta buona parte di personale ospedaliero nonché una larga fetta di medici di base. Pare, inoltre, che da ora in poi anche per chi lavora in corsia non saranno più disponibili i tamponi presso la struttura sanitaria bensì occorrerà rivolgersi al proprio medico di famiglia. «Il fatto è che non si vuole lasciare nessuno a casa, perché manca personale», prosegue l’operatore sanitario di Treviglio. «Tra l’altro ho provato a verificare: nel caso, il mio medico di base non avrebbe la minima idea di come farmi un tampone! Insomma, è proprio mancato un coordinamento. Si tratta di un problema che non scopriamo oggi: qua in Lombardia il travaso di risorse dal pubblico al privato va avanti da anni, i posti in terapia intensiva erano in costante diminuzione così come i presidi medici nei piccoli centri e gli investimenti maggiori sono stati compiuti su operazioni molto specializzate e percorsi riabilitativi. In pratica, i compiti più gravosi vengono lasciati al pubblico mentre gli si sottraggono risorse. Il risultato è che, di fronte all’epidemia e alla scarsità di strumenti, per i pazienti di una certa età abbiamo smesso di praticare l’intubazione».
Il risultato è anche che, assieme ai contagi, i decessi di medici, infermieri e operatori socio sanitari continuano a salire. Spesso, si tratta di persone con un età per nulla avanzata: è il caso di Diego Bianco, 46enne operatore del 118 in servizio a Bergamo morto presso la propria abitazione, oppure di un 48enne dipendente della Sanitaservice di Foggia che, a quanto pare, non presentava alcuna patologia pregressa. Il 24 marzo il sindacato dei medici dirigenti Anaao Assomed scriveva una lettera al Presidente dell’Istituto Superiore della Sanità Silvio Brusaferro per denunciare la totale mancanza di protezione per chi si impegna quotidianamente nell’assistenza sanitaria ai malati di Covid-19.
Ma già il 3 marzo l’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Milano lo affermava senza troppi giri di parole: «Abbiamo visto e avuto conferma che le istituzioni politiche e amministrative sono abituate a non tenere in gran conto i medici e gli operatori sanitari». L’epidemia di Sars-Cov-2 sta dunque mettendo in luce varie criticità del sistema sanitario italiano, preesistenti all’emergenza attuale e causate da fattori economici, decisioni politiche e riorganizzazioni logistico-amministrative sui territori. Ma anche, se non soprattutto, da episodi di corruzione conclamata, da veri e propri schemi di razzia e rapina di risorse pubbliche che hanno coinvolto diverse personalità del panorama politico italiano di cui – anche grazie ai nuovi elementi che stanno emergendo con l’epidemia di Covid-19 – è possibile ricostruire la storia precisa.
Foto di Darko Stojanovic
Un’indagine in Calabria
Che esista un sistema di potere criminale ramificato disposto a qualsiasi cosa pur di accaparrarsi la gestione e le conseguenti risorse della sanità pubblica, l’Italia lo scopre un pomeriggio di quindici anni fa, il 16 ottobre del 2005. È il giorno in cui si svolgono le primarie della coalizione di centro-sinistra che sfiderà l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi alle elezioni politiche che si dovranno tenere nella primavera successiva. A Locri, intorno alle 17.30, il professor Francesco Fortugno, primario in aspettativa del reparto di pronto soccorso del locale ospedale ed ex professore a contratto all’università di Catanzaro, viene freddato da cinque colpi da fuoco mentre si trova davanti a Palazzo Nieddu del Riu, il seggio locale delle primarie. Francesco Fortugno, in quel momento, è uno degli uomini politici più in vista della regione Calabria, governata a quel tempo dalla coalizione di centro-sinistra.
Vice-presidente del consiglio regionale, appena qualche mese prima era risultato alle elezioni regionali il consigliere più suffragato. Dunque, l’omicidio di Fortugno è “un delitto eccellente”. Per questo, le più alte cariche dello Stato si precipitano in Calabria. «Lo Stato c’è e ci sarà compiutamente quando la realtà economica e civile produrrà anticorpi per sconfiggere un fenomeno così radicato come quello della ‘ndrangheta», disse allora il ministro dell’Interno Beppe Pisanu rendendo omaggio alla salma del deputato regionale insieme al presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, a un paio di ministri del governo e ai colleghi di coalizione di Fortugno, Rosy Bindi, Massimo D’Alema, Romano Prodi, Francesco Rutelli.
E tuttavia nel quadro del contesto dell’omicidio, le prime indagini degli inquirenti scovano un ambiente di clientele costruite e favori fatti, e alcuni mancati, alle spalle della macchina pubblica calabrese, soprattutto, di quella sanitaria, tali per cui la minaccia alla vita di Francesco Fortugno «sarebbe potuta arrivare da qualsiasi ambito», dissero allora gli inquirenti che scoprirono così che il politico calabrese durante il suo mandato si era opposto ad alcune nomine in società della Regione. Pochi mesi prima della morte Fortugno si era opposto all’insediamento di un nuovo reparto di medicina d’urgenza all’ospedale di Locri perché lo aveva considerato soltanto uno spreco di denaro pubblico.
Sullo sfondo delle indagini, però, emergerà anche una lotta intestina per accaparrarsi un seggio in Consiglio e un posto di assessore alla Sanità tra Fortugno e un collega di partito. Così come emergeranno dalle successive indagini che scaturiranno proprio da quel delitto gli intrecci criminali e perversi tra sanità pubblica e privata in Calabria e prepotente verrà fuori la figura del successore di Fortugno nel partito della Margherita e nello stesso consiglio regionale calabrese, di Domenico Crea, che sarà arrestato nel 2008 e poi condannato a sette anni e mezzo in appello per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa.
“Onorata sanità ” fu definita così quell’ indagine giudiziaria portata avanti dalla procura di Reggio Calabria, e scaturita da un filone d’inchiesta sull’omicidio del vice-presidente della regione Calabria, Francesco Fortugno. Un’inchiesta complessa che svelò per la prima volta l’esistenza di «un patto tra ‘ndrangheta e politica, per il controllo del settore della sanità in Calabria». Che portò in cella i killer, coloro che saranno considerati i mandanti e poi condannati all’ergastolo dell’omicidio Fortugno, ma anche alcuni dirigenti sanitari, accusati a vario titolo di «associazione mafiosa, abuso d’ufficio, falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale, truffa, omissione di soccorso, soppressione e distruzione di atti veri».
Da subito, fu disposta dalla Giunta regionale della Calabria «la sostituzione immediata di tutti i vertici dell’assessorato alla Salute e la sospensione dei dirigenti colpiti da misure cautelari», a causa di quello che secondo il presidente della Commissione parlamentare antimafia dell’epoca Francesco Forgione si era rivelato «un vero e proprio sistema di interessi e di affari costruito sullo scempio della sanità pubblica calabrese». Anche le istituzioni nazionali intervennero: commissariando più volte, negli anni, per infiltrazioni mafiose, la Asl 9 di Locri e la Asp 5 di Reggio Calabria (nata dall’accorpamento delle aziende sanitarie di Reggio, Locri e Palmi). Non solo. Anche l’Asl 4 di Pomigliano d’Arco, a Napoli e quella di Pavia, agli inizi degli anni dieci del 2000, subiranno la stessa sorte. Perché dopo 15 anni da quel “delitto eccellente” di Locri, dal Sud al Nord dell’Italia oggi c’è una lunga storia di saccheggio e rapina della sanità pubblica che non va dimenticata. Che, anzi, nei giorni della grande epidemia va ricordata.
Quando ci si arriva a chiedere perché il personale sanitario non abbia le adeguate protezioni, perché si ammala il personale del 118, quando si teme per la sanità al Sud, mentre crolla l’”eccellenza” sanitaria lombarda, occorre guardare a cosa è successo prime dei giorni della grande epidemia, da Nord a Sud. Certo, tra le truffe scovate dai magistrati al sistema sanitario nazionale, i commissariamenti delle Asl a causa delle infiltrazioni mafiose e le voragini finanziarie dei bilanci, è la regione Calabria a fare la parte della “padrona”, nel saccheggio del sistema pubblico: per debiti accumulati, soldi spariti e disservizi.
I conti in rosso a quella che è la prima sanità regionale in termini di buco di bilancio e anche l’ultima nel garantire i livelli minimi essenziali di assistenza, li ha fatti l’attuale commissario della sanità calabrese, l’ex generale dei carabinieri Saverio Cotticelli. Che quando si è insediato ha descritto la situazione come un saccheggio sistematico delle casse pubbliche. Cotticelli ha rivelato ad aprile del 2019 il meccanismo di spesa che in Calabria ha avvantaggiato i privati, laboratori di analisi e simili, che ha provocato però negli anni un saldo passivo per le casse pubbliche pari a centinaia di milioni di euro, e, nel frattempo, «l’Asp di Reggio Calabria non ha un bilancio dal 2012. E di tutte le altre abbiamo calcoli approssimativi».
Un funzionamento malato a cui aveva provato a mettere una pezza ai tempi del governo giallo-verde la ministra Giulia Grillo, la quale, proprio nominando l’ex generale dei carabinieri super commissario, aveva previsto attraverso un decreto legge che, di fatto, «il governo ha esautorato la regione Calabria dalla gestione della sanità per 18 mesi, con il commissario che può sostituire i direttori generali di aziende sanitarie e ospedaliere». Una pezza che per qualcuno, come il professore di diritto civile della sanità e dell’assistenza sociale dell’università Calabria Ettore Jorio, si è rivelata peggiore del buco. Nei giorni della grande epidemia questa regione non è in grado di assicurare posti letto, garantire personale e farmaci salva-vita, persino, di assicurare il servizio richiesto di ambulanze. Eppure gli allarmi, anche parlamentari, sulla grave situazione finanziaria della sanità calabrese non erano di certo mancati.
Bergamo, 19/03/2020 (2020©Roberto Giussani – red zone chronicles)
Il modello lombardo
Come hanno dimostrato le numerose inchieste giudiziarie, negli anni, quel modello di saccheggio della sanità pubblica è diventato il sistema. Anche al Nord. Vedi Pavia, dove la Asl è stata sciolta dal Ministero dell’Interno alla fine del 2011, anche perché caduta a livello finanziario sotto i colpi del sistema di potere creato dal defunto ras della sanità lombarda, Giancarlo Abelli insieme alla moglie Rosanna Gariboldi. Entrambi finiti più volte nelle maglie della giustizia per questioni legati alla sanità lombarda. Tutti e due legati a doppio filo al governo del “Celeste”, il blocco di “potere clientelare” capeggiato dall’ex presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, che la sanità lombarda l’ha governata per quasi 15 anni. Il leghista è riuscito a dirottare qualcosa come 200 milioni di euro destinati al pubblico nelle casse e nelle tasche private e alla fine della giostra è stato condannato in via definitiva a 5 anni e 10 mesi per un giro di tangenti legati a strutture sanitarie private quali il San Raffaele e la Fondazione Maugeri di Pavia. Ed è un fatto che oggi quei soldi pubblici tornerebbero comodi al sistema sanitario nazionale e a una regione dove è ormai evidente che lo spostamento di risorse e di preponderanza organizzativa sul privato sta portando a una paralisi decisionale, logistica e di risorse.
È quel modello di accaparramento di risorse pubbliche, di sanità neoliberale che a un certo punto si è voluto spostare anche nel Sud dell’Italia, e che del Sud ne prendeva a modello l’aspetto clientelare e speculativo. Come mostrava il progetto poi naufragato e mai partorito dello strano caso San Raffaele del Mediterraneo di Taranto, in una città e in una regione dove non sono mancate le truffe milionarie al sistema sanitario, messe in pratica da quelle consorterie composte da imprenditori faccendieri, manager sanitari corrotti e politici infedeli. Fatti a cui dopo vent’anni la magistratura ha presentato il proprio conto definitivo. Senza però restituire ai cittadini le risorse perdute. È il modello che frega il pubblico per avvantaggiare i profitti privati. È quello che implode da Nord a Sud nei giorni della grande pandemia.
Se c’è una unità nazionale che si rivela in queste ore è proprio quella dei soldi sottratti al sistema sanitario nazionale. Come i milioni di euro confiscati negli anni Dieci del 2000 a ladyAsl nel Lazio. O come il denaro che la classe politica democratica al governo della sanità dell’Umbria avrebbe potuto impiegare meglio. Perché oggi da Nord a Sud c’è una lunga storia di saccheggio della sanità pubblica che non va dimenticata, quando si fa presente che negli ospedali mancano i posti letto, le ambulanze, le mascherine, i guanti, le tute adeguate, i dispositivi di sicurezza per gli operatori del 118 che si ammalano, certo, a causa del Sars-Cov-2, ma anche della rapina di risorse andata avanti per anni.