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MONDO
Per un’analisi teorica dei dazi di Trump
Con il Liberation Day Trump vorrebbe interrompere il presunto saccheggio a cui gli USA sarebbero stati sottoposti da parte dei Paesi sia nemici che alleati, e riportare indietro produzioni industriali e posti di lavoro, riducendo il debito pubblico. Ma gli effetti rischiano di essere negativi per i consumatori e i lavoratori americani
Alla fine è arrivato il Liberation Day, ovvero l’introduzione di una serie di dazi sulle importazioni degli USA. Trump ha annunciato che saranno la metà delle tariffe che secondo il presidente americano il proprio paese subisce ingiustamente da parte dei propri partner commerciali. Sul “Sole 24 Ore” leggiamo più nel dettaglio le cifre di queste ritorsioni americane. L’UE viene colpita da un dazio del 20% ed è accusata di applicare barriere tariffarie e non tariffarie pari al 39%. Il Giappone è colpito da un dazio del 24%, la Corea del Sud del 25%, l’India del 26%, Taiwan del 32%, il Vietnam svetta su tutti con il 46% mentre Regno Unito e Brasile si fermano al 10%. Il grande rivale degli USA, la Cina, vede aggiungersi ai dazi già esistenti un altro 34% per un totale pari al 54%. Dopo il 5 aprile, inoltre, ci sarà una tariffa base del 10% per tutti i paesi e dal 9 aprile i paesi considerati “peggiori” saranno soggetti a dazi più elevati. Per quanto riguarda Canada e Messico, già soggetti a dazi del 25%, avranno delle esenzioni parziali per via dell’accordo di libero scambio tra i paesi del Nord America. L’obiettivo di Trump è interrompere il saccheggio a cui, a suo dire, gli USA sono stati sottoposti da decenni da parte sia di paesi nemici che alleati con l’intento di riportare produzioni industriali e posti di lavoro nel paese e allo stesso tempo, grazie alle risorse provenienti dai dazi, finanziare la riduzione del debito pubblico americano e un taglio delle tasse.
I dazi e il dollaro
Per capire la logica sottostante a questa scelta di politica economica conviene seguire l’indicazione di Luigi Pandolfi in un recente articolo apparso sul “Manifesto” e recuperare A user’s guide to restructuring the global trading system di Stephen Miran, l’architetto dei dazi di Trump, nominato lo scorso mese alla presidenza del Consiglio dei Consulenti Economici. Il suo paper delinea una dettagliata analisi delle criticità strutturali del sistema commerciale globale focalizzandosi sulle conseguenze economiche e geopolitiche del ruolo egemonico svolto dal dollaro americano in quanto valuta di riserva internazionale. L’intero ragionamento ruota attorno a una contraddizione fondamentale, quella tra la domanda globale di asset denominati in dollari, pari a circa 7 trilioni di dollari tra riserve ufficiali e investimenti privati, e la conseguente pressione al rialzo insostenibile sul cambio valutario. Il risultato è una sopravvalutazione cronica del dollaro stimata tra il 15% e il 20% rispetto al livello necessario per garantire l’equilibrio commerciale e questo genera effetti devastanti, secondo Miran, per l’industria americana. L’economista di Trump cita dei dati a sostegno di questa tesi. Per esempio tra il 2000 e il 2011 le importazioni cinesi negli USA hanno fatto perdere ben 2 milioni di posti di lavoro con punte del 40% nella quota di occupazione manifatturiera in alcune aree del Midwest. Tutto ciò ha un impatto socioeconomico molto grave nelle comunità impossibilitate a procedere ad una riconversione occupazionale a partire da questa tipologia di industria e di conseguenza si generano spirali di declino urbano e dipendenza da sussidi pubblici.
Il nucleo teorico dell’analisi di Miran è una rivisitazione del paradosso di Triffin. Infatti l’economista sostiene che gli USA si trovano costretti a mantenere un deficit delle partite correnti, di circa il 3% del Pil, perché devono soddisfare la domanda globale di dollari ma così facendo producono le condizioni affinché venga erosa la propria base industriale. Il meccanismo che ne deriva ha contribuito a ridimensionare il peso relativo dell’economia americana, non a caso passata dal 40% del Pil mondiale negli anni ‘60 all’attuale 26%, e in questo modo è stata ridotta la capacità degli USA di assorbire gli effetti distorsivi del proprio status di paese che emette la valuta di riserva globale. Miran sostiene che questo scenario possa essere modificato con i dazi. Quelli imposti tra il 2018 e il 2019 hanno comportato un aumento medio del 17,9% delle tariffe sulle importazioni cinesi compensato per il 76% da un deprezzamento del 13,7% del renminbi con la conseguenza di limitare l’impatto inflazionistico in un range compreso tra il +0,3% e il +0,6% sull’indice dei prezzi al consumo. I dazi potrebbero diventare un modo per trasferire la ricchezza dai paesi esportatori direttamente al Tesoro americano senza conseguenze per i consumatori americani. Infatti Miran stima che dazi generalizzati al 10% potrebbero incrementare le entrate fiscali tra i 120 e i 150 miliardi di dollari all’anno da indirizzare, ovviamente, ai tagli alle tasse.
Per quanto riguarda gli aspetti valutari, Miran sostiene la possibilità di giungere a un Mar-a-Lago Accord ispirato al Plaza Accord del 1985 con l’obiettivo di convertire le riserve in dollari in titoli del Tesoro con una scadenza addirittura di 100 anni per allungare la duration media del debito pubblico americano da 6 a 10 anni.
Questa misura dovrebbe essere affiancata dall’utilizzo dell’International Emergency Economic Powers Act che consentirebbe di applicare una tassa tra l’1 e il 2% per ricavare altri 40/50 miliardi all’anno per disincentivare l’accumulazione di riserve. Perfino un uomo dell’establishment economico mondiale come Raghuram Rajan su “Project Syndicate” ha criticato questa teoria. I deficit commerciali e fiscali degli USA e l’aumento della domanda estera di asset americani non si verificano con le stesse tempistiche. Nel primo caso iniziano nella metà degli anni ‘70, nel secondo caso dopo la crisi finanziaria asiatica del 1997. Rajan, inoltre, ricorda che il deficit commerciale degli USA riguarda i beni e non il settore dei servizi, anzi, in questo settore il paese ha un importante surplus che suggerisce un comportamento basato sulla logica del vantaggio comparato e non sullo squilibrio strutturale. Inoltre se la domanda globale di titoli del Tesoro USA fosse veramente così elevata i tassi d’interesse di questi titoli di stato dovrebbero essere più bassi, cosa che non accade nella realtà. Lo stesso Miran è costretto ad aggiustare la sua teoria sostenendo che non basta compensare un dollaro forte con i dazi alle importazioni perché il rischio è un suo rafforzamento con l’effetto di rendere vane le tariffe messe a protezione dei produttori nazionali. La sua soluzione è un deprezzamento guidato del dollaro in sinergia con le banche centrali straniere, cosa che per Rajan implica una vendita dei titoli del Tesoro e di conseguenza si genererebbe un ostacolo al finanziamento del deficit fiscale americano.
Gli effetti interni Usa
Le politiche di Trump avranno degli effetti negativi anche sui cittadini americani. Dominik Leusder su “Jacobin” scrive che questa presunta liberazione economica si tradurrà in un aumento dei prezzi su quasi tutto ciò che i cittadini americani comprano, smentendo così le teorie di Miran. Ad esempio, con i dazi complessivi al 54% sulle importazioni cinesi il prezzo di un iPhone da 500 dollari arriverà a 720 dollari, mettendo in difficoltà i consumatori americani già alle prese con debiti e inflazione. Un discorso simile può essere fatto per il 90% dell’elettronica di consumo che viene dalla Cina e anche dal tartassato Vietnam, dove di solito è assemblata. Beni come televisori o laptop all’improvviso si trasformeranno in beni di lusso per molte famiglie. I dazi si faranno sentire anche per il settore tessile, con il 40% delle importazioni americane che provengono dalla Cina, o per i mobili, dove sussiste una forte dipendenza dalle catene asiatiche. Il risultato: una maglietta o un paio di scarpe da ginnastica che costavano 20 o 30 dollari potrebbero subire aumenti tra il 15% e il 20%. Le politiche economiche di Trump rischiano di condurre gli USA sulla strada della stagflazione, ovvero prezzi in aumento e potere d’acquisto in contrazione.
Illusioni sindacali
Eppure l’illusione di poter riportare il lavoro negli USA in questo modo è riuscita a convincere perfino alcuni sindacati come l’UAW del settore automobilistico. Sul sito specializzato in vertenze sindacali negli USA “Labor Notes“ Andrew Elrod, dati alla mano, spiega l’origine della crisi di questo settore e perché i dazi non aiuteranno i lavoratori metalmeccanici americani. Sappiamo che il 26 marzo 2024 Trump ha annunciato un dazio del 25% su tutte le auto non prodotte negli Stati Uniti, con un’eccezione cruciale: i componenti che rispettano le regole dell’USMCA, il trattato che ha sostituito il NAFTA nel 2020. Questa misura riflette la complessa integrazione continentale del settore, con il 25% dei veicoli venduti negli USA assemblato in Messico e Canada.
L’industria automobilistica statunitense, nonostante le crisi cicliche, ha mostrato una crescita costante negli ultimi sedici anni. Nel 2023, anno di picco occupazionale, oltre un milione di lavoratori erano impiegati direttamente nella produzione di veicoli e componenti entro i confini USA. Questa espansione ha avuto un carattere duale. Le tradizionali Big Three (General Motors, Ford e Stellantis) hanno visto ridurre la loro quota produttiva mentre le case automobilistiche straniere operanti su suolo americano hanno registrato una crescita costante. Si tratta di un cambiamento strutturale che ha le sue origini negli anni ‘80, quando l’amministrazione Reagan impose quote alle importazioni giapponesi, limitandole a 1,68 milioni di veicoli annui. La misura, invece di proteggere l’industria domestica, spinse cinque case automobilistiche nipponiche, Honda, Nissan, Toyota, Mitsubishi e Subaru, a stabilire impianti produttivi sul territorio statunitense tra il 1982 e il 1989. Tutti questi stabilimenti erano non sindacalizzati, contribuendo a un radicale cambiamento nel panorama industriale. Infatti nel 1980 il 75% dei veicoli venduti negli USA era prodotto da lavoratori sindacalizzati, dieci anni dopo questa percentuale era crollata al 60%. La concorrenza delle ditte straniere si è rivelata particolarmente aggressiva grazie a diversi fattori concomitanti. La crisi petrolifera e la recessione del 1979-1982 avevano creato un mercato favorevole ai veicoli più piccoli ed efficienti, settore in cui le case giapponesi erano specializzate. Inoltre la manodopera non sindacalizzata consentiva costi del lavoro inferiori tra il 30% e il 40% rispetto alle fabbriche dove operava l’UAW. A questo si aggiungeva il sostegno attivo degli stati del Sud che offrivano generosi incentivi fiscali, per esempio la sola Alabama ha concesso alla Mercedes-Benz sussidi per 253 milioni di dollari nel 1993, equivalenti a circa 200.000 dollari per ogni posto di lavoro creato.
Il NAFTA, entrato in vigore nel 1994, ha rappresentato un punto di svolta nell’integrazione continentale del settore. Contrariamente alla narrazione dominante le Big Three non cercavano semplicemente di delocalizzare in Messico ma piuttosto di stabilizzare la concorrenza nel mercato nordamericano.
L’accordo prevedeva che entro il 2002 il 62,5% dei componenti automobilistici dovesse essere prodotto nel continente per beneficiare del commercio duty-free dando alle case automobilistiche sette anni per riorganizzare le catene di approvvigionamento, accelerando la migrazione dell’industria dei componenti verso il Messico. Gli effetti sul mercato del lavoro furono drammatici. General Motors, che già nel 1978 aveva aperto le prime maquiladoras in Messico, arrivò a controllare 32 stabilimenti di esportazione con 30.000 lavoratori messicani nel 1992. Parallelamente, la ristrutturazione dell’industria dei componenti portò alla creazione di Delphi (spin-off di GM) e Visteon (spin-off di Ford) nel 1999, seguite da un crollo occupazionale. Delphi, che nel 2001 impiegava 190.000 lavoratori negli USA, ne aveva solo 33.000 nel 2005 quando dichiarò bancarotta. L’USMCA ha inasprito ulteriormente il carattere protezionista continentale. Oltre ad alzare la quota di componenti nordamericani al 70% ha introdotto due innovazioni significative: un salario minimo continentale di 16 dollari l’ora per i lavoratori automobilistici e il Rapid Response Mechanism, un comitato trinazionale per le violazioni dei diritti sindacali. Il meccanismo, utilizzato con successo dai lavoratori messicani in due dozzine di stabilimenti, non è però applicabile negli USA a causa di una specifica esclusione nel testo dell’accordo. Tra il 1994 e il 2007-2009 su 14 nuovi stabilimenti di assemblaggio aperti negli USA ben 10 erano in stati right-to-work (dove i sindacati hanno minori poteri) mentre solo tre erano nel tradizionale cuore sindacale del Midwest. Questo spiega perché, nonostante la produzione complessiva sia aumentata, la quota di lavoratori sindacalizzati è crollata.
Una vera politica a favore dei lavoratori richiederebbe interventi più radicali, per esempio la creazione di un continental labor board, un organismo transnazionale che possa ricevere reclami dai lavoratori e risolvere dispute su scala continentale, non limitandosi ai singoli stabilimenti e da integrare nei negoziati commerciali per avere una base da utilizzare per una maggiore coordinazione tra i sindacati statunitensi e messicani. Per quanto riguarda le tariffe doganali, Andrew Elrod riconosce che gli Stati Uniti, negli ultimi trent’anni, hanno avuto alcune delle barriere più basse al mondo mentre l’Unione Europea applica dazi del 10% sulle auto importate e la Cina, negli anni 2000, ha imposto tariffe tra il 14% e il 28%. Tuttavia riconosce che i dazi da soli non bastano. Non a caso nazioni come Brasile e Cina hanno costruito le loro industrie automobilistiche combinando protezionismo con politiche aggressive di contenuto locale, tassazione delle corporation e controllo statale. Se gli Stati Uniti volessero davvero rivitalizzare la propria industria dovrebbero adottare misure più radicali come vietare i buyback azionari e aumentare le tasse sui redditi dei top manager, costringendo così le corporation a reinvestire gli utili in salari e occupazione. Ma la misura più efficace, in stile New Deal, sarebbe sostenere i sindacati nel fissare salari minimi più alti, garantendo che la crescita economica si traduca in migliori condizioni per i lavoratori. Sono tutte proposte in netto contrasto con l’approccio di Donald Trump che combina retorica nazionalista e una feroce opposizione ai sindacati, mantenendo un sistema che favorisce i profitti aziendali a scapito dei lavoratori.
Immagine di copertina da flickr.com
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