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Per una politica transfemminista delle immagini
Barbie – o meglio il fenomeno-Barbie – è riuscito a veicolare l’urgenza delle attuali politiche transfemministe? In che modo ci parla di identità, agency e autodeterminazione femminile mesi dopo l’uscita?
Se politica, cultura e società passano anche attraverso le immagini, oggi che si sono quasi del tutto affrancate dalla tutela del testo, “agendo” e producendo effetti nel mondo in autonomia, viene da chiedersi in che modo, queste immagini, ci parlano del cambiamento socio-culturale in atto, o meglio, del mutato paradigma epistemologico, citando Paul B. Preciado. A proposito di Barbie di Greta Gerwig, le domande sono due: Barbie – o meglio il fenomeno-Barbie – è riuscito a veicolare l’urgenza delle attuali politiche transfemministe? In che modo ci parla di identità, agency e autodeterminazione femminile mesi dopo l’uscita?
Sul finire del suo incendiario Sono un mostro che vi parla (Fandango, 2021), Paul B. Preciado invita il suo scettico uditorio a elaborare quanto prima una «epistemologia capace di rendere conto della molteplicità radicale dei viventi» facendo riferimento al decisivo momento storico-culturale che stiamo (finalmente!) attraversando. L’ordine politico, identitario e sessuale sono in mutazione, le nuove generazioni vivranno in un ecosistema multiplo e transumano in cui i concetti di binarismo di genere e differenza sessuale non saranno neanche più contemplati dal pensiero e dalla cultura in quanto già da tempo interiorizzati. Preciado lo mette quasi in guardia, il suo uditorio, affermando che «la vita è mutazione e molteplicità» e che, soprattutto, i futuri “mostri” protagonisti di questo processo di critica e invenzione epistemica per il riconoscimento di altre forme di soggettività, politiche, culturali, in altre parole umane, saranno quanti verranno dopo di noi, i nostri figli, le nostre figlie, i nipoti e le nipoti di un mondo che sta ormai scolorendo.
È necessario, ci dice Preciado, allontanarsi da una visione essenzialista del genere per immaginare la differenza, l’ambiguo, l’alterità e il margine. E il corpo, in primo luogo, inteso come dispositivo desiderante e interconnesso, incarnato nelle nuove tecnologie, deve essere percorso, decostruito e ricostruito trasversalmente, in modo transfemminista. Il prefisso trans- definisce qualcosa che attraversa ciò che nomina, ri-articolandosi: il transfemminismo così come teorizzato e praticato oggi integra questa componente trasformativa, di mobilità tra generi, corporeità e sessualità, con i presupposti della lotta femminista riguardanti la riacquisizione di autonomia e agency nella sfera pubblica e privata.
E se politica, cultura e società passano per lo più attraverso le immagini, oggi che si sono quasi del tutto affrancate dalla tutela del testo, “agendo” e producendo effetti nel mondo in autonomia, viene da chiedersi in che modo ci parlano di questo cambiamento. La domanda è banale: il cinema – questo pezzo parlerà di Barbie di Greta Gerwig, anche se per ora non sembra – riesce a veicolare l’urgenza delle attuali politiche transfemministe?
Il rapporto tra cinema e femminismo non è certo cosa nuova. Tutte le attività in cui erano coinvolte, ad esempio, le giovani donne negli anni Settanta, politiche e culturali, lavorative e familiari, creative e riflessive, erano attraversate dal desiderio di costruire esperienze di ridefinizione del soggetto femminile, oltre che di rifiuto del sistema egemonico. Si trattava di creare una tradizione che rifletteva il punto di vista delle donne, dinamica molto significativa nel contesto cinematografico: le donne che decidevano di fare cinema, lo facevano creando a partire dalla propria soggettività di donna e dalla differenza della propria esperienza.
Alla domanda «Cosa significa essere donna?» fatta ad Agnès Varda e ad altre registe da Sylvie Genevoix e Michel Honorin per la rivista “F. comme Femmes”, nel 1975, la cineasta rispondeva rivendicando la necessità di una riflessione – oltre che sulla condizione della donna – sul corpo di quest’ultima, in un periodo storico-culturale in cui i femminismi stavano finalmente cominciando ad affrancarlo dal dominio patriarcale: «si parla sempre della condizione femminile e del ruolo della donna», dichiarava Varda parlando del suo documentario Réponse de Femmes, «io voglio parlare del corpo della donna, del nostro corpo. Ho dunque chiesto di poter parlare del corpo e di mostrarlo a nostro modo per esibirlo».
Era prassi comune, quindi, che le cineaste militanti – Varda, Chantal Akerman, Vera Chytilova… – applicassero pratiche destrutturanti di codici e forme, esponendo il corpo in tutti i suoi caratteri, in primissimo piano (Varda più di tutte: L’Opera Mouffe è il racconto per immagini oniriche e surreali della sua prima gravidanza, con il suo corpo gravido protagonista) anche nella ricerca del desiderio erotico. Oggi «si devono fare dei film femministi», ci dicono, ci devono essere quote rosa nell’audiovisivo, venendo ripensato, quindi, lo spazio delle donne nell’industria cinematografica. Tuttavia, ciò che manca, se non per poche eccezioni, è una riflessione sul corpo e sulle immagini dalla carica sovversiva simile a quella rivendicata da Varda etc., se non maggiore, considerando le evoluzioni delle teorie queer e di genere e la stessa idea di transfemminismo, tornando a Preciado.
Certo, nessuno si sarebbe aspettato un saggio alla Simone De Beauvoir o un ripensamento del concetto di écriture féminine (perdonami, H. Cixous) da un film la cui sola promozione tra social, brand e moda è durata più di un anno ma, guardando Barbie è stato come assistere a un prolungamento inquietante delle ore passate a scrollare i social. Le sequenze, anche quelle più riuscite e divertenti, sono dei reels un po’ più lunghi e articolati e certi scambi di battute, che hanno l’ambizione di essere ironici e taglienti, non sono così tanto diversi dai mini-video messi a punto quotidianamente dai content creators.
Barbie è un film godibile così come lo è ritagliarsi qualche ora di tempo al giorno per fare zapping tra le varie piattaforme social e la ricezione che ha avuto lo testimonia: a detta di molt*, se il film ti piace, stai perfettamente riuscendo nel tuo percorso di autodeterminazione a suon di spot pubblicitari confortanti e pseudo-messaggi-rivoluzionari; se, invece, non ti piace o provi a individuare delle criticità, stai dando sfogo al tuo maschilismo interiorizzato, sei una cattiva femminista.
Ma partiamo da qualche dettaglio di trama. Il mondo raccontato da Gerwig è diviso tra Barbieland, il paradiso posticcio matriarcale e desessualizzato in cui convivono armoniosamente le varie Barbie e Ken consapevoli di essere dei giocattoli e il tristissimo e ipersessualizzato mondo reale. Barbie Stereotipo (Margot Robbie) apre inconsapevolmente un portale, o meglio, un canale di comunicazione con la bambina – ormai diventata donna (America Ferrera) – che era solita giocare con lei: pensieri di morte cominciano ad affollarle la testa, non sta più sulle punte, l’acqua che esce dalla sua doccia è fredda.
Barbie deve trovare la “sua” bambina e per farlo dovrà avventurarsi nel mondo reale insieme a Ken (Ryan Gosling). Una volta lì, si rendono conto che a dominare è una società patriarcale (la nostra) e le bambine che credeva la amassero cominciano a sputare veleno su tutto ciò che riguarda Barbie e la sua storia, a dare della “fascista” a Barbie Stereotipo per aver perpetrato, lei come le tante Barbie di successo che hanno costellato il marchio Mattel, un modello di donna invincibile, capace, forte, risoluta, una donna che avrebbe potuto essere qualsiasi cosa se l’avesse voluto. Gerwig – coadiuvata da Noah Baumbach alla sceneggiatura – decide sbrigativamente di affidare tutto il portato politico di una simile contraddizione al monologo finale di America Ferrera, in cui la donna declama a gran voce e con toni smielati, retorici e didascalici l’importanza e il valore della non-performatività nella società contemporanea. Fatto. Andiamo avanti.
Un altro esempio del modo in cui vengono affrontati alcuni tra i temi più importanti del pensiero transfemminista riguarda proprio il catcalling, e cioè quando Barbie, una volta messo piede nel mondo reale, sente addosso lo “sguardo”, il gaze, predatorio del maschio, lamentando a Ken, con due o tre giri di battute, le sue sensazioni contrastanti. Da spettatrice femminista, sentivo il bisogno che quello scambio di battute durasse un po’ di più, che venisse problematizzato sia a livello narrativo che contenutistico: desideravo che al problema dell’attraversamento dello spazio pubblico da parte di donne, soggetti queer, non binary etc. venisse concesso più spazio e tempo; o che la relazione tra male e female gaze venisse quantomeno visivamente raccontata, anche a partire dalla storia delle Barbie e del loro rapporto con la società in cui venivano realizzate. Ma, anche in questo caso, Gerwig ha liquidato una delle tante micro-tesi che voleva/doveva trattare. Parte la hit del momento: I’m Just Ken, Ryan Gosling è l’incarnazione del maschio alfa che capisce di poter essere fragile agli occhi del mondo. Applausi scroscianti. Il pubblico in visibilio. Instagram felice.
In questi mesi, a proposito del fenomeno-Barbie, si sta parlando di rivoluzione delle immagini, si citano alcune sequenze che si crede resteranno nella storia del cinema, si rivendica il punto di vista femminista sulle cose di Gerwig. La cineasta statunitense ha voluto incrociare – e in questo sì che è stata brava e furba – la ricercatezza del suo (vecchio…) stile e le dinamiche narrative e produttive del cinema mainstream, arrivando a un risultato, per l’appunto, godibile, di agevole visione, che parla alla realtà così come lo si fa sui social, nel breve giro di una storia Instagram.
Come se il cinema non potesse più godere del privilegio della “lunghezza” e delle temporalità dilatate, della sperimentazione linguistica, stilistica: Akerman e i suoi interminabili soliloqui, le carrellate di Varda, Catherine Breillat e le sue storie erotiche trascinate, liquide, frustrate, che quasi mai ci confortano. Ma questo non vuole essere un pezzo nostalgico. Anche perché, come accennato qualche paragrafo fa, ci sono tuttora esempi fulgidi di cineaste realmente anticonformiste (invito, a questo proposito, a leggere Architetture del desiderio. Il cinema di Céline Sciamma, a cura di Federica Fabbiani e Chiara Zanini, edito da Asterisco) che partono da un ripensamento delle immagini, dei codici visuali e delle prospettive sulle cose per dire qualcosa di “politico” sul mondo. Non c’è fibrillazione, in Barbie, non si avverte quello stato di tensione e insieme euforia per un mondo che sta perdendo le sue vecchie coordinate, il mondo di cui parlava Preciado, e non c’è, soprattutto, l’idea di una ridefinizione dello stesso a partire dal margine, dal queer, e dal corpo, e di conseguenza dalla riconfigurazione delle sessualità. «Thus the film does not know with sex», così scrive Pietro Bianchi in questo articolo sul film a proposito del semplicismo con cui viene affrontato il problema: resasi conto della propria diversità rispetto a Barbieland, alla fine Barbie Stereotipo sceglie il mondo reale e come primo passo decide di appropriarsi del suo sesso. Di nuovo nessun conflitto, nessuna idea di rinnovamento in un film che, riprendendo le parole di Bianchi, «è sintomatico di un’ideologia contemporanea piena di oggetti culturali infantilizzati e privi della dimensione inquietante della sessualità».
Il corpo, quindi, non è un corpo totalmente sottomesso o passivo, né un corpo esclusivamente maschile o femminile, nei termini in cui viene definito nell’universo del film, ma un corpo che può ri-significare se stesso. I soggetti dell’azione sono i corpi che possono riconfigurare le condizioni politiche. La capacità non risiede nel soggetto razionale, unitario, maschile o femminile, ma è il corpo che, nella nuova ontologia transfemminista di cui Barbie non è portavoce, può attraversare e demolire, se lo vuole, le assegnazioni che lo modulano.