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Per una giustizia trasformativa, tra gli Usa e l’Italia
Esce con Meltemi la traduzione del testo del 2020 di adrienne maree brown, per una gestione alternativa dei casi di violenza e abuso commessi all’interno della comunità militante. Il libro è accompagnato da un testo di Smaschieramenti che contestualizza il tema nel nostro paese
La collana “Culture radicali” di Meltemi ha recentemente pubblicato un nuovo volume Per una giustizia trasformativa, una critica alla cancel culture, traduzione di uno testo di adrienne maree brown We will not cancel us and other dreams of trasformative justice, accompagnato da uno scritto del Laboratorio Smaschieramenti, collettivo queer bolognese.
I due testi presenti nel volume cercano di affrontare una domanda spinosa, un fattore di costante elaborazione – oltre che di notevole discussione – all’interno dei movimenti antagonisti globali. É possibile praticare forme di giustizia trasformativa per i casi di abuso e violenza commessi all’interno dei movimenti? Oppure l’unica via possibile è il call out – cioè la denuncia pubblica dell’accaduto e del responsabile – con la conseguente pratica della cancellazione e l’allontanamento?
adrienne maree brown è una attivista statunitense che si definisce nel testo come «sopravvivente, nera, mulatta, queer e grassa, una strega, una facilitatrice e mediatrice di movimento» che scrive il testo nel novembre 2020, ovvero in uno dei momenti più pesanti dell’epidemia di covid 19 e all’indomani di una potente stagione del movimento Black Lives Matter. Il testo rielabora per la stampa e potenzia un primo scritto della stessa autrice uscito nel suo blog personale nel luglio del 2020, arricchendolo – dice lei – alla luce delle critiche ricevute per la prima versione.
Il testo parte da una costatazione evidente, ovvero la frequenza dei call out – spesso sui social network – per casi di violenza nei confronti di persone appartenenti al movimento e ha un obiettivo esplicito, «far vivere la giustizia trasformativa all’interno dei nostri spazi di movimento […] come una pratica in cui ci impegniamo rigorosamente e reciprocamente».
brown constata che i call out suscitano un’energia negativa, massiccia e liquidatoria, provocata da una sorta di piacevole attivazione in vista dell’abbattimento «indipendentemente da ciò che è in gioco nel call out, ossia gestendo nella stessa forma casi di abuso, di danno, di conflitto, spesso confondendo gli uni con gli altri perché «rendere una persona bersaglio di un call out online sembra la prima /l’unica opzione con cui molte persone affrontano qualunque disaccordo».
brown, sopravvivente lei stessa di un abuso, è perfettamente consapevole che in alcuni casi di abuso che coinvolgono direttamente il partner il call out è spesso l’unica forma di tutela immediata che si può generare senza coinvolgere lo Stato. Tuttavia non rinuncia a porsi domande sui meccanismi sociali e psicologici che portano i call out a essere così diffusi, con la loro conseguente pratica della cancellazione della persona oggetto dagli spazi condivisi. Secondo l’autrice bisogna «disapprendere il piacere di punirci a vicenda con umiliazioni pubbliche e vergogna» un piacere alimentato dalla dimensione online che rende virale il flame andando ben oltre i limiti della comunità all’interno della quale è stato commesso l’abuso e generando forme di deresponsabilizzazione – del tipo “ora che ho condiviso il post sull’ultimo call out di unx sconosciutx mi sento apposto” – che è esattamente il pattern opposto a quello che richiederebbe la giustizia trasformativa.
Alcuni call out a suo parere sono assolutamente necessari, ad esempio come quelli in cui c’è un grande squilibrio di potere tra chi accusa e chi è accusato, ma dovrebbero essere impiegati come ultima opzione, una sorta di freno di emergenza quando altre vie si sono esaurite, anche in considerazione del fatto che i risultati concreti non vanno oltre all’allontanamento della persona, non sono trasformativi né garantiscono che l’abuso non si produca di nuovo. Infine brown rilancia pratiche di mediazione nei conflitti, proponendo una serie di domande a cui bisognerebbe trovare risposta prima di agire tramite il call out, e sostenendo l’ipotesi di percorsi di giustizia trasformativa, che cerchino di andare alla radice sistemica del problema, ossia le strutture di violenza patriarcale e misogena della società in cui viviamo. «Noi non ci cancelleremo», dice brown concludendo il suo testo, «ma dobbiamo guadagnarci il nostro posto sulla Terra. Quando abbiamo danneggiato una persona diremo cosa abbiamo fatto e a chi. Ci spiegheremo il perché, chi ci ha provocato un danno e come. Ci comunicheremo di cosa abbiamo bisogno per guarirci e guarire le ferite disseminate lungo il cammino» rilanciando cioè l’invito a saper stare nel conflitto in modo assertivo e generativo anziché produrre unicamente cancellazioni.
Il testo del Laboratorio Smaschieramenti – collettivo queer bolognese attivo fin dal 2008 – è datato giugno 2024 e si pone in dialogo aperto con quello di brown, contestualizzando, cercando analogie e differenze tra i fenomeni che l’attivista constatava negli Usa nel 2020 e quelli italiani odierni.
Smaschieramenti parte dalla considerazione di un aspetto positivo: la soglia di ciò che è percepito come violenza di genere si è abbassata molto negli ultimi anni nei movimenti del nostro paese e questo anche grazie alle ondate del movimento transfemminista Non Una di Meno che ha scosso e rivoluzionato dinamiche calcificate nei collettivi antagonisti italiani. Nel dialogo con il testo di brown un ponte fondamentale per Smaschieramenti è il volume La trama alternativa di Giusy Palomba, testo che riporta una esperienza di giustizia trasformativa vissuta dall’autrice nel movimento barcellonese a seguito di un episodio di violenza sessuale che coinvolgeva persone a lei molto vicine.
Smaschieramenti fa notare quanto però pure il caso di Palomba non sia immediatamente applicabile al contesto italiano, tra gli altri motivi per la disponibilità di tempo ed energie da dedicare al processo trasformativo che raramente sono presenti nel nostro contesto. Tuttavia va accolto come spunto importantissimo – così come il testo di brown – che apre una strada ma non dà una risposta al problema così come è vissuto oggi dalle nostre parti. Il focus del collettivo è inoltre specifico, cioè l’ambito transfemminista e queer, e anche in questo aspetto gli strumenti di analisi diventano diversi da quelli di Palomba.
Secondo il collettivo bolognese, recentemente anche in Italia il call out si è molto diffuso come pratica politica (o forse tecno-politica, visto il ruolo spesso svolto dalla dimensione online). Tra le varie conseguenze di questa pratica, si sottolinea l’assunzione del paradigma vittimario come unico orizzonte di posizionamento e soggettivazione.
«La spinta che abbiamo sperimentato negli ultimi anni a denunciare e a fare un qualche tipo di “giustizia” di una miriade di singoli atti grandi e piccoli di violenza avvenuti nei nostri movimenti e a predisporre accorgimenti sempre più accurati per prevenire potenziali atti di violenza (l’enfasi sulla safety) non ci sta facendo stare meglio, o ci sta facendo stare meglio solo individualmente e in modo un po’ agrodolce. […] Questa cultura sta producendo molta identità ma molto poco benessere». Questa tendenza impedisce i processi di impoteramento necessari per agire una lotta politica antagonista, perché, dice Smaschieramenti, «esibire la nostra vulnerabilità non è qualcosa di sbagliato, ma quando diventa la nostra unica modalità, quando puntiamo tutto sulla nostra rabbia di vittime, quando ci raccontiamo che il nostro merito, la nostra forza è di per sé il solo fatto di essere sopravvissute, inneschiamo un meccanismo che ci inchioda sempre più alla nostra impotenza». Correlato del paradigma vittimario è il timore irrazionale di “perdere la purezza” comprensibile per qualunque soggettività politica minoritaria ma che spesso porta a dare priorità alla conservazione della propria soggettività radicale rispetto al cambiare il mondo. «Se siamo così impotenti e così sole è perché siamo le uniche davvero pure, d’altra parte la nostra purezza è proprio ciò che ci condanna all’impotenza». Bisogna riflettere, conclude Smaschieramenti, sul fatto che «il paradigma vittimario è uno dei dispositivi che il neoliberismo utilizza per sussumere le nostre lotte».
Inoltre, il testo fa notare che nello specifico della comunità queer vengono assunti per automatismo alcuni meccanismi tipici della gestione della violenza nel mondo eterocis, nonostante vi siano alcune differenze che limitano quegli stessi automatismi. Ad esempio il paradigma “sorella io ti credo” nel mondo queer a chi dovrebbe essere applicato? A chi ha meno potere? A chi dice di aver subito violenza? Oppure? Le strade, le analisi e le mediazioni che vengono a quel punto ricercate – e che sono state richieste a Smaschieramenti nel corso degli anni – sono molteplici e sempre complesse.
Va riconosciuto coraggio e assertività al collettivo bolognese, per essere riuscito a raccogliere in un testo scritto alcune riflessioni che sono impegnative da elaborare ed esplicitare. C’è il rischio di essere accusate di complicità verso gli abusanti, c’è la paura di ferire le vittime di abusi, ma anche il timore di apparire nostalgici dei tempi – per nulla lontani – in cui svariate forme di abuso e violenza di genere, psicologica e fisica, erano ampiamente tollerati nel movimento antagonista italiano. I tempi in cui perché ti credessero che eri stata stuprata dovevi «rimetterci la pelle stile Santa Maria Goretti», si dice, con amara ironia, nel libro. Questi rischi vengono evitati perchè le questioni poste sono argomentate con cura e a partire da un punto di vista transfemminista, ma ovviamente il tema trattato rimane incandescente.
Nel testo è poi molto interessante il modo in cui vengono esplorate alcune dinamiche all’interno dei movimenti ponendo l’accento sui riflessi psicologici che stanno alla base delle stesse, anche quando queste sono sgradevoli o spiazzanti, come quelle generate da abusi violenze e conflitti. Il libro infatti spesso cerca una risposta a domande quali: cosa cerchiamo quando attuiamo in una situazione di denuncia di abuso? Come ci sentiamo? Quali sono le paure consce o inconsce?
Smaschieramenti non propone una soluzione, o quantomeno non una sola. Prova a indicare una strada: uscire dal paradigma vittimario, costruire spazi braver [più coraggiosi] più che safer, «non spazi in cui ci sono meno pericoli, ma spazi in cui possiamo affrontarli o trovare insieme il modo di farlo, in cui ci sentiamo meno vulnerabili e sole». Infine propone di riconoscere assertivamente i limiti della comunità queer spostando l’accento e le richieste dalla comunità militante alle lotte che questa può agire. Pertanto lottare assieme per avere più spazi di cura, più luoghi di aggregazione, più tempo libero dal lavoro, anziché chiedere alla comunità di essere l’unica a dover rispondere ai bisogni individuali di cura delle persone che ne fanno parte.
Uno dei meriti del libro, cosí come di quello di Palomba, è quello di aprire uno spazio di discussione su un tema delicato in cui spesso ci si alterna tra faciloneria e eccessiva rigidità nei ragionamenti collettivi, nella speranza sottointesa che possa seguirne un dibattito fertile, nelle iniziative, nelle assemblee, o in scritti futuri.
Vi è un aspetto esplicitato a più riprese che forse meriterebbe una riflessione ulteriore, cioè il fatto che i call out e quindi le denunce di micro o macro violenze di genere sembrano essere particolarmente diffusi nella comunità queer. La questione è menzionata, riconosciuta, ne sono descritte a lungo le conseguenze tra le quali c’è l’emergere del paradigma vittimario come ambito di soggettivazione nonché la ricerca spasmodica della purezza militante. Tuttavia non è un fattore di cui si ricercano le cause, o di cui si prova a fare una anamnesi, mentre forse sarebbe utile provare a farlo. Magari sarà l’oggetto di una riflessione futura del collettivo bolognese che negli anni ha spesso offerto analisi particolarmente acute al movimento italiano sia queer che misto.
Foto di copertina di Ilaria Depari, Archivio DINAMOpress
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