MONDO
Per Trump è finalmente terminato lo show?
Sappiamo che Trump tenterà il possibile per rimanere al potere, ciò che è meno chiaro è se possa realmente fare ciò che minaccia di fare o se questa “minaccia” fluttui nell’aria come un ordine privo di efficacia
L’articolo, apparso su “The Guardian” è stato tradotto in italiano da Federico Zappino di comune accordo con Judith Butler.
Non ci sono mai stati dubbi sul fatto che Donald Trump non sarebbe uscito di scena in modo elegante e rapido. A suscitare dubbi, semmai, era il livello di distruttività che avrebbe potuto effettivamente dispiegare durante la caduta. So che la “caduta” riguarda solitamente i monarchi assoluti e i tiranni, ma d’altronde è proprio di questo che stiamo parlando, di questo genere di show, con l’unica differenza che qui il monarca assoluto è anche il giullare, l’uomo più potente del mondo è un bimbo capriccioso, e senza adulti attorno.
Sappiamo bene che Trump tenterà il possibile per rimanere al potere e per evitare l’ultima catastrofe della sua vita – quella, cioè, di diventare un “perdente”. Ha già dato prova di essere disposto a manipolare e distruggere il sistema elettorale, se necessario. Ciò che è meno chiaro è se possa realmente fare ciò che minaccia di fare o se questa “minaccia” fluttui nell’aria come un ordine privo di efficacia. In quanto postura, la minaccia di sospendere o annullare il diritto di voto è una sorta di spettacolo, da dare in pasto al suo pubblico. Tuttavia, se considerato come strategia legale, anche da alcuni avvocati al servizio del governo, rappresenta un serio pericolo per la democrazia. Come tante altre volte durante la presidenza Trump, eccoci nuovamente a chiederci se stia bluffando, cospirando, recitando [acting] o agendo concretamente [acting]. Una cosa è porsi come il tipo di persona disposta a perpetrare danni incalcolabili alla democrazia pur di restare aggrappata al potere; tutt’altra cosa è trasformare quello spettacolo in realtà, avviando processi di riforma costituzionale che smantellerebbero le norme elettorali e le leggi che garantiscono i diritti di voto, colpendo il quadro stesso della democrazia statunitense.
Col recarci a votare, non abbiamo espresso consenso nei riguardi di Joe Biden e Kamala Harris – due centristi che hanno già preso le distanze dalle politiche economiche e sanitarie progressiste annunciate nei programmi di Bernie Sanders o Elizabeth Warren –, bensì per la possibilità stessa di continuare a votare, per il presente e per il futuro dell’istituto della democrazia elettorale. Almeno per coloro che non si trovano in carcere, l’esistenza di leggi elettorali durevoli costituisce una parte essenziale del quadro costituzionale, in grado di fornire le coordinate al senso stesso della politica. Almeno per coloro che non hanno subito l’esperienza della deprivazione del diritto di voto, risulta quasi impossibile comprendere quanto la propria vita si fondi su una essenziale fiducia nei riguardi delle prerogative costituzionali. Ora, invece, l’idea stessa del diritto come fondamento dei diritti e come guida per l’azione viene contestata da Donald Trump. Non esiste norma giuridica che non possa essere contestata da Donald Trump. Per questo signore, la legge non esiste per essere onorata e rispettata, ma per essere contestata. La contestazione, in Trump, è la forma che ha assunto il suo potere, e tutte le leggi, tra cui anche i diritti costituzionalmente sanciti, sono ora ridotte a elementi negoziabili per mezzo di un contenzioso.
Sebbene già molti attribuiscano a Trump la responsabilità di aver reso l’azione di governo una forma di business, nell’ambito della quale ciò che può negoziare per il suo profitto non ha limiti, è importante ribadire che molti dei suoi misfatti culminano puntualmente in contenziosi legali (più di 3.500, dal 2016 in poi). Dopodiché, va in tribunale e lì chiaramente contratta un esito a suo favore. Se però si mette a contestare anche le leggi fondamentali alla base della politica elettorale, o a proclamare come fraudolenta ogni garanzia costituzionale, come uno strumento a vantaggio dei suoi oppositori, allora nessuna legge è al riparo dal suo potere di contestare e potenzialmente distruggere, le norme democratiche. Quando invoca la sospensione del conteggio dei voti – proprio come invoca la sospensione dei tamponi per la Covid –, Trump cerca di impedire la materializzazione di una realtà, ossia di esercitare un controllo anche sulla percezione del vero e del falso. D’altronde, Trump sostiene che l’unico motivo per cui la pandemia negli Stati Uniti è così severa è perché vengono effettuati tamponi in grado di fornire dati numerici. A quanto pare, se non vi fosse alcun modo di conoscere la reale diffusione del contagio, ciò non sarebbe un male.
Nelle prime ore del mattino del 3 novembre scorso, Trump ha invocato la sospensione del conteggio delle schede elettorali proprio di quegli stati in cui temeva di perdere. Se il conteggio si fosse protratto, infatti, avrebbe potuto materializzare la realtà della vittoria di Biden. Per scongiurare questo pericolo, era dunque necessario fermare il conteggio e poco contava se ciò avrebbe comportato la deprivazione del diritto dei cittadini di sapere con certezza chi fosse il nuovo Presidente. Negli Stati Uniti, il conteggio ha sempre richiesto un po’ di tempo: si tratta di una consuetudine. Perché, dunque, tutta questa fretta? Se Trump fosse stato sicuro della vittoria, nel caso in cui il conteggio si fosse fermato nel momento stesso in cui egli lo ordinava, avremmo potuto capire facilmente il perché di quell’operazione.
Ma dal momento che non aveva già più i numeri per vincere, perché fermare la conta? Se la richiesta di sospensione del conteggio si accompagnasse a un sospetto di frode (sospetto al momento infondato) e se questo sospetto si generalizzasse, ciò potrebbe facilmente condurre a una sfiducia nei riguardi del sistema sulle quali le corti di giustizia sarebbero chiamate a pronunciarsi – corti che Trump ha adeguatamente blindato e dalle quali ora si aspetta che lo mantengano saldo al posto di comando. Le corti, insieme al vicepresidente Pence, andrebbero a costituire un fronte plutocratico potenzialmente in grado di distruggere la politica elettorale come la conosciamo. Il problema, chiaramente, è che se anche riusciranno a sostenere Trump nei suoi misfatti, non riusciranno automaticamente a distruggere la lealtà nei riguardi della Costituzione.
Il fatto che Trump sia disposto ad arrivare a tanto è, per molti, motivo di shock. Questo, tuttavia, è stato il suo modo di operare fin dall’inizio della sua carriera politica. Altri sono terrorizzati dalla fragilità delle leggi che fondano, e orientano, la nostra democrazia. A costituire il tratto distintivo della politica di Trump, tuttavia, è che ha costantemente minacciato le leggi nel momento stesso in cui affermava di rappresentare egli stesso la legge e l’ordine. E questa non è affatto una contraddizione se si fonda sul presupposto che sia lui a incarnare la Legge e l’Ordine. Ciò a cui abbiamo assistito, con Trump, è che una peculiare forma di narcisismo, adeguatamente sorretta dai media, si sia trasformata in una forma letale di tirannia. Se chi rappresenta il regime presume di incarnare egli stesso la Legge, quello che abbiamo di fronte è un potente criminale che agisce in nome di una Legge che fa e disfa a suo piacimento.
Come molti studiosi hanno già sostenuto, il fascismo e la tirannia assumono molte forme; personalmente, tendo a divergere da quanti tra loro sostengono che il nazional-socialismo costituisca il modello a partire dal quale misurare e identificare tutte le forme di fascismo. Ciò tuttavia non significa che per il mero fatto che Trump non sia un Hitler, o che la disputa sulla politica elettorale non sia al momento asservita a scopi bellici (non c’è ancora una guerra civile), non sia all’opera una generale distruttività che è tipica dei momenti di caduta di un tiranno.
Nel marzo del 1945, quando le forze alleate e l’Armata Rossa abbatterono ogni roccaforte difensiva nazista, Hitler decise di distruggere la Germania stessa, ordinando la distruzione delle infrastrutture, dei sistemi di trasporto e di comunicazione, dei siti industriali e dei servizi pubblici. Come egli cadeva, così doveva cadere anche la nazione. L’ordine di Hitler si chiamava “Misure distruttive sul territorio del Reich” ma viene solitamente ricordato come “Decreto Nerone”, proprio per stabilire un’assonanza tra il gesto di Hitler e quello dell’imperatore romano che fece uccidere familiari e amici, punendo coloro che percepiva come sleali, nella sua smania di conservare il potere. Fu solo quando anche i suoi sostenitori iniziarono a fuggire che Nerone si tolse la vita. Si narra che queste siano state le sue ultime parole: «Quale artista muore con me!».
Trump non è né un Hitler né un Nerone, ma è stato un pessimo artista, applaudito dal suo pubblico nonostante il suo misero show. Il fascino esercitato su larga parte del paese è dipeso fondamentalmente dalla coltivazione di pratiche che rendono del tutto lecite forme esilaranti di sadismo, libere da ogni vincolo, da ogni vergogna e da ogni obbligo etico. Le sue pratiche, tuttavia, non sono state del tutto in grado di conseguire la perversa “liberazione” che pure avrebbero voluto conseguire. Più della metà del paese ha risposto con sdegno e rifiuto. Lo show spudorato di Trump, inoltre, è sempre dipeso da una lurida caricatura della sinistra: moralista, punitiva, giudicante, repressiva, pronta a deprivare il popolo di ogni più basso piacere e di ogni più volgare libertà.
Di conseguenza, la vergogna ha sempre occupato un posto permanente e necessario nello scenario trumpiano, ma in quanto esternalizzata e dislocata nella sinistra: la sinistra cerca di farti vergognare per le tue armi, per il tuo razzismo, per le tue violenze sessuali, per la tua xenofobia! L’eccitata fantasia dei suoi sostenitori era che, con Trump, si sarebbero potute superare una volta per tutte queste vergogne, così da conseguire una generale “liberazione” dalla sinistra e dalle sue restrizioni punitive sulla “libertà” di parola e di azione, la “libertà” di mettere fine alle normative ambientali e agli accordi internazionali, la “libertà” di vomitare razzismo e bile e di affermare forme persistenti di misoginia. Nel condurre la sua campagna elettorale davanti a folle eccitate dalla violenza razzista, Trump è riuscito persino a promettere loro adeguata protezione dalla minaccia di un imminente regime comunista (di Biden?!) che avrebbe ridistribuito le ricchezze, razionato i viveri e, infine, spianato la strada della presidenza a una donna nera “mostruosa” e “radicale” (Harris?!).
Al momento, Trump dichiara di aver vinto, benché tutti sappiano che non è così (per il momento, ripeto). Persino l’emittente televisiva Fox non è disposta a concedergli spazio e Mike Pence dice che il conteggio deve essere fatto fino all’ultima scheda. Il tiranno in caduta libera chiede invece che nessuna prova venga fornita, nessun conteggio, nessun dato scientifico, revoca persino in dubbio la legge elettorale, insieme a tutti quei metodi scomodi di verificare il vero e il falso, per piegare ancora una volta a suo favore la verità. Come egli cade, così deve cadere anche la democrazia. E tuttavia, se persino i suoi sodali si mettono a ridere quando dice di aver vinto e alcuni di loro gli fanno la cortesia di chiamargli un taxi, forse significa che Trump è davvero rimasto solo con le sue allucinazioni di se stesso come un potente, distruttivo, imperatore.
Può contestare quanto vuole, ma se pure i suoi avvocati si danno alla macchia e le corti, sfinite, non lo stanno più a sentire, si ritroverà ben presto a governare da solo una piccola isola chiamata “Trump”, come mero spettacolo della realtà. Forse, è arrivato il momento di un po’ di riposo per l’esaurimento nervoso che ci siamo presi in questi quattro lunghi anni, e di dimenticarci che Trump abbia costituito lo show, squallido e passeggero, di un presidente che nel tentativo di distruggere le leggi di una democrazia, per un momento ne è stato la più grande minaccia.
Ora è il tuo turno, sonnolento Joe!