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Pensare l’Antropocene. A partire da Chakrabarty
“La sfida del cambiamento climatico. Globalizzazione e Antropocene” raccoglie le riflessioni dell’ultimo decennio di Dipesh Chakrabarty. La combinazione tra l’azione dell’essere umano e lo sfruttamento capitalistico solleva problemi di giustizia climatica (come mostrano i wicked problem della crisi dei rifugiati e della pandemia) che vanno contrastati con un radicale decentramento
Fra le teorizzazioni radicali che, nell’ambito delle human sciences, si sono occupate di trattare la questione del cambiamento climatico, quella dello storico dei processi coloniali Dipesh Chakrabarty ha sicuramente avuto un ruolo anticipatore e fondativo. Il volume curato da Girolamo de Michele e tradotto da Carlotta de Michele raccoglie una selezione di saggi e interviste scritte dal teorico indiano fra il 2012 e il 2020, in un arco di tempo che segue la pubblicazione del suo articolo seminale sul concetto storico e scientifico di Antropocene, The climate of history, pubblicato inizialmente in bengalese sulla rivista “Baromas” nel 2008, e ripubblicato in inglese su “Critical Inquiry” nel 2009. Come ricorda lo stesso Chakrabarty in uno dei saggi della raccolta di Ombrecorte (“Riscrivere la storia dell’Antropocene”), ciò che lo ha spinto a occuparsi di una questione apparentemente così estranea ai suoi interessi storici precedenti è stato l’incontro personale con uno dei sintomi più evidenti del cambiamento climatico antropico – l’incendio delle aree boschive e di una parte delle aree metropolitane nei pressi di Canberra, città nella quale ha svolto per molti anni attività accademiche. L’incontro con la distruzione dell’immagine rurale e affettiva della wilderness incontaminata ha trasformato un sentimento psicologico e biografico individuale nel bisogno di indagare le cause strutturali di quanto stava accadendo. Questo ha portato Chakrabarty all’elaborazione delle sue tesi sul climate change, che hanno stimolato un dibattito importante (e alcuni fraintendimenti) ancora largamente discusso. In particolare, furono due elementi del discorso dello storico indiano ad attirare l’attenzione di storicə, antropologə, e sociologə: la necessità di un rinnovato dialogo fra humanities e hard sciences e l’uso della nozione biologica di “specie” in qualità di attore globale dell’evento-Antropocene. È stato contesto più volte il fatto che, essendo state discusse in ambito ecologico e stratigrafico delle date altamente significative per la storia del Capitale (l’invenzione della macchina vapore di James Watt nel 1784, e la “grande accelerazione” degli anni ’50 del ‘900), parlare in termini economico-politici di Antropocene significasse tout court parlare di capitalismo. A questa critica Chakrabarty ha più volte ribadito che il suo uso del concetto di Antropocene sia stato influenzato dalle metodologie e dal lessico concettuale impiegato da geologə e climatologə, che operano su un piano cronologico e su scale epistemologiche distanti dall’analisi dei cicli di crisi e inflazione che caratterizzano le dinamiche del modo di produzione capitalistico.
«È comprensibile pensarla in questo modo partendo da libri di testo di economia che visualizzano il capitalismo come un sistema economico che affronterà sempre delle crisi periodiche e ne verrà a capo, ma non avrà mai a che fare con una crisi di proporzioni tali da stravolgere tutti i suoi calcoli. È facile pensare, all’interno di questa logica, che il cambiamento climatico sia solo un’altra di quelle sfide del ciclo economico che i ricchi devono superare di tanto in tanto. Ma perché gli studiosi di sinistra dovrebbero scrivere partendo dagli stessi presupposti? Il cambiamento climatico non è una normale crisi del ciclo economico, né una “crisi ambientale” standard riconducibile alle consuete strategie di gestione del rischio. Il pericolo di un punto di non ritorno climatico è imprevedibile ma reale» (pp. 135, 136)
Nei saggi contenuti in La sfida del cambiamento climatico Chakrabarty specifica e chiarifica che cosa intende politicamente, giuridicamente e concettualmente quando parla di agency della specie umana. Innanzitutto, c’è una questione di soggettivazione: chi agisce e patisce nell’era dell’Antropocene è presə, allo stesso tempo e in modo non esclusivo, in tre dinamiche storiche: quella illuministica e coloniale dell’estensione universale dei diritti astratti, quella antropologica e differenziale della letteratura post-strutturalista e post-coloniale, e quella naturalizzata di forza geologica. Lo scontro dei regimi di storicità e delle specificità accademico-disciplinari genera un’immagine contraddittoria e complessa: l’idea di un’umanità frammentata e allo stesso tempo riunificata dalla necessità di gestire una catastrofe imprevedibile e ingovernabile. Contro i facili soluzionismi ecomodernisti e le analisi puramente economico-politiche, Chakrabarty introduce la nozione di wicked problem, ricavata dagli studi sulla pianificazione. Questo sintagma designa dei problemi (economici, politici, ecologici, gestionali, etc.) che possono essere identificati ma non risolti in modo razionale e ottimale. Un esempio lampante di wicked problem sotto gli occhi di tuttə è la gestione tecno-politica dell’emergenza pandemica: non un’unica strategia efficace e condivisa, ma un proliferare di pareri esperti, interessi privati, dichiarazioni istituzionali allarmistiche o sottostimanti. Il saggio più corposo nella raccolta curata da De Michele, “La condizione umana nell’Antropocene”, mette in gioco una batteria di posizioni filosofiche novecentesche (Arendt, Jaspers, Gadamer, Schmitt) e le fa dialogare (fra le molte tesi scientifiche citate) con il discorso biologico e cibernetico di James Lovelock, la climatologia di Raymond T. Pierrehumbert e David Archer e la geologia di Jan Zalasiewicz. La scelta di Karl Jaspers è giustificata dalla necessità di ampliare lo sfuggente riferimento alla «storia universale negativa» evocato come détournement della filosofia hegeliana nella conclusione di The climate of history. In particolare, il problema concettuale affrontato da Chakrabarty riguarda la difficoltà di coniugare una prospettiva situata, differenziale e storicizzata con un passato “ancestrale” e preistorico che decentra e relativizza le complessità storiografiche e sociologiche. Lo storico indiano introduce quindi la nozione jaspersiana di coscienza epocale, un concetto sviluppato nell’ambito dell’esistenzialismo che rende conto dell’unificazione dell’umanità in opposizione all’imminenza della possibilità della sua estinzione. L’idea viene sviluppata da Jaspers in relazione al pericolo atomico, nel corso degli anni della Guerra Fredda, esattamente nello stesso periodo in cui si iniziano a concepire i fondamenti della climatologia contemporanea. Nella filosofia tedesca della prima metà del ‘900 il tema dell’unificazione dell’umanità era emerso in relazione all’accresciuta consapevolezza della fine dell’egemonia europea nella scacchiera della geopolitica mondiale. Pensatori come Heidegger e Spengler usavano l’espressione “tramonto dell’Occidente” in senso reazionario, denunciando fenomeni come l’omologazione e la tecnocrazia. La coscienza epocale invocata da Jaspers è il tentativo di pensare ad uno spazio prepolitico (e quindi etico) e generico (non legato alla divisione del lavoro) che sia in grado di opporsi ai particolarismi senza totalizzarsi in un’unità trascendente. Il modo in cui Chakrabarty reinterpreta la coscienza epocale di Jaspers è però innervato dalle scienze climatologiche e geologiche (e dalla loro genealogia), che producono uno sdoppiamento nella definizione di umanità. Essa è concepita come Anthropos (il termine neutro che designa il soggetto neutro e scientifico – il comune sostrato della specie – e come homo, che «[…] nel contesto del riscaldamento globale antropogenico [significa pensare] il cambiamento climatico come un proseguimento della storia della globalizzazione capitalistica incentrato su tutte le iniquità umane che sono al centro della storia, in qualunque modo sia raccontata» (p. 84). Uno ‘sguardo strabico’ per usare le parole di De Michele o ‘bifocale’ per usare la terminologia di Bruno Latour, si rende quindi necessario per evitare i rischi delle prospettive naturalizzanti o culturalizzanti. La globalizzazione qui menzionata si riferisce alle filosofie della storia di Carl Schmitt e Peter Sloterdijk, ma anche agli studi sul capitalismo di Fernand Braudel e Jason Moore: non coincide quindi con la grande accelerazione, ma si inserisce nel lungo XVI secolo «[…] cioè negli antecedenti precapitalistici del capitalismo industriale, in cui si creano le condizioni di possibilità (sotto forma di rapporti di produzione) del modello di sviluppo basato sullo sfruttamento delle energie fossili» (p. 16). L’approfondimento di questo “sguardo strabico’” è l’oggetto dei due saggi successivi “La sfida del cambiamento climatico” e “La politica del cambiamento climatico va oltre la politica del capitalismo” nei quali Chakrabarty ribadisce la necessità di tenere assieme la polarità fra anthropos e homo confrontandosi con le tesi marxiste di Jason Moore (Antropocene o Capitalocene) e con la storia universale di Yuval Noah Harari (Sapiens. Da animali a dèi). Nelle successive interviste “Riscrivere la storia dell’Antropocene” e “La sfida della Terra fra natura e società” lo storico indiano ripercorre il suo percorso accademico: i subaltern studies, i postcolonial studies e Provincializzare l’Europa, l’incontro con la wilderness australiana e la scoperta degli effetti devastanti del climate change. Queste interviste ci permettono di comprendere meglio il nesso fra le nozioni di Storia 1 (la storia strutturale e universale dell’attuazione delle strategie di accumulazione “originaria” che si ripetono in tempi e spazi diversi sempre allo stesso modo) e Storia 2 (il nome dell’incontro conflittuale e particolare della storia del capitale con le diversità antropologiche, sociologiche ed economiche) e quelle precedentemente evocate di homo e anthropos, e la distinzione fra “pianeta’”e “globo’”
«Le questioni odierne di migrazione, crisi dei rifugiati, relazioni razziali trattano di ingiustizie storiche fra classi, etnie e nazioni. Inoltre, sostengo che l’intensificazione della globalizzazione capitalistica ed estrattiva nel secondo dopoguerra ci ha rivelato l’opera di un’altra formazione che io chiamo il pianeta, per distinguerla dal globo […] Il “pianeta” si riferisce dunque ai modi in cui i processi geologico, fisico-chimico e biologico si combinano per rendere la Terra abitabile per la vita pluricellulare complessa. Il globo è un costrutto incentrato sugli esseri umani, il pianeta racconta una storia che decentra gli esseri umani. Il mio lavoro attuale è un tentativo di tenere assieme queste storie allo stesso tempo, senza ridurle l’una all’altra ma avendo entrambe le prospettive: quella globale e quella planetaria» (p. 158).
Infine, la raccolta di saggi si conclude con una riflessione sull’attuale pandemia, che ricorda, ancora una volta, la natura complessa e stratificata di quanto stiamo vivendo e i suoi legami con il cambiamento climatico. Il processo di antropizzazione dei territori e delle specie selvagge indotto dalla necessità di soddisfare un fabbisogno alimentare che segue la crescita esponenziale della popolazione ha causato il contatto con nuovi agenti patogeni, scatenando la diffusione del virus.
La particolarità delle tesi di Chakrabarty, nella corposa lista dellə autorə che si sono occupatə della concettualizzazione filosofica, politica e culturale dell’Antropocene (Donna Haraway, Mckenzie Wark, Timothy Morton, Jason Moore, Burno Latour, Philippe Descola, Eduardo Viveiros de Castro, per citarne alcunə) consiste nell’aver individuato una specificità storiografica – una prospettiva multi-scalare e bifocale saldamente ancorata ad un criterio di precisione filologica, anche quando prende in analisi degli universi discorsivi distanti dalle human sciences. Haraway sceglie il paradigma della science fiction, Morton quello dell’estetica e della fisica quantistica, de Castro le mitologie amerindiane e la cultura visiva dell’Apocalisse, Latour la rappresentazione teatrale. E in questo lo storico indiano individua un bisogno condiviso da chiunque si occupi di climate change: la necessità di rendere narrativamente comprensibile un insieme di wicked problems senza ridurre la complessità e l’insolvibilità che li caratterizza.
Tommaso Guariento è nato a Padova (1985). Ha conseguito un dottorato in Studi Culturali all’Università di Palermo. Ha scritto per varie riviste fra cui: “CheFare”, “Prismo”, “Not”, “L’indiscreto”, “Ludica”, “Singola”. Si occupa di visual studies e filosofia contemporanea. Attualmente è responsabile della ricerca presso La Scuola Open Source.