DIRITTI
Parliamo di gender
Sabato 20 giugno, mentre a Roma in molti si sono ritrovati insieme in vari punti della città per dare vita a una serie di iniziative culturali in luoghi della metropoli abbandonati, nella piazza di San Giovanni veniva organizzata l’ennesima triste parata del Family Day , ovvero orde di cattolici, fascisti di Forza Nuova e Msi, neocatecumenali, gruppi teocon, Sentinelle in Piedi, insieme ad associazioni come “Manif pour tous,” gli antiabortisti del “Movimento per la vita” , esponenti di quotidiani cattolici come La Croce, predicatori vari, sotto l’egida di “Difendiamo i nostri figli”.
Defezioni importanti sono arrivate da Comunione e Liberazione, dalla CEI e dalla Chiesa ufficiale, anche se il Vicariato di Roma ha invitato caldamente gli insegnanti di religione a sfilare in piazze con le loro ignare scolaresche a seguito. Due, i bersagli di punta del
Non solo vescovi e associazioni cattoliche; anche papa Francesco, di recente, ha parlato dell’ideologia del gender come di una “colonizzazione ideologica”, come “espressione di frustrazione”, come una cancellazione della differenza sessuale. Ma che cosa è questa inesistente “teoria del gender” di cui tutti parlano? Nelle versioni più isteriche sembra che ci sia una congiura universale patrocinata da una potente “Lobby Gay”, ma anche dall’Oms per veicolare nelle scuole attraverso corsi e lezioni nuove mutazioni comportamentali e sessuali nei bambini, di cambiare e corrodere i pilastri della famiglia e quindi della società, per far sì che i “maschietti crescano come femminucce” e viceversa e che vengano spinti all’omosessualità, all’asessualità e alla masturbazione precoce. (Riportiamo la sintesi di uno dei volantini distribuiti in molte scuole della città con l’invito a partecipare alla manifestazione del 20).
Il problema sarebbe quindi, alla fine dei giochi, tutto riconducibile alle carenze della scuola pubblica che permette ad insegnanti scellerati di progettare corsi di educazione all’affettività (presenti ovunque in Europa, non solo in paesi come Svezia, Norvegia e Danimarca, ma anche in paesi fortemente cattolici come la Spagna) anche per cercare di contrastare nei luoghi della formazione bullismo e omofobia, che nelle scuole, ma non solo, sono una realtà; in periferia, come in centro. Una scuola pubblica che ambisce, dunque, a livellare le differenze sessuali tra studenti e con un piglio decisamente progressista. Ah queste cattive e cattivi maestr* quante ne combinano!
In Italia c’è stata una forte polemica mesi fa, contro un asilo di Trieste, finito “nella bufera” per aver adottato il Gioco del rispetto-Pari e dispari, un gioco in cui si mettevano in discussione tutta una serie di stereotipi sociali sui ruoli anche lavorativi e sociali di uomini e donne, considerando che la stragrande maggioranza dei libri di testo dei programmi didattici di oggi riprendono ancora costantemente il cliché della mamma casalinga e del papà che porta a casa la pagnotta, della bambina fragile che gioca con le bambole e veste rigorosamente di rosa e del bambino coraggioso e temerario. Modelli che raccontano decisamente una società astratta e mai davvero esistita.
A novembre era scesa in campo anche la diocesi di Milano, che aveva chiesto agli insegnati di religione della zona di effettuare una sorta di schedatura delle scuole che si fossero macchiate dell’orribile peccato di parlare di omosessualità e identità di genere. All’incirca nello stesso periodo, il Forum delle associazioni familiari dell’Umbria aveva stilato un decalogo di “autodifesa” per combattere la teoria del gender. Tra le più recenti prese di posizione, il 24 giugno scorso, una circolare inviata al personale docente di asili nido e scuole dell’infanzia dal neosindaco di Venezia Luigi Brugnaro (PG. N. 282873), in cui si chiede di “voler raccogliere i libri “gender”, mantenendo così le promesse della campagna elettorale.
Tecnologia capillare, social, tv: si assiste oggi anche ad una visione culturale quasi più retrograda rispetto al passato. Fino a qualche anno fa per un maschietto, giocare con le bambole insieme alle amichette, come per una bambina giocare a calcio, erano considerati momenti della loro crescita, mentre ora c’è sempre una zelante mamma o docente che punta il dito e già pensa alla futura omosessualità del figlio-figlia o alunno-alunna in questione. “Il bambino è un artefatto biopolitico garante della normalizzazione dell’adulto”. (Leggi il testo di Beatriz Preciado tradotto da DinamoPress Chi difende il bambino queer?)
Politici e politicanti razzisti come Salvini, Di Stefano e molti altri hanno immediatamente cavalcato l’onda della “minaccia gender”. Nel mondo cattolico-oltranzista e reazionario si parla di un nuovo tipo di totalitarismo che avanza, “peggio dell’Isis” che vuole “creare a tavolino una nuova razza che dovrà abitare nuove società, in un nuovo mondo” e muovere una “guerra aperta alla Creazione, al suo ordine naturale e alla distinzione antropologica tra maschio e femmina”.
Ormai i comunisti i bambini non li mangiano più ma gli inculcano il gender a scuola. Ora il suddetto termine è diventato la sintesi di un pensiero e di un posizionamento culturale, sociale e politico che colora di nuove connotazioni semantiche un immutabile sentimento di odio, sessismo, omofobia, paura, ignoranza e violenza. Basti pensare alle opinioni espresse anche su altre tematiche al Family Day, ad esempio sul femminicidio: colpa della donna che non riesce ad amare a sufficienza l’uomo, e si potrebbe continuare ancora ad evidenziare di volta in volta la battuta, la presa di posizione e la dichiarazione su aborto, famiglia, etc, di uno a caso dei loschi figuri presenti fieramente in quella giornata che ci propinano quotidianamente nel pianeta italico per mezzo stampa, tv, social etc…
Ma di cosa parliamo quando ci riferiamo al termine “genere”? Attraverso un’analisi approfondita della psicoanalisi di Lacan e degli scritti di Levi-Strauss, l’antropologa Gayle Rubin nel saggio “The Traffic in Women: Notes on the ‘Political Economy’ of Sex” del 1975 utilizza per le sue analisi la parola “gender” che, in italiano, significa “genere”, inteso non semplicemente alla materialità del corpo o alla sua sessualità, ma ad un insieme più complesso di iscrizioni religiose, culturali, sociali economiche che incidono fortemente sui nostri comportamenti e la nostra vita psichica. Il genere non corrisponde direttamente al sesso biologico ma agli atti e comportamenti riconducibili al maschile e al femminile che ogni soggetto produce e ripete costantemente. Ciò che pensiamo sia emanazione dalla nostra vita interiore, è in realtà prodotto e naturalizzato attraverso i nostri atti corporei.
“Donne non si nasce, si diventa”. [Simone de Beauvoir – Il secondo sesso]
E’ alla filosofa e docente all’Università di Berkeley e alla European Graduate School in Svizzera, Judith Butler, a cui si fa risalire la cosiddetta “gender theory” da cui sono derivate tutta una serie di letture estremamente semplicistiche. Occorre sottolineare che i suoi testi non sono semplici da tradurre e i titoli delle sue opere sono espressioni di giochi di parole, in realtà intraducibili correttamente. Ad esempio Undoing gender, tradotto in italiano con La disfatta del genere, non rende esattamente l’idea della decostruzione, del disfare qualcosa di costituito. Allo stesso modo la traduzione Corpi che contano non riesce a raffigurare esattamente il titolo di Bodies that matter dove la traduzione è letteralmente quella del titolo in italiano, ma viene tralasciato il fatto che matter significa anche sostanza, faccenda. È facile quindi non essere in grado di cogliere alcune sfumature importanti. Quasi tutte le opere di Butler sono state pubblicate in Italia nel 2004; ed è in quell’anno, infatti, che il Vaticano scrive una lettera ai vescovi, con la quale puntualizza la posizione della Chiesa sulla parola genere, termine considerato pericoloso in quanto tende alla destabilizzazione della famiglia, che è il nucleo basilare della società.
Ispirandosi a Michel Foucault, Judith Butler vede nel genere, oltre che una costruzione culturale, anche una sorta di addestramento attraverso la ripetizione nel tempo di atti corporei stilizzati, paragonabile appunto al dressage descritto in Sorvegliare e Punire (1975). In Bodies That Matter (1993), Butler, ricorrendo alla nozione di iteratività sviluppata da Derrida, sottolinea il ruolo svolto, nella performatività (intesa nel senso teatrale del termine), dalla ripetizione. È l’iteratività a rendere possibile la costruzione del soggetto sessuato come “naturale”. La performance di genere crea il genere.
La categoria di “genere” era già in uso dagli anni Sessanta, negli Stati Uniti, sia all’interno della ricerca sociologica, sia in quella antropologica. In Francia, invece, in particolare sotto l’influsso di Lévi-Strauss, si è preferito parlare di “differenze sessuali”. La cosiddetta “teoria del gender” prende dunque piede solo tra gli anni Ottanta e Novanta, innestandosi proprio all’incrocio tra l’antropologia statunitense e lo strutturalismo francese. Anche secondo Beatriz Preciado il sesso e il genere si producono nella relazione con gli altri.
“Non c’è più necessità dell’ ospedale, della caserma, della prigione, perché ora il corpo stesso è diventato un terreno di vigilanza, lo strumento definitivo. Cos’è quello che si assume quando si prende il testosterone o la pillola? Si ingoiano una catena di segni culturali, una metafora politica che reca tutta una definizione performativa di costruzione del genere e della sessualità. Il genere, femminile o maschile, appare come una invenzione di molecole”.
In fondo, anche forme di ipermascolinità o di iperfemminilità non sono dei costrutti sociali, identità rigide e iperbolicamente irreali? Un macho, in questo senso, è uno stereotipo, è una persona incapace di affrontare la sua femminilità.
“Credo che Playboy sia per la filosofia politica contemporanea quello che la locomotiva a vapore fu per Marx, un modello di produzione economica e culturale imprescindibile per comprendere le mutazioni che hanno avuto luogo durante la seconda metà del ventesimo secolo.” [B. Preciado]
La filosofa e naturalista Donna Haraway, sviluppa negli anni ’80 la teoria dei cyborg, dove gli esseri umani, completati con apparecchi di natura tecnologica, oltre ad ottenere corpi riparati dai danni del tempo, superano i limiti conosciuti dall’umanità. Anche nel caso di H., il pensiero comporta il superamento dei dualismi, oltrepassando i concetti di uomo e di donna così come li abbiamo conosciuti finora. Judith Butler ci vuol dire che la norma dei generi, rigidamente binaria, oggettivamente non rispecchia la realtà dei fatti. Nella realtà esistono una molteplicità di desideri, che si trovano a dover essere incanalati, instradati in un genere, vale a dire quello corrispondente al sesso assegnato sulla base della conformazione anatomica. Butler pensa, cioè, che il semplice fatto di stabilire una normalità non possa regolare il desiderio.
La creazione di nuove modalità si attua, in parte, attraverso la rappresentazione della corporeità, laddove il corpo non sia inteso come un fatto statico e compiuto, ma come un processo di crescita, un modo del divenire che, nel divenire altrimenti, eccede la norma, la riformula e ci mostra come la realtà, entro cui pensavamo di essere confinati, non sia scolpita nella pietra.
Butler si confronta con le filosofe della differenza, e alimenta il dibattito sviluppando alcuni importanti quesiti. Ci sono alcune fondamentali critiche che l’autrice muove alla teoria della differenza sessuale. In primo luogo è necessario affrontare il problema del soggetto. La filosofia della differenza è fondata sul dualismo soggetto/oggetto. Il soggetto maschile, positivo, definito dalla filosofia e dalla psicanalisi che descrive l’oggetto femminile come negativo, come tutto ciò che maschile non è, nella visione butleriana, permeata di postmodernità, non può sussistere: il soggetto non rappresenta il fondamento del discorso, un solido punto di riferimento, ma è fluido, è un instabile punto di intersezione fra gli scambi relazionali, che si colora diversamente dopo ogni incontro con l’alterità. In effetti anche le teoriche della differenza, specialmente Luce Irigaray, dichiarano che la differenza sessuale non è un fatto, ma una domanda, un quesito irrisolto dove l’unica certezza rimane il dualismo maschile-femminile.
Butler sottolinea che delimitare uno spazio significa creare un esterno. Questo esterno è il luogo dei divieti, dove ciò che è vietato avviene. Teresa de Lauretis, una teorica italiana docente di filosofia a Santa Cruz, Università della California, lanciò, nel febbraio del 1990, una grande sfida accademica utilizzando la parola queer (termine dispregiativo in lingua anglosassone), in associazione con la parola teoria: una provocazione discorsiva per sovvertire i termini del linguaggio.
Sostenendo che l’identità non è qualcosa di fisso, dato, di immutabile, ma rimane sospesa nelle molteplici occasioni di mutamento, la teoria queer afferma l’impossibilità di un’azione politica partendo da un concetto fisso del genere. Il femminile in sé non è un valore, per la teoria queer, per la quale non esiste un punto di riferimento nel genere. La sessualità è separata dal genere e l’appartenenza ad un determinato genere non implica necessariamente l’avere un determinato comportamento sessuale; dall’altro lato ribadisce che non può esistere gerarchia sessuale, in quanto il genere è per sua natura instabile: prova ne sono i transgender.
L’era postfordista del capitale si mostra disposta a interloquire con gli spazi anti-riproduttivi della vita queer, in nuovi mercati di consumo, in cui la categoria di genere non può darsi da sola, ma va sempre articolata insieme a quelle di razza, sessualità, classe. Il capitalismo avanzato si presenta decisamente come un sistema postgenere capace di accogliere un alto livello di androginia e un indebolimento notevole della divisione categorica tra i sessi, nondimeno rimane comunque razzista e sessista. Pensiamo al “fattore donna” come volano della crescita e dello sviluppo nelle aziende (o alle quote rosa in politica) e al “diversity management” come strumento di inclusione sociale che non conduce affatto un maggiore riconoscimento delle differenze, ma soltanto un’intensificazione dello sfruttamento e dell’impoverimento.
Abbiamo bisogno di rivalutare la potenza generativa del corpo. In questa prospettiva il genere è solo un meccanismo storico e contingente di cattura delle molteplici potenzialità del corpo, incluse le sue capacità rigenerative e riproduttive. Dal momento che il sistema cattura la complessità della sessualità umana in una macchina binaria che privilegia la formazione di famiglie normate da rigidi costrutti, non sappiamo più cosa sono in grado di fare i nostri corpi sessuati.
“Abbiamo dunque bisogno di riscoprire la nozione di complessità sessuale, mettendo in rilievo la sessualità come processo. Significa che la sessualità è una forza, un elemento costituente, capace di deterritorializzare l’identità di genere e le sue istituzioni”. [cit. R. Braidotti]