EUROPA
Parigi: sosteniamo la famiglia di Adama Traoré, ucciso dalla polizia
Adama Traoré viene ucciso il 19 luglio 2016 nel giorno del suo ventiquattresimo compleanno, mentre si trova nel commissariato di Beaumont Sur Oise, nella banlieue nord di Parigi. La famiglia chiede giustizia, la polizia arresta anche i suoi fratelli, oggi sotto processo.
Ha cercato di sottrarsi ad un controllo di identità perché ha dimenticato i documenti, per questo viene inseguito e durante l’arresto è schiacciato dal peso di tre gendarmi nonostante sia già immobilizzato. Secondo la testimonianza di un pompiere presente, ad Adama non è prestato alcun soccorso quando è privo di sensi. Muore poco dopo per asfissia.
Nei giorni successivi alla morte, mentre la famiglia costruisce una mobilitazione destinata a durare, le banlieue parigine si infiammano. Ancora una volta un cittadino di serie b è ucciso dalla polizia della république. Ancora una volta forme di neo-colonialismo costruiscono il nemico interno, e lo condannano a morte. Il 22 luglio una manifestazione di 5000 persone attraversa le vie di Beaumont. È solo l’inizio della lotta, perché attorno alla famiglia del ragazzo ucciso si costruisce un movimento che reclama a gran voce verità e giustizia per i troppi morti nella mani di una polizia razzista. Il 30 luglio ancora in migliaia sono nel centro della capitale francese: nonostante la regolare autorizzazione al corteo, la polizia lo blocca. Tutti e tutte resistono per ore. Il 5 novembre una seconda manifestazione investe il centro della capitale: ancora quasi diecimila e stavolta è impossibile fermare la loro marcia.
I morti per mano della polizia in Francia si contano a centinaia, uno al mese negli ultimi vent’anni, secondo alcune stime. Quasi tutti arabi o neri, figli dell’immigrazione e abitanti delle banlieue. Queste morti sono troppo spesso derubricate al rango di “bavures”, errori-sbavature nel funzionamento della macchina dell’ordine. Nella realtà sono gli effetti collaterali di un controllo del territorio fondato su controles au faciés [controlli arbitrari sulla base dell’aspetto fisico] e brigate speciali per i quartieri “difficili”.
Non si tratta certo di una novità ma con la morte di Adama sembra concretizzarsi un cambio di passo nella mobilitazione. Tante realtà locali cominciano a coordinarsi, il tam tam sulle reti sociali non si ferma ma anzi si amplifica, e le autorità corrono ai ripari. Le perizie sul corpo del ragazzo si contraddicono più volte prima di chiarire la causa della morte. La sorella Assa, che sui media scandisce a gran voce la domanda di verità e giustizia, è attaccata da tutto il ceto politico ed infine querelata da Nathalie Groux, sindaco di Beaumont sur Oise. Il 17 novembre il consiglio comunale deve discutere il sostegno economico delle casse pubbliche all’azione di querela: in tanti presidiano il municipio in solidarietà ad Assa Traoré, ma l’ingresso del pubblico viene impedito e la seduta è annullata. Quella stessa sera la polizia irrompe nel quartiere della famiglia Traoré con cariche sulle persone presenti in strada, manganelli e gas lacrimogeni fin dentro le abitazioni. Da quella sera la polizia presidia stabilmente il quartiere.
Due giorni dopo Bagui e Youssuf Traoré, due fratelli di Adama, sono arrestati per i fatti del 17 novembre: l’accusa è di oltraggio e minaccia di morte a danno di alcuni gendarmi, ma dai video dei numerosi reporter presenti non risulta niente di tutto ciò. I due sono comunque messi in carcerazione preventiva in vista del processo il prossimo 14 dicembre, una misura del tutto ingiustificata che rende palese l’attacco politico contro la famiglia Traoré.
Nella Francia del 2016 dire la verità sul funzionamento della polizia non è permesso, soprattutto ad una famiglia di origine maliana
Ad essere toccato è un nervo scoperto della società francese e di tutti i paesi occidentali: la presenza di confini razziali post-coloniali, che si intersecano con le linee dello sfruttamento e della divisione sociale del lavoro, dentro quei paesi che si vorrebbero paladini dei diritti umani, nella totale impunità garantita alla polizia nelle periferie e l’utilizzo di queste come veri e propri laboratori della repressione. Lo abbiamo visto negli Stati Uniti in questi mesi, dove il movimento Black Lives Matter ha fatto emergere in primo piano la pesante frattura che attraversa la società americana, anticipando le manifestazioni Anti-Trump.
Ma la linea della razza non è un “rimosso” soltanto per le istituzioni: anche nel campo della sinistra questa problematicità viene scarsamente affrontata, e nel corso degli anni si è materializzata una divergenza molto forte.
Il terreno su cui si produce l’incomunicabilità politica è quello del modello di rivendicazione. Le mobilitazioni dei soggetti racisés [razzializzati] parlano di attacco alle pratiche illegittime della polizia, di accesso ai diritti di cittadinanza oltre le differenze di razza, cultura e religione. Dall’altra parte le pratiche militanti più classiche, criticano il sistema poliziesco come naturalmente repressivo e funzionale al controllo della popolazione. Il problema si pone quando gli approcci classici invisibilizzano un dispositivo centrale del controllo, cioè l’attivazione della linea del colore e della linea centro-periferia come discriminanti per un esercizio capillare, quotidiano e diffuso della violenza repressiva (poliziesca, giudiziaria, etc). Viene così sostanzialmente rimossa la critica al razzismo politico ed al “privilegio bianco”.
La domanda di verità e giustizia per Adama sembra poter sanare questa divergenza. Attorno alla famiglia ed al quartiere del ragazzo, veri motori della mobilitazione, si sta costruendo un movimento che non cancella le differenze ma le aggrega attorno ad una rivendicazione, attorno ad una critica concreta e puntuale dei dispositivi di controllo del corpo sociale.
Perché, quindi, sostenere questa battaglia? Perché le forze dell’ordine non lasciano morti solo a Beaumont sur Oise, perché le forze di polizia sono uno strumento sempre più utilizzato della politica. Perché alla domanda di diritti si risponde con pistole e manganelli in tutta la Francia e nel mondo intero: sui boulevard parigini e per le vie di Ankara, nelle strade di Buenos Aires ed in quelle di Bologna. Perché l’état d’urgence francese è un modello, tra i tanti, di post-democrazia, che ha reso ancora più marcate le fratture nel corpo sociale della république ed ha formalizzato l’esistenza di un nemico interno da addomesticare prima e combattere poi. Sono stati infatti i/le musulmani/e a pagare più violentemente le conseguenze dello stato d’emergenza, dalle perquisizioni arbitrarie nelle case e nelle moschee alla presunzione di innocenza per i poliziotti che sparano.
Come strutturare questo sostegno, questa solidarietà attiva? Rompendo il meccanismo di incorporazione, costruendo su questo tema alleanza piuttosto che convergenza, cioè cercando di federare le soggettività attorno a rivendicazioni comuni e fare delle lotte stesse un punto di incontro delle diversità. Questa lotta dunque riguarda tutti e tutte, e per questo invitiamo chiunque in ogni parte d’Europa e del mondo a manifestare la propria solidarietà il 14 dicembre in occasione del processo a Bagui e Youssuf Traoré.
Pas de justice, pas de paix. Mercoledì 14 dicembre, appuntamento al CICP, 21 ter Rue Voltaire, Parigi. Ore 17, in contemporanea al processo a Bagoui e Youssuf Traoré.
Alcune compagne ed alcuni compagni da Parigi: pubblicato su Nuit Debout in italiano