ROMA

Panel #4, Geografie dell’immaginario: visioni, utopie, ideologie

Sabato 18 maggio, ore 21- 23, Nuovo Cinema Palazzo

Intervengono:

Zerocalcare (fumettista)

Alberto “Bebo” Guidetti (Lo Stato Sociale)

Valerio Mattioli (redattore not)

Coordina:

Tania Rispoli (dinamopress)

 

Sono passati 11 anni dall’inizio della crisi economica che ha sfigurato, rendendolo terminale, il consenso neoliberale e ne ha definitivamente sdoganato il volto più cupo e autenticamente reazionario. Dopo vent’anni in cui i governi socialdemocratici della terza via hanno mostrato il loro ruolo storico – quello cioè di essere continuatori della demolizione dello stato sociale e delle politiche anti-sindacali e anti-sociali del reaganismo e del thatcherismo – sta prendendo forma un comando capitalistico ormai sempre più slegato dal compromesso con i luoghi di mediazione nella società e sempre più incapace di mantenere il consenso se non attraverso forme di comando brutali e violente.

L’ipertrofica ingordigia social di Donald Trump o Matteo Salvini, o la psicosi reazionaria di Bolsonaro sono solo le allegorie di quella che ormai ha i tratti nitidi di una distopia politica fattasi comando. Anche l’immaginario – cioè i modi e le immagini con cui la classe auto-rappresenta e vede se stessa all’interno dei conflitti della società – non è stato immune da questo processo. La sintesi, formulata anni fa da Fredric Jameson (e poi attribuita alternativamente a Mark Fisher o Slavoj Zizek), è una boutade, poi divenuta profetica e virale: oggi è più facile immaginarsi la fine del mondo che una ben più modesta fuoriuscita dal modo di produzione capitalistico. Ma che cosa vuol dire?

Negli anni della trap e dell’orrorismo, delle narrazioni distopiche e di arti performative che mostrano sempre di più corpi in frammenti e oggetti parziali, sembrerebbe che l’affetto dominante del contemporaneo non possa che essere l’angoscia e la paranoia. Eppure lo studio dell’immaginario ci mostra anche un’altra cosa: che persino nelle forme più brutali di barbarie è possibile intravedere l’utopia di un altrove. Che anche là dove sembrerebbero dominare le passioni tristi della reazione si scorgono le possibilità di un conflitto. Una società non rappresenta se stessa in modo univoco, ma attraverso segni ambigui e contraddittori portatori a un tempo di reazione e di emancipazione, di paranoia e di utopia, di angoscia e di felicità. Coglierne le possibilità di conflitto e di riarticolazione vuol dire collocarsi in un punto di vista situato, che assuma la complessità di questa dimensione piena di insidie ma anche piena di possibilità della produzione culturale del capitalismo dell’entertainment (ormai sempre di più prodotto in modo reticolare e diffuso dal general intellect) e che metta anche in discussione alcuni tic della produzione culturale di movimento, che spesso in passato si è limitata a una visione dicotomica che ha finito per opporre una cultura uniformemente mainstream a una cultura critica o alternativa. Contro la tendenza a privilegiare le comunità simbiotiche e fusionali, portatrici di interpretazioni “monodimensionali” della produzione culturale, il progetto di Cult ha invece messo al centro la natura sempre divisa e conflittuale degli oggetti dell’immaginario, provando a proporre letture diversificate e complesse, che riuscissero a farne emergere gli elementi di contraddizione ed evitando di proporre una serie di oggetti culturali che facessero da “rappresentazione” di una supposta identità politica.

L’obiettivo del panel “Geografie dell’immaginario” è riflettere sulla produzione e la critica culturale al tempo di ciclo reazionario, e discutere di cosa significhi produrre oggi una cartografia complessa e all’altezza dei conflitti del presente dell’immaginario. Tre sono le questioni che porremo ai relatori che parteciperanno al panel. La prima è cosa significhi produrre (o analizzare) la cultura nella fase reazionaria. Nelle ultime settimane, a partire dal dibattito che si è aperto sulla presenza della casa editrice Altafonte al Salone del libro di Torino, abbiamo messo alla prova la nostra capacità collettiva di prendere parola, resistere e opporsi a partire da un contesto in cui si produce ed espone cultura, riuscendo a respingere la presenza della casa editrice di CasaPound e della estrema destra al governo. Più in generale, ancora, la domanda riguarda il ruolo della produzione culturale in un contesto ormai irreversibile di attacco e definanziamento, iniziato con la dismissione dell’università e proseguito con la feroce campagna anti-intellettualistica del M5S prima e di Salvini poi. Cosa significa in questo contesto resistere, rimettendo al centro l’analisi e la produzione d’immaginario?

La seconda questione, invece, si concentra sulla narrazione del conflitto o dell’utopia. Quali sono i modi, le immagini, le parole e i suoni che rendono visibile il conflitto sul terreno del lavoro, della costruzione d’autonomia o del futuro? Quali le strategie per dare visibilità a un conflitto che c’è ma che spesso fa fatica ad apparire?

La terza questione, infine, riguarda il rapporto con il capitale dell’entertainment, sempre più soggetto a concentrazioni proprietarie e monopoli (facebook, Netlflix). A partire dagli anni ’90, i centri sociali e gli spazi di istituzione autonoma avevano prodotto, creato, e immaginato con più o meno successo una cultura alternativa – una controcultura come affermazione di autonomia. Negli ultimi vent’anni, a partire da una nuova fase di protagonismo dei movimenti sociali e dallo spostamento sui social network del dibattito politico e culturale, il panorama è fortemente mutato e la distinzione tra cultura undeground e mainstream è diventata più complessa, forse svanendo definitivamente. Cosa significa dal punto di vista delle esperienze artistiche vicine ai movimenti oggi intervenire, parlare e agire (a volte tra mille contraddizioni) all’interno dei conflitti del capitalismo dell’entertainment? Che cosa vuole dire essere dentro e contro il mainstream?