CULT
“OtellO” di Kinkaleri, o della circolarità del potere
La riscrittura del testo scespiriano da parte della compagnia fiorentina è uno smembramento calcolato e immaginifico della drammaturgia originale, che chiama in causa il nostro essere spettatori e il nostro posizionamento nel mondo
L’inizio e la fine dello spettacolo sono già contenute nel titolo: OtellO di Kinkaleri (andato in scena al festival capitolino di Short Theatre), con due “o” maiuscole, comincia e termina infatti con due moti circolari. All’accendersi delle luci, i quattro performer (Michael Incarbone, Chiara Lucisano, Caterina Montanari, Michele Scappa) stanno correndo a velocità eterogenee sul palco, formando un cerchio. Anche il loro aspetto è eterogeneo, almeno a livello di vestiario: c’è chi corre a petto nudo, chi si ritrova in mutande a camminare, chi porta un kilt. È chiaro fin da subito, allora, che pure noi spettatori siamo sbalzati fuori da una logica puramente narrativa o di semplice trasposizione del testo scespiriano, com’è d’altronde proprio della compagnia fiorentina. Al contrario, ci troviamo in un universo di puri segni, e non di simboli, dove esigenze di concatenazione estetica prevalgono – o per meglio dire si pongono in una relazione dialettica, mai veramente risolta – con quelle dello sviluppo del racconto.
I danzattori e le danzattrici infatti, nel loro incessante moto, declamano a voce alcuni punti cardine della drammaturgia originale. Lo fanno con intenzione variabile, apparentemente stocastica (si passa cioè dal sussurrato allo sforzato senza che ci sia un rapporto diretto col contenuto del discorso, o con le passioni che questo vorrebbe suscitare), scambiandosi ruoli e funzioni, nonché cambiandosi anche d’abito e, talvolta, esibendo una plastica nudità.
Per certi versi, anche se continuamente rimodulato e con un ritmo abbastanza serrato, OtellO è un’infilata di differenti tableaux vivants, di scene pittoriche dal vero che talvolta rimandano all’arte classica, talaltra a un immaginario più contemporaneo. In generale, è come essere di fronte a delle incessante scariche elettriche, che ora passano attraverso le corde vocali dei performer, ora ne innervano la muscolatura e le figure collettive che compongo (in alcuni casi al limite del circo acrobatico) coi loro corpi. Non assistiamo a una destrutturazione, o a un’esplosione, della drammaturgia scespiriana, ma più a una sua “esplosione” in tanti piccoli e significativi pezzi che vengono ri-assemblati e ri-composti secondo logiche che esulano dai significanti originari e hanno maggiormente a che fare con le caratteristiche e le qualità performative delle persone in scena.
È qui che, fra le altre cose, si annida forse il valore più politico della messa in scena di Kinkaleri. Dice a proposito dello spettacolo Pietro Gaglianò nell’ultimo numero de “La Falena”: «The Tragedy of Othello, come si sa, è la cronaca di una continuità fatta a pezzi dall’inganno, al punto che nessuno tra i personaggi, eccetto uno, ha la piena comprensione degli eventi e ognuno, senza eccezioni, ha la sua parte di rovina e di dolore. Tutto attraverso una perversa manipolazione della lingua e della narrazione. […] I corpi e le voci di OtellO affrescano tutti i movimenti di massa di cento anni e più. Anzi, i movimenti della massa e i movimenti sulla massa. Al centro di OtellO giace infatti un interrogativo su quanto profonda sia la nostra consapevolezza della nostra (nostra come soggetto politico, come comunità attiva) posizione nel mondo, nella storia».
In tal senso, la riscrittura corporea e dinamica di Kinkaleri gioca col nostro spaesamento. Vale a dire, il portato perfido e “ingannevole” dell’originale viene di fatto espunto dallo spettacolo, il portato manipolatorio è tutto affidato alla visione e non a una “mano autoriale” che sovrasta dall’alto le azioni in scena.
Non c’è infatti – o almeno non sembra esserci – né volontà interna ai movimenti degli attori né una regia esterna della compagnia che possa reggere il bandolo della matassa. Al contrario, nella “cosmogonia performativa” di Kinkaleri ad alto voltaggio immaginifico, tutto diventa elemento scenico fra elementi scenici, inflessioni della voce, corpi, cosce, luci, oggetti. Non è tanto il testo scespiriano a essere smembrato, quanto il suo senso interno, il quale – in una certa misura – può essere infine ricomposto a piacere dalle sensibilità di spettatori e spettatrici. Similmente, sono fluide anche le varie “identificazioni” che si agitano sul palco, non solo quelle di ciascun performer con i vari personaggi, ma anche quelle di genere, di sesso, di qualità attoriale che viene costantemente “centrifugata” e remiscelata in variegate posizioni e dinamiche al punto da annullarsi con una negazione dei corpi, che per una buona parte finale dello spettacolo si inondano al di sotto di un telo di plastica. Si inonda con loro anche l’immagine del potere – che è poi il fulcro del dramma di Otello – che diventa così una presenza impalpabile e ubiqua, un interrogativo di natura teatrale ancor prima che di natura politica. Un’ombra oscura, eppure oramai apparentemente innocua, che si proietta sul palco con la sua iniziale “o” in moto circolare estatico ed estetico, algido, in perenne carotaggio nella nostra ammaliata visione.
Immagine di copertina di Luca Del Pia