ROMA

Omicidio di Colleferro, se la banalità del male è dietro casa

Tra sabato e domenica Willy Monteiro Duarte è stato pestato a morte. I fratelli Gabriele e Marco Bianchi, Francesco Belleggia e Mario Pincarelli sono stati arrestati in flagranza con l’accusa di omicidio preterintenzionale. Vengono tutti dalla vicina cittadina di Artena

Artena, provincia di Roma.

Due immagini mediatiche contrapposte: da una parte i tanti servizi realizzati negli ultimi anni da varie televisioni nazionali e internazionali sulla “città a passo di mulo”, “il tranquillo borgo non carreggiabile più grande d’Europa dove puoi dormire tranquillo”; dall’altra un centro che nelle ultime ore viene dipinto come coacervo di malavita e di criminalità che aggredisce senza riserve.

La città dove si può vivere fuori dalla modernità e dal rumore delle metropoli è la rappresentazione dai toni idilliaci che volevano far passare amministratori e gruppi folcloristici locali. All’opposto, invece, c’è l’immagine diffusa in queste ore di un luogo in preda a banditi, spacciatori, picchiatori con case e auto di lusso. Artena vista come regno del caos e del disordine morale dove non si può vivere e da dove partono spaccio e raid punitivi.

La realtà di Artena, però, cancella entrambe le immagini mediatiche a cui stiamo assistendo. Ridurre tutto a bene o male, bianco o nero porta a semplificare una faccenda assai più complessa che potrebbe e dovrebbe essere affrontata come merita, analizzando punto su punto le questioni culturali che sono dietro a una deriva sociale di questa portata.

Artena come molte delle realtà di provincia vive una trasformazione politico-sociale che parte dalla fine dei grandi sistemi identitari e ideologici, travolgendo quanto di buono si era riusciti a costruire in decenni di Prima Repubblica.

Per una buona fetta del secondo dopoguerra l’influenza dei partiti politici e del Partito Comunista che ha governato per tanti anni la città si è fatta sentire in modo deciso. Sezioni, circoli ricreativi, feste popolari hanno accompagnato tutti gli anni Settanta e Ottanta. La fine dell’egemonia del Pci e la crisi della sua classe dirigente hanno prodotto ad Artena, tra le varie cose, un grande vuoto politico e sociale.

 

La criminalità spesso si lega alla politica e a settori economici imprenditoriali. Piccole e medie imprese legate all’edilizia, spesso create da ex esponenti criminali tornati alla vita civile, vicine a questo o quel gruppo economico, sono state il corollario sia dell’attività politica dei partiti, anche di ala radicale o riformista.

 

Dagli anni Novanta in poi sempre è stato più evidente lo scollamento tra quel che restava del sistema dei partiti, soprattutto di quelli progressisti, e la popolazione, aprendo la strada a nuovi modelli sociali. Denaro veloce, una vita dinamica, auto di lusso, attività di ristorazione e ditte intestate a terzi erano il frutto di questi cambiamenti. Gli anni Duemila hanno poi consacrato il modello.

Quel che rimane della città di Artena, oggigiorno, è il risultato di tutte queste dinamiche sociali tendenti sempre più verso una spiccata chiusura individualista e conformista che ha portato il cittadino medio a disinteressarsi della vita pubblica. Una città dormitorio in cui scarseggiano eventi di grande portata. Un circolo Arci con due sedi (di cui una concessa dal Comune) e la parrocchia sempre aperti. Briciole di quel poco che resta delle strutture di massa di una volta. Attorno il deserto. Nessuna sezione di partito con attività volte al sociale o un riguardo verso chi ha bisogno di attenzione ma solo politici e consiglieri affamati di voti con seguiti clientelari a carattere personale e una politica regionale che ne avalla il modus operandi, usandoli di tanto in tanto per raccogliere preferenze utili al candidato di turno.

La lunga coda di questo fenomeno produce molti spacciatori, molti consumatori (di tutte le generazioni sia gli uni che gli altri), un discreto abbandono scolastico, una difficoltà per gli enti del terzo settore di avere un ruolo attivo (perché fare un tirocinio, uno stage formativo, o un primo lavoro subordinato se posso guadagnare di più gestendo un piccolo giro di spaccio?) ma anche una rete attiva di solidarietà che ha funzionato nel momento del lockdown e che tra i servizi sociali del Comune conta alcuni assistenti sociali attivi e vari attivisti che hanno cercato di non lasciare nessuno indietro. Giovani che subiscono il fascino del denaro veloce da una parte e altri che non ci stanno e tentano di reagire a questo clima stagnante. Famiglie che vivono di spaccio e altre di lavoratori che aspirano a una città con una qualità della vita diversa per loro e i loro figli.

 

Non esistono comunità felici, non sono mai esistite forse. I territori del nostro comprensorio hanno più o meno le stesse problematiche e i fattori globali di alcuni di questi fenomeni non aiutano.

 

La scomparsa del dibattito sui giovani, l’incapacità di fare un discorso sulle droghe che esca dalla retorica  repressione-carcere-repressione lasciano con il cerino in mano chi i territori li vive.

Un ragazzo è morto dietro la caserma dei carabinieri di Colleferro. Chi ha ucciso non era un mostro o una bestia, ma qualcuno con cui in tanti avranno preso un caffè al bar, scambiato parole, ecc. La banalità del male è dietro l’angolo nella provincia fatta di centri commerciali, aree di sosta e poli della logistica avanzata. Loro nel campo delle scelte possibili dell’esistenza hanno preso quella della criminalità odierna. Questo ci interroga come forze sociali sul nostro ruolo, la politica sul suo, le forze dell’ordine sul loro. Un ragazzo è morto, è anche colpa nostra.

Mino Massimei è Presidente dell’Arci “Montefiorino 93” di Artena