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ITALIA

Oltre la mascolinità tossica: riconoscere potere e privilegio dentro di noi

Cosa si intende per mascolinità tossica? Perché è un modello dominante e quali le vie di uscita? Confronto tra attivisti e studiosi che hanno messo in discussione paradigmi e modelli generatori di violenza e patriarcato

La giornata mondiale contro la violenza maschile sulle donne ci interroga necessariamente sull’origine di quella violenza e su un modello di maschile tutt’oggi imperante.
Abbiamo voluto pertanto creare uno spazio di confronto tra attivisti e studiosi che hanno riflettuto, scritto e che si sono attivati sulla questione in questi anni, per avviare un confronto che è ancora estremamente ridotto oggi in Italia, ma che è assolutamente necessario. Abbiamo quindi parlato di mascolinità, privilegio e potere con Lorenzo Gasparrini, scrittore, studioso e attivista romano, che ha scritto vari libri sulla tematica; Renato Busarello, attivista del laboratorio Smaschieramenti di Bologna; e con Davide Filippi, attivista che ha pubblicato un suo contributo sul tema per Dinamopress.

 

Partiamo anzitutto da una definizione, cosa è per voi la mascolinità tossica?

Renato: uso poco il termine e lo ritengo in parte fuorviante, preferisco usare l’aggettivo egemonica. “Tossica” suggerisce una devianza patologica rispetto alla normalità. Ma quei modelli non sono deviati, sono la norma, sono così egemonici che è difficile costruirsi in identificazioni alternative, ed è per questo che è così difficile “uscire dal branco”. Anche se nessuno di noi si identifica con il maschio violento patriarcale stupratore, sappiamo quale sono le complicità esistenti tra quel modello e la costruzione generale del maschile in cui tutti noi cresciamo. La realtà da ammettere è che la mascolinità egemonica è costruita a sostegno dell’eterosessualità obbligatoria come regime sociale che comprende tutte noi, anche noi che siamo frocie, perché siamo costruite in questa normatività e ce la portiamo dentro.

Davide: Ho ricordato il momento in cui è nata Nudm che protestava «contro la violenza maschile sulle donne». Dopo molte discussioni ho capito il significato di quel «violenza maschile». Il maschile è il problema, possiamo dirci che esistono maschilità non egemoniche, ma chiamare tossica quella egemonica rischia di evidenziarne la devianza ed è rischioso: non è deviata, è la norma. La maschilità egemone non è interrogata come violenza. È naturalizzata nelle nostre pratiche relazionali. Si vede in tutte le persone che per sfortuna o non desiderio non si sono mai interrogate sui loro ruoli di maschio all’interno delle relazioni. È egemonica perché presente nella nostra quotidianità relazionale.

Lorenzo: Sono d’accordo e aggiungerei un pezzo. Devo dire che ho usato entrambe le formulazioni a seconda dell’aspetto che preferivo mettere in luce.
L’aggettivo tossica regge perché esattamente come una sostanza tossica non fa male subito, si accumula nel corpo e quando si supera un certo livello diventa evidente all’esterno.
Similmente il concetto di egemonia mi ha permesso di spiegare il privilegio maschile. Privilegio non vuol dire benessere, vuol dire che hai delle possibilità in più che altri non hanno o a cui non sono destinati. Hai dei diritti che altri non hanno malgrado siano nella tua stessa situazione.

 

Come è possibile, per chi non si riconosce in quel modello di maschile, affrontare la condizione di privilegio, che riguarda invece tutti gli uomini, e quindi domandarsi “cosa c’è dentro di me di quella cosa lì?”

Lorenzo: È fondamentale confrontarsi tra uomini, parlare delle proprie identità per dare una reale consistenza al problema di genere che abbiamo, nella speranza prima o poi di abbandonare anche il concetto di genere. Se riuscissimo ad abbandonare il linguaggio e il modo del cameratismo e invece ammettere che abbiamo un problema, che prescinde da studi, situazione economica, provenienza geografica ed età, sarebbe un gran passo avanti.

Il privilegio è una situazione trasversale in cui siamo immersi perché nati in questo corpo ma solo riconoscendolo possiamo inventarci un modo diverso di agire, a partire dalla nostra pratica di vita e riconoscendo il problema. Il nostro privilegio è costruito da microviolenze a volte impercettibili ma sempre quotidiane, come quando da dottorando a me si rivolgevano con “dottore” alle mie colleghe con “signorina”. Confrontarsi più spesso, ci si allena a capire tutte le volte che c’è il privilegio ed è un passaggio fondamentale per destrutturare questa maschilità e per ricomporla in una altra forma a partire le macerie di quello che avremo distrutto.

Renato: La riflessione sul privilegio l’ho fatta molto tardi, perché fin da piccolo ho avuto un grosso rifiuto del maschile e un rifiuto della socializzazione che veniva proposta in quel modo. Vengo da paesini di montagna del nordest, dove impera una mascolinità dura, anaffettiva, silenziosa. Ho dovuto rifiutare quel codice prima ancora di scoprire l’omosessualità, e questo mi ha sempre fatto sentire deprivilegiato: ero sempre la frocia menata da chiunque. Solo più tardi mi sono reso conto che comunque sono un uomo cisgender, occupo una posizione e se prendo parola godo di privilegio.

Ti rendi conto del privilegio nelle singole interazioni quotidiane, quando la tua autorevolezza ti viene data in modo implicito in quanto uomo. Davanti a questa problematica il lavoro che ho fatto io è di decentrarmi, autoridicolizzarmi, avere uno sguardo obliquo su di me, anche se, essendo frocia, rischiavo così sempre di diventare una macchietta. La mia critica al maschile rischiava di essere banalizzata con un «lui è così perché non è un vero uomo».

 

foto di Renato Ferrantini

 

Arrivare alla critica al maschile è un passaggio centrale, soprattutto per chi è etero-cis, anche perché in quel caso vieni costantemente costruito con quello che le donne proiettano su di te. Vieni desiderato e vissuto per quella maschilità lì che porta a dei vantaggi competitivi. La tua autostima si basa su quanto riesci a riprodurre quel modello. Il problema dei gruppi che lavorano sul maschile è: come fare a uscire dal circolo vizioso del modello di mascolinità mentre vi sei immerso? Vivere il maschile è vivere un privilegio costante, da smontare sempre. In Nudm, che ha scelto di non essere separatista, sono passata a essere da una leader frocia che parlava sempre alle assemblee occupando tanto spazio, ad avere un profilo diverso. Ho imparato il silenzio, l’ascolto, potevo non essere al centro e lasciare spazio agli altri.

Per me era difficile perché mi sentivo la frocia oppressa che deve parlare per i 5000 anni in cui le frocie non hanno parlato, ma è stato necessario. Ho smesso così un po’ di parlare, anche se mi piace molto farlo. Spostandoci in altri contesti, quando, a livello lavorativo ad esempio mi viene dato un feedback di autorevolezza in quanto uomo, cerco di smontarlo dando un feedback laterale, autoironico. Ovviamente è una scelta che poi sei costretto a pagare, perché è molto più facile correre per la struttura che ti autosostiene nel privilegio maschile.

Davide: Sono molto d’accordo con Renato nel tentativo di fare un passo indietro dal protagonismo nelle dimensioni militanti, anche quando quel protagonismo un tempo rientrava nella costruzione del mio io e facevo questo per poter mettere in discussione un certo maschile. Bisogna ammettere però che quel maschile è comunque desiderato, lo tieni dentro perché funziona e lo agisci. E questo apre un conflitto nel tuo modo di stare in relazione con gli altri. La questione del privilegio è complessa perché ti viene assegnato dalla società. Riconoscerlo è già un passaggio importante e, al di fuori di quei contesti in cui si elabora una riflessione critica, è una condizione completamente normalizzata perché ti viene assegnato alla nascita. Gli uomini lo amministrano, gestiscono e nutrono. Sono state proprio persone che mi ponevano il problema del mio privilegio a farmelo riconoscere.

 

Quali sono per voi le possibili vie di fuga rispetto a queste mascolinità egemoniche?

Renato: La pratica queer, non identitaria, larga, attraversabile, è stata per molti una possibilità di denaturalizzazione della pratica della mascolinità. Dagli anni ‘80 in poi sono emerse altre mascolinità non egemoniche: butch, lesbiche, femminili, trans, queer ed è stato necessario riuscire a dare loro spazio. Il limite di gruppi maschili è che sono implicitamente etero, anche quando ci sono gay al loro interno. Questo accade perché sono gruppi basati sul tabù dell’omosessualità perché partono da un assunto: «Vogliamo essere i maschi che mettono in discussione il maschile senza essere froci, perché sennò sarebbe troppo scontato. Vogliamo dimostrare che dentro l’eterosessualità ci può essere maschilità diversa». In un contesto del genere però il terrore anale aleggia sempre tra i componenti, così pure la paura del tradimento. Perdere il privilegio è pericoloso, perché tradire il maschile ti porta a violenza e marginalità.

Il tradimento rispetto al branco ti viene fatto pagare ma forse questo prezzo sarà minore se ne riesci a fare un discorso collettivo. Per farne un discorso collettivo è necessario uscire dal binarismo maschile/femminile, per questa ragione la pratica queer è utile. Comprendo che nei contesti femministi non ci sia spazio, giustamente, perché non puoi togliere spazio a chi prende parola dopo 5000 anni di patriarcato. Ma creare contesti dove le varie mascolinità siano in ascolto e autocoscienza e si scambino le pratiche è molto utile perché permette di decentrarsi. Se sei tu nella posizione di potere e di centramento come puoi guardarti diversamente? L’unica possibilità è uno sguardo obliquo di altr* che ti circondano. I gruppi di soli maschi rischiano di essere solo autoconsolatori, perché questa maschilità è in declino dall’Ottocento, e allora c’è il rischio di trovarsi a piangere e leccarsi le ferite. Non possiamo rinchiuderci tra di noi, le esperienze di mascolinità con cui ci confrontiamo devono essere diverse per generi, orientamenti e posizionamenti al fine di decentrare il discorso egemone.

Davide: Per me è sempre stata una questione storica. I maschi che vivono in posizione di potere e privilegio se rimangono soli tra di loro, riescono a riconoscerlo? E se non ce la fanno da soli, chi deve farlo visto che giustamente molte compagne rispondono con un «ma devo insegnarti io anche questo?». Rimane importante e preliminare costruire alleanza con persone che non riproducano la tensione competitiva tipica del maschile e al tempo stesso affrontino l’incapacità di tenere un livello emotivo nella relazione che è tipico dei maschi dentro e fuori i collettivi.

 

Anche dentro le organizzazioni antagoniste esiste il potere maschile e decidere di destrutturarlo è complesso. Sia per i compagni, che non si sono neppure interrogati sul proprio potere, sia per le compagne femministe, per cui può essere a volte difficile riuscire ad aprire conflitti sulla questione. Cosa ne pensate?

Renato: Rispetto alle nostre culture autonome c’è un trauma storico molto grande che rimane come rimosso storico. Il femminismo ha avuto un impatto devastante sulla sinistra extraparlamentare da cui noi traiamo ancora oggi origine. Sulla separazione sono esplosi tantissimi collettivi e tornare ad affrontare il tema fa paura. La difesa dell’organizzazione è un elemento molto forte e collettivamente c’è un grosso rimosso di paura e trauma. La grandezza di Nudm è stata porsi come non separatista e rendere il separatismo minoritario ma contemporaneamente mettere in fibrillazione le strutture miste che hanno aderito, costringendole a mettersi in discussione riconfigurarsi in un modo diverso al loro interno.

 

(foto di Sara Ligutti)

 

Lorenzo: Mi sono veramente divertito in un gruppo maschile quando si è aperto a mascolinità diverse, fino a trovarsi anche con donne. Quando trovi corpi diversi dal tuo riesci a metterlo in discussione. Si chiamava gentlemen club e si ritrovava all’interno dello spazio di un collettivo femminista, che ci aveva accolti mentre altri spazi non ci avevano concesso di avere un punto di incontro. Se sei un gruppo di uomini che vuole mettere in crisi la mascolinità sei avvertito come un pericolo da ogni struttura di potere, perché costringi i compagni a pensare alla struttura su cui sono essi stessi appoggiati e il più delle volte non piace farlo.

Ho visto finire l’esperienza di alcuni collettivi quando non sono usciti fuori da questo problema, molti non sono disposti a riconoscere il privilegio e il potere di cui dispongono. Aggiungo che il passaggio che finora è mancato e servirebbe è la decisione di uscire in pubblico, dovremmo riuscire a superare questa barriera, la famosa barriera che distingue personale e politico. Rendere la nostra elaborazione critica della mascolinità qualcosa di pubblico è un atto rilevante. Strumenti individuali ce ne sono molti, il gradino di andare in pubblico è per molti invalicabile ma necessario.

 

Cosa accade quando si portano questi temi al di fuori delle nostre strutture di nicchia?

Davide: Viviamo in un paese pieno di paesini di provincia. Il femminismo è riuscito anche ad entrare in territori provinciali, al contrario la mascolinità non egemone è difficile che arrivi in modo capillare. Riconosciamo di essere nicchia, ma innescare un discorso anche al di fuori delle nostre cerchie più ristrette è importante. L’articolo che abbiamo scritto tempo addietro lo abbiamo fatto anche perché volevamo uscire dalla nostra cerchia militante e arrivare agli amici del paese.
Aprire la discussione fuori dai nostri giri è una operazione di umiltà sempre più necessaria.

Renato: Per molti anni il mio lavoro è stato concentrato dentro il movimento, abbiamo portato questionari, attraversato spazi sociali. Poi abbiamo accettato il superamento della distinzione tra dentro e fuori. Il “dentro” rimane nei codici condivisi con cui leggiamo fenomeni quali la cultura e il capitalismo, per il resto dentro e fuori non ci sono più. Le strategie devono essere a molti livelli con molti target contemporaneamente.

La presa di parola pubblica di cui parlava Lorenzo è un problema reale. In questi anni in cui ho attraversato esperienze politiche è mancato il momento di rottura. È mancato un momento in cui ci fosse una rottura simbolica con certe forme, pratiche e convenzioni sociali, e che questa rottura venisse annunciata in modo pubblico. È una direzione verso cui ragionare. Non vorrei che fosse solo un atto performativo ma andrebbe ragionato assieme perché sia efficace.

Lorenzo: Viviamo una nicchia e si parte da quella. Di lavoro faccio il formatore e mi trovo in contesti non militanti in cui mi accorgo che il linguaggio giusto e l’argomento giusto smuovono anche il soggetto più lontano: il dirigente d’azienda più borghese ha anche lui un problema con il maschile, se riesci a toccarlo può reagire in qualche modo.
Quando tocchi il tema della sofferenza per il continuo agonismo tra uomini anche un giovane ribelle delle scuole superiori ti sta a sentire.

Affrontiamo un problema generale ed enorme che tocca tutti. Le aziende chiedono formazione su questi temi quando è accaduta una molestia oppure quando l’azienda è dipendente di una casa madre anglosassone e dalla centrale gli arriva l’ordine di fare formazione sul genere. I dirigenti di azienda sono però convinti che, migliorando certi modi di fare, si lavora con più produttività e soddisfazione e questo permette di sfondare vari muri.

Davide: Nella maggior parte dei casi la mascolinità tossica fa star male anche chi ne è immerso. La sua contraddizione è dare vantaggi e poi intossicare il corpo di chi la riproduce. A livello internazionale poi la maschilità egemone sta capendo che è in crisi e in discussione e per questo, in contrappunto, ci sono posizionamenti sempre più reazionari come Trump e Bolsonaro che attaccano l’aborto, condannano l’omosessualità, ecc.

Renato: Non è casuale che ci troviamo il management aziendale come alleato. C’è una sofferenza realmente profonda generata dall’interiorizzare questa forma di mascolinità violenta che determina elementi terribili quali il sacrificio della propria emotività, l’ansia perennemente competitiva, la necessità perenne di dimostrarsi in grado di fare cose. La mascolinità egemone è una perenne costruzione narcisistica di un ego ipertrofico che fatica ad accettare no e rifiuti. Tutto questo da un lato genera comportamenti violenti, dall’altro provoca sofferenza interiore.

 

Lars Deike, particolare (foto di habier Lopezda Flickr)

 

 

Una parte del mondo gay è pervaso da mascolinità tossica allineabile a quella etero: dalla performatività competitiva in palestra all’ossessione rispetto alle forme del proprio corpo, ecc… Perché?

Renato: L’illusione era che le nostre relazioni gay fossero automaticamente altre. Nelle relazioni queer la violenza si riproduce con la stessa forma e con aggravanti di contesto. La relazione a due escludenti, la gelosia, il possesso, riproducono il modello all’interno di un ambito gay e questo fenomeno è ancora poco esplorato e poco interrogato. Senti dire spesso «sono gay, ma sono cis, sono un maschio» per delimitarmi dall’esperienza trans e già questo è una prova: non necessariamente riusciamo a decostruire la nostra mascolinità.

Dopo aver vissuto la durezza dell’esclusione dal privilegio etero è ovvio che a un certo punto qualche domanda te la fai, ma non necessariamente metti in discussione la forma della relazione, della coppia, dell’esclusività del rapporto e quindi alla fine riproduci il modello. Oppure c’è lo stereotipo inverso della frocia che vive di rapporti estremi, orge, relazioni antinormative, vive del mito del maschio che può accedere a tutti i corpi e scopare tutti e tutte per ipertrofia della propria virilità, ma allora di nuovo stiamo riproducendo una forma di mascolinità egemone.

Anche nei contesti Lgbt non è stato scontato portare una critica alle mascolinità egemoniche. Si sono generati dei conflitti, come quello provocato dall’irruzione del mondo trans. Questi conflitti però ci hanno portato a riflettere su come possiamo essere maschili e femminili in modi e gradi differenti al di fuori della riproduzione della mascolinità egemonica. Con una punta di delusione ammetto che rischiamo di riprodurre il peggio del mondo eteronormativo. Ho idealizzato il mio essere frocia come rivendicazione radicale di un rifiuto di quella mascolinità e quindi è difficile accettare che me lo sono portata dentro.

Lorenzo: La mascolinità egemone è stata presa a cannonate negli anni ma si è pure trasformata come tutte le forme di potere, che vanno ad annidarsi in spazi dove non le aspetteresti. Nelle scuole superiori l’orientamento sessuale non è quasi più un problema, ma invece la forza di gelosia, il possesso, sono ancora molto forti anche nelle relazioni non etero. Pensi che siano cose superate invece trovi ancora relazioni marcate dal possesso. Non bisogna dare per scontato che il tempo sia da solo lenitivo e produttore di cambiamento, bisogna essere attori e attrici di trasformazione.

 

Immagine di copertina di Valeria Ferraro