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ITALIA
«Tornerà tutto come prima»: la narrazione sul cancro al seno
Alla fine del mese dedicato alla prevenzione per il cancro al seno abbiamo intervistato quattro donne che hanno attraversato la malattia in diverse forme per farne un percorso di attivismo e decostruire dunque la tranquillizzante narrazione pubblica che la presenta come una malattia sempre guaribile
Il seno viene cosparso di un liquido appiccicoso, viene fatta pressione sulla pelle con una specie di telecomando collegato a uno schermo dove compaiono delle immagini in bianco e nero, visionate dall’occhio vigile del personale medico. Così inizia un’ecografia alla mammella. E per sempre più donne in Italia si conclude con una diagnosi di cancro al seno. Questo anno si stima saranno intorno alle 55mila le donne a cui verrà diagnosticato un tumore alla mammella. Queste si aggiungeranno alle circa 800mila donne che hanno già contratto la malattia e alle circa 35mila che attualmente hanno un cancro in stato avanzato. Questi i numeri presentati nella conferenza stampa per il lancio della campagna Nastro Rosa 2020, che si è svolta durante ottobre, mese dedicato a iniziative di sensibilizzazione e screening.
«Il cancro al seno è una malattia non curabile ma guaribile se mettessimo in atto tutto ciò che in nostra conoscenza» spiega nella conferenza stampa l’oncologo Francesco Schittulli, presidente nazionale di Lilt. Ogni anno, però muoiono sempre più donne, nel 2015 erano quasi 12.000, oggi sono quasi 13.000. Il tumore alla mammella è il carcinoma più diagnosticato, con un aumento del 10% dei casi in quattro anni, ed è la prima causa di morte oncologica tra le donne, come si legge nel rapporto annuale dell’Aiom.
«Scoprire un tumore di pochi centimetri ne garantisce la guaribilità senza deturpare questo organo che è il simbolo della femminilità, che svolge tre nobili funzioni: materna, estetica, sessuale», continua il Presidente della Lilt. Il seno, infatti, è il simbolo visibile e tangibile della femminilità, come spiega Iris Marion Young in Breasted Experience. La prima parte del corpo femminile esposta allo sguardo dell’altro, oggettificata e messa in questione. Questa elevata carica simbolica e l’idea che questo sia un cancro “di genere” è centrale nella costruzione del discorso su questa malattia. E di cancro al seno si parla molto.
La retorica del nastro rosa
Nell’estate del 2013, a Daniela, fondatrice del blog Afrodite K, viene diagnosticato un cancro al seno e, in poco tempo, si trova in sala operatoria e nel percorso di cura. «Solitamente, e fortunatamente, è tutto molto veloce. Vieni inserita in una macchina da guerra con dei motori autonomi, e tu sei un ingranaggio di una macchina non tua, dove è tutto prestabilito. Inizialmente mi sono affidata a questa narrazione già pronta, perché era una cosa semplice, tra tutte le decisioni difficili da dover prendere». La retorica è quella del nastro rosa che impacchetta il cancro al seno all’interno di una narrazione rassicurante e per certi versi banalizzante.
Continua Daniela: «Dagli aspetti terapeutici agli aspetti estetici, dalla ricostruzione al supporto psicologico, questa non è una costruzione solo mediatica, per chi ha il cancro al seno si traduce in decisioni concrete da prendere tutti i giorni, con impatti pratici molto importanti sulla propria vita e sul proprio corpo».
Come è stato per Daniela, che si è ritrovata inserita sotto pelle un espansore per la ricostruzione del seno dopo l’operazione di mastectomia. «Mi sono ammalata a 45 anni ed era dato per scontato che io volessi fare una ricostruzione del seno. Questo perché la donna malata di cancro deve tornare come prima nei comportamenti, nell’estetica, nel trucco, nel vestire. Tutto deve tornare come prima. Ma il filo conduttore dell’esistenza è il cambiamento, non tornare come prima». Valentina fa parte delle Amazzoni Furiose, blog e collettivo di donne malate o che hanno attraversato la malattia: «Io mi sono ammalata a 33 anni e mi sono resa conto che la mia visione sul cancro al seno era completamente distorta, non perché io fossi mal informata, ma perché la comunicazione con cui siamo bombardate ha poco a che fare con i dati di realtà». Questo gruppo si ispira all’azione della Breast Cancer Action, un’associazione indipendente nata negli Stati Uniti con l’obiettivo di fornire un’informazione trasparente e veritiera su questa malattia, non legata a case farmaceutiche o multinazionali.
Il mese di ottobre è tutto dedicato alla sensibilizzazione per portare le donne a fare ecografie e mammografie, affinché si aumenti la diagnosi precoce. Spiega Valentina: «In queste campagne si confonde colpevolmente la diagnosi precoce con la prevenzione o addirittura con la protezione dalla malattia». Infatti, le donne italiane, nello studio del 4C project, finanziato dall’Unione Europea, sono risultate le meno informate sui vantaggi e svantaggi della mammografia, e quasi il 61% delle intervistate riteneva erroneamente che lo screening mammografico prevenisse la malattia. Dagli anni ’80, i programmi di screening diffusi hanno portato grandi benefici nella cura della malattia, ma con problemi di sovradiagnosi e sovratrattamento. Oggi sono in corso studi sulla diagnosi personalizzata che prenda in considerazione diversi fattori di rischio oltre quello dell’età. Inoltre, programmi di prevenzione dovrebbero studiare le cause ambientali e diminuire la possibilità di contrarre la malattia, non solo cercare di “prenderla in tempo”.
«Il cancro al seno è una malattia molto eterogenea, una malattia sistemica, ci sono tumori molto piccoli che possono dar luogo a metastasi e tumori molto grandi che rispondono bene alle cure e sono guaribili. Ancora nessuno sa come si evolve un tumore e siamo purtroppo lontane dalla soluzione» spiega ancora Valentina.
In questo mese sono state raccontate molte storie simili dalle pagine di tante associazioni, donne che hanno sconfitto la malattia, hanno imparato molto da questa esperienza difficile, ne sono uscite vincenti, dimostrando una forza inaspettata. «La realtà è molto diversa. Io stavo vivendo un incubo che però veniva raccontato con i lustrini, i nastri rosa, i “ce la potrai fare”, e ti dimostro io come ce la potrai fare. Questo a livello piscologico è devastante, perché ogni persona ha il diritto di essere riconosciuta nei suoi vissuti, ogni persona ha il diritto di vivere la malattia come meglio riesce, perché è un’esperienza devastante. Ma nel cancro al seno questo non accade».
La malata come guerriera
Le malate spesso vengono dipinte come guerriere che stanno portando avanti una lotta contro un grande male. Donne forti, capaci e pronte a tutto per vivere. «Capisco la malata che tramite questa retorica sente di padroneggiare qualcosa più grande di sé. Questo è un meccanismo di difesa che da un punto individuale e psicologico è comprensibilissimo. Ma chi non ce la fa dove ha sbagliato?», chiede Valentina. E sembra risponderle Giorgia, malata di cancro al seno metastatico, con parole taglienti:
«Quando ti ammali di metastasi ti senti una fallita. Ti senti dall’altra parte della barricata una che la guerra l’ha persa. E questo non è giusto».La retorica della guerriera sposta sull’individuo l’esito della sua malattia, lascia indietro chi non ce la fa e colpevolizza i comportamenti individuali.
«Nega lo spazio della fragilità. Quando sei senza capelli, gonfia, con le occhiaie, non riesci ad alzarti dal letto, non sei una guerriera che può fare tutto. Io ho chiesto il supporto dello psicologo. È importante ammettere che non ce la fai e accettare aiuto» continua ancora Giorgia. Le donne che incontrano il cancro vedono stravolte le proprie prospettive di vita, hanno a che fare con il dolore, con cure difficili, con percorsi lunghi, e la possibilità di sviluppare metastasi fino a venti anni dopo il primo cancro. Purtroppo queste informazioni sono poco chiare e nascoste dietro alle migliori storie di successo nell’affrontare questa malattia.
«Questa è una malattia grave, non è una guerra. Ognuna mette le risorse che ha, consapevole di non essere in grado di incidere sull’esito della malattia. Il problema è che la retorica della guerriera venga rappresentata come unico approccio possibile.
Chi fa fatica, chi resta indietro, chi fa i conti con la depressione, chi vive nell’angoscia, chi rinuncia a un figlio: tutto questo ha il diritto di esistere tanto quanto l’altro racconto». Questo significherebbe fare spazio alla difficoltà e al dolore nel discorso pubblico tanto quanto in quello scientifico. Conclude Daniela: «Anche il mio blog è nato così, Afrodite K è una guerriera dei cartoni animati. Poi non mi ci sono più ritrovata e ho cambiato il racconto della mia malattia. Tutta la battaglia sulle lavoratrici e i lavoratori autonomi è partita da un outing sulla mia fragilità e i miei bisogni materiali. Ma ci vuole tempo e tanto lavoro su se stesse».
Cancro al seno metastatico
«Oggi nella nostra società va avanti la figura della vincente. Chi si ammala, chi non guarisce, chi è senza capelli, con l’ossigeno, bianchiccia, non è un’immagine vincente» racconta Angelica, che si è presa cura della madre morta di cancro al seno metastatico. Il cancro al seno metastatico è la parte meno raccontata di questa malattia, nonostante quasi il 30% delle donne ammalate di cancro primario possa sviluppare metastasi fino a venti anni dopo. Continua Giorgia: «Io stessa quando mi sono ammalata per la prima volta nel 2013 non mi ero interessata al cancro seno metastatico. Sapevo che esisteva ma non ero mai stata informata dai medici, la vedevo come un’ipotesi remota». Ma è molto difficile comprenderlo anche dai dati, oggi è quasi impossibile trovare dati sulla sopravvivenza dopo venti anni dall’insorgere del primo cancro alla mammella. Sappiamo che a 5 anni dalla diagnosi sopravvivono l’87% delle malate, e dopo 10 anni l’80%.
Due anni fa a Milano il gruppo Oltre il Nastro Rosa organizzò un’azione per il riconoscimento della giornata nazionale per il cancro al seno metastatico e per chiedere più ricerca. Nessuna delle donne malate che organizzò quella protesta era viva quest’anno per salutare l’istituzionalizzazione di questa giornata il 13 ottobre.
«È importante che si parli del cancro metastatico sia per le donne che hanno avuto un cancro primario sia per il pubblico in generale, perché oggi si è diffusa l’idea il cancro al seno è sempre guaribile».
Certo è anche importante comprendere come se ne parla, perché, oggi, sottolinea Angelica «sentiamo spesso dire che questa è una malattia cronicizzabile, come il diabete o come il colesterolo. Ma non è così perché una malata metastatica mediamente vive 5 anni e non sempre con una buona qualità della vita. Quando riporto questi dati, spesso sono accusata di diffondere messaggi negativi, però questa è la realtà di chi convive con il carcinoma al IV stadio». Semplicemente non esiste un V stadio.
Una comunicazione istituzionale chiara è importante affinché non tutto sia demandato alla relazione medico-paziente, dove spesso si instaurano meccanismi paternalisti per incanalare le pazienti nei percorsi di cura preordinati con poca abitudine a informare sui dati concreti.
Quello che emerge dalla voce di queste donne è un approccio critico alla medicina e alle cure, chiarisce Angelica: «Vorremmo affidarci molto di più, ma la ricerca e la medicina hanno tempi lunghi. Ma chi ha il cancro metastatico non ha tempo».
Spesso le pazienti ricevono più informazioni e supporto dai gruppi facebook di auto-aiuto che in ospedale. Giorgia, dopo il decesso di una delle fondatrici della campagna Oltre il Nastro Rosa, modera uno di questi gruppi. «Qui ci scambiamo le informazioni su dove avvengono le sperimentazioni, perché non esiste un database nazionale dei trial clinici, funziona tutto per relazioni tra medici, se non sei inserito in un buon centro ospedaliero e di ricerca, sei fuori dalle sperimentazioni». Meno del 5% dei fondi totali per la ricerca al cancro seno, non pochi se confrontati con quelli di altre forme tumorali, viene dedicata alle forme metastatiche.
«C’è una mancanza di responsabilità collettiva nei confronti delle scelte politiche sulla malattia. La ricerca è molto centrata sui fattori di rischio individuali, si sposta la responsabilità sull’individuo, per occuparsi sempre meno di quello che potremmo fare come sistema sanitario e come sistema politico per proteggere e garantire il diritto alla salute delle donne e della popolazione in generale, perché l’incidenza dei tumori è in tutta la popolazione» puntualizza Valentina.
Attivismo nella malattia
Aprire un blog, organizzare azioni, scrivere ai giornali, organizzare campagne di informazione, rivendicare il diritto alla salute. Tutte queste donne in qualche modo hanno fatto del loro incontro con la malattia un percorso di attivismo. Per Daniela «l’attivismo ha voluto dire trasformare la rabbia e la frustrazione che la malattia aveva portato con sé, in un’energia costruttiva. Ma soprattutto ho scoperto che non ero sola, che non ero l’unica a pensarla in maniera diversa». Non sentirsi sola, la scoperta di altre donne, mettersi in rete è stato centrale per tutte, un momento di svolta nel vivere la malattia. Commenta Angelica «di fronte la malattia di mia madre sono cascata e le Amazzoni sono state la mia rete di appoggio. Oggi cerco di essere vicine alle donne malate con gli occhi mia madre, loro mi hanno dato tanto e io voglio contribuire a cambiare le cose». Gli fa eco Giorgia «quando sono entrata in questo gruppo cercavo delle perdenti, delle fallite che avevano perso la guerra come me. Poi mi hanno fatto aprire gli occhi sulla malattia. Io non avevo fatto nulla di sbagliato, il 30% delle donne sviluppa metastasi e nessuno mi aveva mai informato correttamente su questo. Oggi modero questo gruppo facebook anche per supportare le donne che si sono trovate nella mia stessa condizione».
Così come Valentina «incontrare le Amazzoni Furiose è stato come sentirmi a casa in un momento in cui la mia casa era crollata. Ho condiviso questa esperienza di malattia con moltissime donne, in questo modo siamo anche andate oltre le nostre singole esperienze, per sentire il diritto di alzare la voce e di parlare anche per tutte le donne che non ci sono più».
Affinché la rabbia, il dolore e la paura non siano un freno, queste donne si sono messe insieme, si sono supportate e hanno costruito una voce comune oltre una retorica che le silenziava. Il cancro al seno è oggi condiviso da centinaia di migliaia di donne in Italia e milioni nel mondo. Come scrive Audre Lorde nell’introduzione ai suoi diari sul cancro «ognuna di queste donne ha una voce specifica che deve alzare in quello che deve diventare un grido di tutte le donne contro ogni cancro (…). Possano queste parole divenire un incoraggiamento per altre donne a parlare e agire delle nostre esperienze con il cancro o con altre minacce di morte, perché il silenzio non ha mai portato nulla di utile».