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Oltre i confini del diritto, per un femminismo delle migrazioni
Enrica Rigo nel suo ultimo libro “La straniera” ribalta il punto di vista degli studi sulle migrazioni. Il suo approccio femminista e intersezionale pone il genere al centro dei regimi di sfruttamento e governo delle migrazioni. Così facendo ridisegna le categorie del diritto e crea nuovi spazi e possibilità di lotta. L’autrice lo presenterà domani a Roma da Esc Atelier alle ore 18
Il 17 settembre 2015 diciannove donne nigeriane richiedenti asilo, trattenute nel Cie (oggi Cpr) di Ponte Galeria, vengono rimpatriate a Lagos, nonostante fosse ancora pendente presso il tribunale di Roma il ricorso alla richiesta di protezione. Dalla lotta intorno a questo caso giuridico prende avvio la ricerca di Enrica Rigo che dà forma e contenuto alla sua ultima opera La Straniera (Carocci, pp. 142).
Il libro riesce a raggiungere un equilibrio virtuoso tra accuratezza dell’analisi e una netta presa di posizione politica. L’autrice mostra tutta la capacità di coniugare il suo impegno nelle reti femministe e antirazziste con un rigoroso studio delle fonti giuridiche e della letteratura.
Il libro, infatti, fa proprie le rivendicazioni delle lotte sui confini che hanno attraversato l’Europa nel 2011 e nel 2015 e sceglie come chiavi di interpretazione dei processi storici e sociali la letteratura sui Critical Legal Studies arricchita con gli studi postcoloniali, con il femminismo intersezionale e la Critical Race Theory.
L’obiettivo è duplice da una parte porre al centro dell’analisi sulla mobilità le categorie di riproduzione sociali per adottare una prospettiva di genere necessaria a mettere in discussione le categorie del diritto, dall’altra «smascherare la falsa neutralità dei regimi di controllo delle migrazioni e interrogare criticamente quali funzioni assolva la natura sessuata dei confini mascherata da “oggettività”». Si tratta di un progetto ambizioso, fare del del diritto un campo di contesa per spingerlo oltre i propri confini e renderlo strumento di trasformazioni delle condizioni esistenti, sfidare l’attuale regime di governo delle migrazioni che incasella i e le migranti in rapporti gerarchizzati da cui scaturiscono i processi di razzializzazione.
Gli studi sulle migrazioni hanno sempre messo al centro il genere maschile, sebbene la figura di riferimento sociale sia mutata nel tempo: dai “pionieri” delle grandi migrazioni di fine 800 agli operai di fabbrica del secondo dopo-guerra. Più recentemente, l’uomo, in particolare chi proviene dai paesi extra-europei, ha mantenuto il ruolo di apripista del processo migratorio, una conseguenza del feroce regime di controllo che sottopone il migrante a un atroce viaggio attraverso molteplici confini. Il genere femminile, dunque, veniva e compariva solo in una fase successiva del processo migratorio a seguito di un ricongiungimento familiare. Sayad la definisce «la seconda età dell’emigrazione», si tratta secondo l’antropologo algerino di una fase che apre a una maggiore stabilità lavorativa e a un insediamento sociale permanente.
Tuttavia, è proprio in questo stadio del percorso migratorio che l’identità molteplice del migrante si scontra con le dinamiche di “integrazione” e con il razzismo. Tali forze spingono i e le migranti verso la segregazione, un processo che quando non avviene forzatamente è praticato come meccanismo di difesa comunitaria.
Negli ultimi venti anni, alcune ricerche hanno ribaltato la questione ed hanno sostenuto la tesi della “femminilizzazione” delle migrazioni, in riferimento soprattutto alla mobilità delle lavoratrici di cura. Il passaggio che compie l’autrice però si discosta da questa lettura e, adottando la prospettiva femminista, considera l’aspetto produttivo e la riproduzione sociale come due sfere non separabili.
Un ragionamento che trova le sue radici in un classico del pensiero sociologico: Excursus sullo straniero di Simmel. In particolare si fa riferimento alla definizione di migrante come «colui che oggi viene e domani rimane», da questo punto di vista la riproduzione sociale appare come un elemento essenziale della mobilità e non più subordinabile al lavoro.
La stabilizzazione delle migrazioni, infatti, allarga il campo dalla produzione alla riproduzione sociale, un aspetto necessario per sostenere la vita. E dunque da questo punto di vista “la straniera” non è solo l’altra figura oltre il maschile ma diventa il paradigma per interpretare le migrazioni attuali.
Il ministro Piantedosi ha creato scalpore nelle settimane scorse con la sua affermazione sui «carichi residuali», ovvero la brutale selezione dei naufraghi basata su inesistenti indici di vulnerabilità e fragilità. La selettività, però, seppur con l’attuale governo ha raggiunto l’apice della violenza, non è un concetto nuovo ma è il cardine su cui si fonda il governo delle migrazioni. In quanto tale è stato più volte affrontato negli studi sulle migrazioni (e non solo), il principio si basa sulla meritevolezza, un assunto che stravolge l’universalità dei diritti e concede l’accesso alla cittadinanza per criteri personali.
La prima distinzione operata dal diritto è quella tra migranti economici e forzati, i primi soggetti all’espulsione e al rimpatrio, i secondi inclusi tramite i canali della richiesta di asilo. Questa distinzione, però, appare solo formale e difficilmente applicabile. I precedenti studi di Rigo, infatti, avevano messo in luce la figura ibrida del lavoratore rifugiato, che era sottoposto alle tecniche di governo tipiche dell’umanitario come il confinamento in campi e la riduzione al ruolo di vittime prive di agency.
Nel libro l’autrice si inserisce su questo filone e propone un passaggio ulteriore adottando un approccio intersezionale che considera in maniera congiunta la razza, il genere e la classe. Il caso concreto, da cui trae origine il ragionamento, sono le donne nigeriane rinchiuse nel Cie di Ponte Galeria: per loro il riconoscimento della protezione passa attraverso l’ammissione e la dimostrazione della propria condizione di vittima e l’adesione a un programma di emersione dalla tratta.
La violenza che subiscono però non è contingente cioè legata ad un avvenimento specifico e circoscrivibile al rapporto tra vittima e carnefice, ma al contrario si caratterizza per essere un elemento strutturale dello sfruttamento non scindibile dal modello economico post-coloniale.
Anche in questo caso il terreno di conflitto scelto dall’autrice per l’affermazione di tali diritti e per la salvaguardia della vita è quello giuridico, in un’accezione che vede anche nell’umanitario un ambito di scontro per la tutela della persona.
Nel libro le categorie di “integrazione”, “cittadinanza”, “immigrazione” sono considerate parte del regime di governo delle migrazioni e in quanto tali da superare. L’autrice in questo modo decostruisce tutti i dispositivi che nel corso del ‘900 erano considerati i principi guida per l’inserimento degli e delle “straniere” nelle società di arrivo. Nei precedenti lavori Rigo aveva sostenuto la tesi di una “cittadinanza post-coloniale”, la deterritorializzazione dei confini e la proliferazione delle posizioni giuridiche, infatti, aveva messo in crisi definitivamente il liberalismo universalistico sui cui si fondava lo stato-nazionale.
In questo libro, l’analisi sembra lasciare definitivamente al suo destino il concetto di cittadinanza, ormai irrimediabilmente svuotato di significato e strumento di differenziazione tra inclusione/esclusioni, vita/morte. Si adotta l’istituzione giuridica e sociale della “ospitalità”, uno spazio al di fuori del diritto, per sua stessa definizione a-legale. Tuttavia la sua porosità lo pone come spazio di costruzione per un’alternativa al dominio e allo sfruttamento intersezionale. Un’istituzione che spinge il diritto oltre i suoi limiti e consente di rendere possibili le rivendicazioni della libertà di movimento.
Immagine di copertina da Openverse di Peter Hoffer