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“Tale of Tales”. Dal “non-videogioco” alla realtà virtuale
Auriea Harvey e Michaël Samyn si sono conosciuti nel mondo della net.art, l’arte su internet, di fine anni ’90, si sono sposati e all’inizio del terzo millennio hanno fondato insieme “Tale of Tales”, uno dei più importanti studi nel mondo del videogioco. In questa intervista fatta da Matteo Lupetti per DINAMOpress raccontano come sono passati dal “non-videogioco” alla realtà virtuale
Auriea Harvey e Michaël Samyn si sono conosciuti nel mondo della net.art, l’arte su internet, di fine anni 90, si sono sposati e all’inizio del terzo millennio hanno fondato insieme Tale of Tales, uno dei più importanti studi nel mondo del videogioco. Il nome della compagnia viene da Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de peccerille di Giambattista Basile, raccolta seicentesca di fiabe su cui sono stati basati anche Il racconto dei racconti di Matteo Garrone e Gatta Cenerentola di Alessandro Rak, Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e Dario Sansone. Dopo aver passato anni in Belgio si sono ora trasferiti a Roma, e DinamoPress li ha raggiunti per raccontare insieme a loro il passato e il futuro di un duo di artisti che ha contribuito a rivoluzionare un intero medium [l’intervista è stata editata e tagliata per brevità e chiarezza]
Cosa facevate prima di conoscervi?
Samyn: Io ho studiato graphic design a Ghent, in Belgio. Mi son diplomato nel 1990 ma quello che ho studiato non aveva niente a che vedere con i computer: lavoravamo con carta, forbici e fotocopiatrice. Appartengo all’ultima generazione coinvolta nella leva militare obbligatoria, ma scelsi l’obiezione di coscienza e lavorai per due anni in un teatro. Fui assunto come tecnico, il responsabile della pubblicità del teatro si accorse che avevo studiato graphic design e mi fece lavorare a tutte le locandine e ai volantini; lì imparai a usare il computer. Poi iniziai a insegnare graphic design e con il denaro guadagnato comprai un computer e poco dopo arrivò il primo browser con interfaccia grafica. Intanto avevo fatto molta arte tradizionale (scultura, pittura) ma il giorno in cui ho scoperto internet smisi di fare qualsiasi altra cosa
Harvey: Io ho studiato a New York, andai là perché volevo diventare una pittrice. Ma era il 1989, nessuno dipingeva più e mi convinsero che la pittura fosse qualcosa di vecchio. Andai allora a studiare design, mi piaceva ma finivo sempre per progettare oggetti strani che non avevano alcuna funzione e i miei insegnanti mi consigliarono di cambiare corso e di andare a studiare scultura. All’epoca c’erano due tendenze: c’erano gli studenti di scultura che volevano fare video art e poi c’erano gli altri, come me, che volevano fare fotografia e lavorare con i computer. Trovai lavoro a scuola nel loro primo laboratorio informatico, nessuno sapeva come usare i computer ma se imparavi a usarli, e potevi quindi aiutare altri studenti, ti pagavano di più, quindi imparai tutto il possibile per guadagnare qualcosa e aiutando gli studenti di graphic design imparai sempre di più sulla materia. Intanto facevo un sacco di cose strane con la fotografia, mescolando vecchi processi fotografici e processi digitali. Quando mi diplomai avevo capito che non volevo fare scultura, ebbi una breve carriera nell’arte performativa ma non faceva per me: mi piacevano davvero i computer e mi concentravo sempre di più sul graphic design. Quando internet iniziò a permettere la diffusione di immagini mi resi conto che volevo fare quello.
Samyn: Facevamo anche molto web design commerciale. La cosa interessante è che all’epoca nessuno conosceva queste nuove tecnologia e due designer sperimentali come noi potevano farsi pagare per i loro esperimenti, perché nessun altro poteva tecnicamente fare quello che facevamo noi. Abbiamo lavorato per grandi compagnie. Era un’epoca, volendo, romantica e rivoluzionaria, potevi fare arte e raggiungere le persone (spesso, altri artisti) senza alcun intermediario. Un’alternativa al mondo reale con tutti i suoi problemi, soprattutto economici.
Come vi siete conosciuti?
Harvey: Ci siamo incontrati online nel 1999. Ci siamo incontrati su un server chiamato hell.com, un collettivo artistico di quelli che ora chiameremmo ‘artisti dei nuovi media’. Eravamo entrambi parte di questo collettivo, tenevamo mostre online insieme. Le videochiamate non erano così comuni, ma qualcuno aveva tirato fuori un software che permetteva di farle (CU-SeeMe) e una notte lo usammo per riunirci online e vedere se c’era la possibilità di lavorare insieme a un qualche genere di performance video online. A un certo punto durante la serata ci mettemmo a chattare in privato e il giorno dopo Michaël mi mandò un file, un html, io gli mandai qualcosa in cambio e iniziò questa conversazione audiovisiva tra noi [le opere che i due artisti si sono scambiati sono state poi raccolte online]. Costruimmo gli strumenti necessari per chattare tra noi [un software che chiamarono Wirefiree che usarono anche per realizzare performance online] e cominciammo a lavorare insieme. Alla fine mi trasferì in Belgio per vivere con lui.
Quando iniziammo a vivere insieme lavorammo ancora per qualche anno come web designer. Ma a un certo punto, all’inizio degli anni 2000, il web design iniziò a cambiare. Cominciarono a spuntare pubblicità, cominciarono a nascere i blog… Invece di creare cose nuove, le persone stavano usando strutture precostruite. Ci annoiava, non era arte. Già molti artisti impegnati coi nuovi media stavano sperimentando con i videogiochi, realizzavano mod [modifiche per videogiochi già esistenti], mod radicali, vera arte. Ma a noi non piaceva neanche questo: perché realizzare una mod per un altro videogioco invece di un videogioco tutto tuo? Non sapevamo moltissimo di videogiochi, ma ogni settimana ne affittavamo un po’ per la nostra PlayStation e ogni tanto ne compravamo uno. Erano bellissimi e quando uscì la PlayStation 2 ci perdemmo la testa e decidemmo che potevamo farlo anche noi.
Samyn: Capire che potevamo lavorare con mondi tridimensionali e in tempo reale fu una rivelazione per noi. Molte delle cose che avevamo provato a fare su internet erano alla fine tentativi di creare spazi, di dare la sensazione di essere presenti in un certo ambiente con certi oggetti, ma era tutto finto, avevamo solo pagine bidimensionali su cui potevi cliccare.
Intermezzo
Harvey e Samyn hanno attirato l’attenzione del mondo del videogioco quando nel 2008, all’inizio di quella che è stata chiamata “rivoluzione indie”, hanno pubblicatoThe Graveyard, un videogioco in cui interpreto una donna anziana che fa visita al cimitero. In The Graveyard posso solo camminare nel sentiero principale del cimitero, tra le lapidi, raggiungere una panchina e ascoltare una canzone prima di andarmene. Il gioco è distribuito gratuitamente, con una versione a pagamento che aggiunge un unico dettaglio: a volte la protagonista, dopo essersi seduta sulla panchina, muore. Mentre lo sviluppo indipendente recuperava e reinterpretava generi tradizionali (soprattutto il “platform”, cioè i videogiochi in stile Super Mario Bros.), Tale of Tales stava proponendo qualcosa di completamente diverso, almeno inizialmente definito anche da loro come “nongioco” (“notgame”). “Possiamo creare una forma di intrattenimento digitale che rifiuti esplicitamente la struttura dei giochi? Cosa è un’opera di arte interattiva che non si affida a competizione, obiettivi, ricompense, vittoria o sconfitta?”scrivono Harvey e Samyn nel loro manifesto.
L’influenza di The Graveyarde delle successive opere di Tale of Tales (soprattutto di The Path, rilettura della fiaba di Cappuccetto Rosso) è avvertibile in tutta la scena videoludica successiva. Persino Naughty Dog, uno studio ora parte di Sony, cita The Graveyard come influenza per il suo Uncharted 2: Il covo dei ladri, un videogioco in stile Indiana Jones in cui chi gioca ha il compito di saccheggiare antiche civiltà uccidendo centinaia di nemici. Una scena di Uncharted 2 è ambientata in un villaggio. «Alcune persone in Naughty Dog non pensavano che questa scena avrebbe funzionato», ha dichiarato Richard Lemarchand di Naughty Dog. «Questo perché non potevamo permettere alle persone che giocano di correre, saltare, scalare, combattere con gli abitanti o tirar fuori l’arma. Ma avevo appena giocato a un videogioco che mi aveva rassicurato sul fatto che tutto ciò avrebbe funzionato». Il videogioco citato era appunto The Graveyard. Notate comunque la situazione assurda in cui il videogioco si trovava e si trovava ancora, con gli sviluppatori attanagliati dai dubbi perché in una piccola parte di un videogioco violentissimo non stanno dando a chi gioca la possibilità di uccidere.
Negli anni, il videogioco è però diventato un limite per i Tale of Tales. I videogiochi sono giocati solo da fan dei videogiochi, e per quanto un artista si impegni a realizzare qualcosa di accessibile a tutti probabilmente la sua opera non raggiungerà mai nessuno oltre questa (grande) nicchia di fan, anzi non raggiungerà nessuno oltre una (meno grande) nicchia di fan appassionatissimi e dedicati. Anzi, realizzare “un videogioco per tutti” vuol dire spesso raggiungere solo una minuscola nicchia all’interno di questa nicchia di fan dei videogiochi, la nicchia che è interessata a esperienze diverse dai simulatori di genocidio e di colonialismo come Uncharted. Qualsiasi cosa i Tale of Tales creassero, quindi, veniva vista non come un’opera d’arte ma come un bizzarro esperimento adatto solo a pochi, e Harvey e Samyn decisero che, se tanto il loro pubblico sarebbe rimasto solo quello super appassionato al videogioco, allora poteva valere la pena realizzare qualcosa che fosse esplicitamente indirizzato a tale pubblico. Qualcosa di un po’ più convenzionale, inseribile in un genere commercialmente definito, con una tradizionale narrazione costruita secondo la struttura in tre atti che ossessiona Hollywood. Il risultato, pubblicato nel 2015, è Sunset, che riprende un genere narrativo noto come “walking simulator” (“simulatore di passeggiata”).
In Sunset mi trovo negli anni ’70 e interpreto una donna afroamericana costretta a lavorare come domestica in uno Stato dell’America Latina che ha subito un colpo di Stato (appoggiato naturalmente dagli USA). Sunset mescola lotta di classe, le lotte per i diritti civili negli USA, la pittura sacra, gli anni ’70 dei golpe in Sud America in un’opera complessa e ambiziosa che non ha incontrato il favore del pubblico. O meglio, come mi ha spiegato Samyn nel 2016 durante un’altra intervista, «Sunset ha trovato un suo pubblico, come è capitato per gli altri giochi, e non ha neanche un successo minore degli altri nostri giochi, ma speravamo che potesse fare meglio, speravamo che fosse accessibile a una più ampia fetta di videogiocatori». I Tale of Tales, che per sviluppare Sunset avevano investito una quantità di risorse e denaro che hanno rischiato di non recuperare, rinunciarono allora a realizzare videogiochi commerciali, ripresero in mano il loro primo videogioco, The Endless Forest, finanziandone in crowdfunding una nuova versione e iniziarono a lavorare a Cathedral-in-the-Clouds, una serie di scene sacre pensate per la contemplazione digitale. Lo stacco si avverte anche nell’uso di un nuovo nome, Song of Songs, per il loro ultimo lavoro Cricoterie, sviluppato per la Realtà Virtuale e ispirato al teatro del regista polacco Tadeusz Kantor.
Che cosa è accaduto dopo il fallimento del “non-videogioco”?
Harvey: Avevamo perso la nostra spinta interiore. Avevamo lavorato per il pubblico per tanto tempo da non riuscire più a riconnetterci con quello che volevamo noi.
Samyn: Un artista in qualche modo vuole sempre compiacere il suo pubblico, vuole affascinarlo, è come un attore che cerca l’applauso. Quindi, quando sviluppa un videogioco è facile che un artista finisca a progettare qualcosa che sia divertente per le persone ed è difficile resistere alla tentazione di farlo. Ma questa non era l’arte che volevamo fare.
Harvey: Eravamo insoddisfatti, delusi, feriti dalla cultura che ruota intorno al videogioco. A causa del GamerGate [movimento di estrema destra nato nel 2014 allo scopo di allontanare donne e minoranze dall’industria del videogioco e limitarne la rappresentazione nelle opere], a causa di Steam, di Apple… E intanto continuano a uscire sempre gli stessi giochi. Sappiamo che sono uscite opere innovative, ma sono poche, e intanto sei costretto a difenderti continuamente dagli attacchi, soprattutto appunto dopo la nascita del GamerGate.
Come siete arrivati alla Realtà Virtuale?
Samyn: La Realtà Virtuale era all’inizio un elemento extra in Cathedral-in-the-Clouds, che era soprattutto pensato per essere fruito su schermo attraverso diversi programmi e piattaforme. La Cattedrale, esplorabile in Realtà Virtuale, avrebbe raggruppato in un unico spazio tutte queste esperienze.
Harvey: Ma eravamo molto incuriositi dalla Realtà Virtuale, già negli anni 90. Credo che il nostro desiderio di fare ancora cose pensate per gli schermi in Cathedral-in-the-Clouds fosse una reliquia della nostra esperienza con i videogiochi. Appena abbiamo iniziato a sperimentare con la Realtà Virtuale abbiamo abbandonato questo atteggiamento.
Samyn: In Cathedral-in-the-Clouds volevamo realizzare oggetti che sembrassero a dimensione reale, ma è la Realtà Virtuale a darti questo senso di dimensioni e proporzioni. All’inizio è stato difficile avvicinarci alla Realtà Virtuale: un aspetto importante del nostro lavoro nel videogioco era attivare in qualche modo l’immaginazione delle persone, pensavamo che l’arte non fosse quello che accade nello schermo ma quello che accade nella testa di chi gioca. Ma con la Realtà Virtuale non hai bisogno di immaginare nulla, hai questa sensazione di essere davvero lì. E come artista dubitavo della mia capacità di creare arte in questo medium, dove l’immaginazione non era necessaria.
Perché avete deciso di trasferirvi a Roma?
Harvey: Siamo venuti a Roma per una serie di motivi: un clima migliore di quello di Ghent, gli amici che abbiamo in Italia, l’arte e Cathedral-in-the-Clouds. Eravamo già venuti a Roma diverse volte, la prima volta fu nel 2006 per il nostro viaggio di matrimonio.
Samyn: Due anni fa siamo venuti a Roma per cinque mesi all’interno di una residenza artistica dell’Academia Belgica, soprattutto con l’idea di fare ricerca su Cathedral-in-the-Clouds. Quell’esperienza ci ha aiutato a capire cosa volevamo dall’arte: Roma ne è piena e non è solamente chiusa dentro i musei, la vedi ovunque.
Harvey: Qua c’è la possibilità di connettersi con l’antichità e con la sua stratificazione. Dopo aver lasciato l’industria del videogioco possiamo occuparci solo dei grandi temi: vita, morte, sesso, cosa sia la tua anima, cosa succeda al tuo corpo quando entri in uno spazio. E a Roma è più facile per noi ragionare su simili temi, perché è un gran casino, ma è un casino bellissimo e senti di poter trovare il tuo posto al suo interno. Mentre venivamo a Roma stavamo anche pensando a cosa potevamo fare qui per supportare altre persone impegnate in nuovi media e videogiochi e per collaborare con loro, a come dar vita a qualcosa, a come allargare il nostro studio o comunque la nostra rete. Credo che Roma sia un buon posto per il nostro futuro.
Harvey è ora docente alla Kunsthochschule Kassel, in Germania ed entrambi tengono laboratori all’interno del Master in game design di Matteo Bittanti allo IULM di Milano. Auriea Harvey e Michaël Samyn saranno presenti al festival Game Happens, a Genova, dove all’interno dello showcase mostreranno la loro opera in Realtà Virtuale Cricoterie. Game Happens è un festival a ingresso gratuito (ma è necessario iscriversi per poter prendere parte alle sue conferenze) e si terrà dal’8 al 10 novembre 2019.