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O essere una tartaruga (e un albero, e erba). Le biopoesie di Massimo Filippi
In “Diario di un anno, 2022-2023” Massimo Filippi percorre il territorio di confine tra vita e morte, facendo ricorso alla forma poetica, che, grazie a quanto nel verso si fa ritornello, può impegnarsi in un esercizio di ripetizione quotidiana, a metà tra l’esame di coscienza e la bacheca social, la ricorsività della memoria e dell’oblio e la liturgia dei gesti incoscienti
«Albero casa, albero matassa, / Albero spettrale, albero ritorto (…) / Albero vapore, albero calante, / Albero ombra, albero celeste» (p. 15). La costellazione-albero è sì cara al nostro immaginario; l’albero ha radici, l’albero ha un tronco – che si eleva verso l’alto –, l’albero ha ramificazioni: prime, e seconde, comunque ordinate attorno a un asse di simmetria. L’albero porta frutti, anche. Arborescenti, ci dicono all’erta Deleuze e Guattari, sono quasi tutte le nostre discipline. La biologia, che Darwin già voleva più vicina al bush, al basso nero vischioso e puntito cespuglio; la linguistica, poi, e anche l’informatica – esiste l’albero della vita e l’albero del sapere, insomma, «tutti pretendono delle radici».
Anzitutto il Potere. Sarebbe interessante provare ad abbattere questo modello, allora, per crescere orizzontali, come cresce l’erba – o per restituire l’albero all’albero. Che è un organismo modulare, del resto: organizzazione multicentrica, insieme complesso senza in realtà un capo – né, naturalmente, alcuna coda. E quindi: «Albero casa, albero matassa», cantilenare, come Massimo Filippi nel componimento datato (titolato, anche firmato?) 15 agosto nel suo Diario di un anno. Biopoesie 2022-2023. Testo recentemente pubblicato per l’editore Meltemi, in cui compaiono splendide ed essenziali – impercettibili – illustrazioni di Luigia Marturano.
Il testo è, appunto, il Diario di un anno. Ci si chiede se tener fede al titolo scelto, o se piuttosto dietro al diario non si nasconda altro – Arte della resistenza, diceva l’antropologo James Scott nel suo omonimo testo, è intessere strategie di resistenza che passino inosservate, trascrizioni nascoste al di sotto di quelle pubbliche. E questa è l’impressione: di un segreto che si possa intravvedere scorrendo i componimenti che ripercorrono l’annus horribilis o mirabilis (che forse è lo stesso: il primo termine fa probabile riferimento all’horrēre, al rizzarsi del pelo dall’emozione, il secondo al mirari, il meravigliarsi o il guardare, come si deve guardare quel monstrum che è meraviglia e che è orrore assieme).
Si può partire dall’albero, per esempio. Dal segreto pensiero che sceglie d’abbattere il modello arborescente, forma che vede un punto d’origine e un compiuto sviluppo, per farsi Foglie d’erba e cantare, da questo fondo più selvatico e più modesto, anche se certamente meno composto, quella zona di frontiera fra la morte e la vita.
Perché «questo diario su muove nel territorio di confine tra la vita e la morte», o meglio, si racconta poco sotto, nella Nota e nella quarta di copertina, nello spazio della «vitamorte che mai è personale e, tantomeno, umana» – «un territorio che, almeno in parte, può essere attraversato facendo ricorso alla forma poetica» (p. 10). Cosa interessante, diceva Deleuze, in Conversazioni con Claire Parnet, è «fare crescere la propria erba», farla crescere «impercettibilmente». Il più piccolo germoglio, cantava l’altro poeta e profeta della malerba, Whitman, mostra come non ci sia realmente la morte, se non quella che già porta verso la vita, e assieme a quella procede, e a volte s’interrompe – «e morire è diverso da quel che ciascuno abbia mai creduto, e più felice».
Una parola, questa, che si tiene con sé come un amuleto, forma d’augurio e di auspicio, quando si canta de lavitalamorte, che appunto non è mai personale e nemmeno umana, ma sempre condivisa, e sempre tra, come avveniva già in M49, testo che Filippi pubblicava per i tipi di Ortica, in cui si raccontava della fuga del giovane Papillon e del suo – e dei suoi – controcanto. Come detto in 17 Ottobre, che torna a chiudere, o a riaprire, il testo, «sia chiaro a tutti, sia detto apertamente: / Qua non si finisce, qui si ricomincia» (p. 123). O ancora, che la morte ci sia lieve. Difficile da credere, difficile da scrivere e da sostenere, davanti al mare di morti e barconi, davanti ai camion stipati d’animali detti “da reddito” che s’incontra in corsia, davanti alla tirata somma dei cadaveri dei media planetari.
Si possono dare i numeri dellə mortə, del resto, quando lə mortə già più non conta – non conta la sua vita, anzitutto, perché il suo volto non è mai viso. Impantanatə una società logocentrica e viseocentrica – come raccontarne le ipocrisie, come raccontarne i corpi che al rango di rifinito e bianco viso non assurgono mai e rimangono disturbo di fondo, danno collaterale? O come raccontarne le altre voci, che non si fanno mai discorso ma restano rumore, fruscio o pianto o grido confuso?
Attaccando – nascostamente: è la resistenza dellə deboli, che non s’annuncia mentre arriva –, il linguaggio stesso, che non è mai neutro, ne è mai sola informazione. Ma è veicolo d’obbedienza, di comando, di sottomissione. A cui si risponde, come può rispondere l’animale, come può rispondere lə subalternə, non istruitə alla grammatica dell’egemonia, moltiplicando il rumore, la confusione, il grido e il fruscio, appunto. O la ridondanza.
O ancora, moltiplicando il ritornello. Che, ancora con Deleuze e Guattari, può essere piccolo, e allora difendere dal caos, difendere il territorio, difendere il codice e regolarizzare le parti in causa, creandone una rifinita partizione, o può essere grande. Ecco, il grande ritornello è invece una forza creativa, una forza creatrice, come può esserlo la gioia, incontro felice in cui due figure si ritrovano come a metà – Mozart per esempio cantava gli uccelli con la sua musica, e allora la sua musica diveniva-uccello ed era anche l’uccello a divenire-musica. Il risultato (che non è tale, perché non è fisso, fissato, dato) è una conversazione, un tra, una «confidenza senza interlocutore possibile».
Così fa Massimo Filippi con l’anno 2022-2023, ripetuto, reso nella sua ridondanza, giorno per giorno. E giorno per giorno rimasticato – la bocca che si rifiuta d’ingerire carne di altri corpi, di corpi compagni, dovrà pur mangiare: farà allora cannibalismo dell’anno vissuto – e poi risputato. Anche dell’albero, nella sua verticalità, si può fare ritornello, essenza più scivolosa, se non già viscida – «Albero casa, albero matassa, / (…) Albero caduto, albero melassa»; anche della blatta si può fare la propria compagna – una è la paura davanti non tanto a lamorte ma alla sorte di rimaner schiacciatə, si dice il 25 Ottobre.
Ritornello rivoluzionario, perché cerca sempre nuove connessioni, nuovi concatenamenti, nuove mani, zampe, tentacoli o ali da stringere. Per inaugurare il tempo della festa e non più del lavoro, o il tempo della manomissione, in cui si libera la mano dalla presa, dalla fatica della prestazione, per restituirla all’incontro, all’altrove. O alla quadrupedia.
«O essere una tartaruga!» sembra allora voler cantare Filippi come Lawrence – sentire il lento vagare e il lento battere del cuore, alla maniera della testuggine. Essere qui perde la sua valenza di copula e di predicato, e si libera, soprattutto, dal soggetto – anzitutto quell’ingombrante Io. E diventa impersonalità, traccia collettiva, espressione-alveare. Come recita 26 Ottobre, «Oggi niente da dire: / Prosegue inalterata / La furia del presente, / E il reale, ta le sue spire, / Non cessa di non scrivere / Lo strazio del vivente” (p. 15). La poesia non è un lusso, come vuole il testo di Audre Lorde. È piuttosto necessità, scriveva l’autrice, di scrivere qualcosa che non potrebbe altrimenti essere scritto. Di chiamare qualcosa che non ha nome, di dare corpo a chi ancora non è codificato in umano viso.
E di lasciare che la cosa risponda, in qualche modo da sé, o fra sé e sé, o a me che scrivo – è lo stesso. La possibilità di essere una tartaruga, o di essere albero come essereerba, come essere ritornello? Forse. La poesia è un’estetica, nel senso che questa parola può assumere in Kant, Foucault o Rancière: l’insieme delle condizioni di possibilità dell’apparire, del venire a essere. In cui (31 Ottobre) «non è questione di chi osserva / E di chi è osservato, o cosa, / piuttosto di cangianti rapporti, / In cui nessuno mai si conserva» (p. 16). La poesia conserva ciò che nella prosa andrebbe smarrito: non è un lusso, ma è forse un lutto, nella misura in cui consente di abitare quello spazio in cui accade il trapasso. Di rimanere accanto, alla vita che passa.
19 dicembre
Verrà infine il giorno
(Quello che troppi e tanti
Sanno già dai primi istanti)
Col suo punto di non ritorno.
Verrà quel giorno coi suoi occhi,
Le sue squame e le sue antenne,
In tempesta o in leggera brezza:
Dove spira la salvezza?
Tra le spire del serpente?
Sulla pelle dei ranocchi?
In copertina un fotogramma dal film Alberi di Michelangelo Frammartino
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