MONDO
«Il nostro è un territorio occupato». Decolonizzazione e diritti umani nel Sahara Occidentale
Intervista con CODESA, il collettivo saharawi attivo nei territori occupati dal Marocco. Sotto un assedio ancor più duro dopo la fine del cessate il fuoco che durava da quasi trenta anni, tra violazioni dei diritti umani e lotta contro l’imperialismo
A metà novembre è stato rotto il cessate il fuoco in vigore da quasi trent’anni tra Marocco e Fronte Polisario, riaprendo un conflitto silente da molto tempo ma mai risolto. Neanche un mese dopo, la normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Regno marocchino e Israele, sotto l’egida degli Stati Uniti che nel contesto riconoscono la sovranità del Marocco sul Sahara Occidentale, ha complicato la situazione geopolitica della zona.
Nel frattempo, la guerra va avanti. Tutto questo ha naturalmente un impatto sul popolo saharawi, che vive diviso tra diaspora, tendopoli nel deserto algerino, zone liberate del Sahara Occidentale e territori occupati dal Marocco.
Abbiamo raggiunto via Zoom il presidente e il responsabile delle relazioni esterne, Babuzaid Mohamed Said e Mahjoub Mleiha, di Codesa (Collettivo dei saharawi difensori dei diritti umani), un’organizzazione che lavora nei territori occupati sul monitoraggio dei diritti umani e per tutelare principi fondamentali quali il diritto a manifestare, diffondendo coscienza e consapevolezza nella popolazione. «Noi consideriamo il Sahara Occidentale un territorio occupato, così come lo riconosce l’ONU che lo elenca nella lista dei territori ancora in attesa di avere indipendenza, che aspetta che si completi il processo di decolonizzazione».
Tre questioni sembrano molto importanti: l’attenzione sul processo di decolonizzazione che non si è ancora compiuto; l’assedio che vive quotidianamente la popolazione saharawi nei territori occupati e i problemi quotidiani di quelli formalmente liberi ma che vivono nel deserto; e infine come Codesa intenda il proprio lavoro all’interno delle lotte antimperialiste.
In queste settimane di guerra, come è cambiata la vita dei Saharawi residenti nei territori occupati e che lavoro viene fatto per monitorare la situazione?
Intanto va detto che siamo effettivamente in guerra, il cessate il fuoco è il passato. La proclamazione di Trump ha dato solo più possibilità al Marocco di continuare con i suoi crimini contro l’umanità.
Come Codesa abbiamo lanciato il comitato speciale per la protezione dei civili saharawi, che ha già prodotto quattro report, da cui emerge che la situazione è preoccupante: rapimenti, arresti arbitrari (anche di minori e giornalisti), torture, uccisioni a sangue freddo.
Viene poi impedito ai media di raccontare la situazione sul campo, e se lo fanno diventano obiettivo dell’occupante marocchino – venendo anche arrestati, come è successo ai responsabili di Equipe Media.
Al momento, nessun saharawi può esprimersi su quello che sta succedendo senza rischiare conseguenze.
Anche noi di Codesa siamo sotto attacco, alcuni nostri membri sono stati licenziati dai loro posti di lavoro senza ragione, o hanno addirittura visto bloccarsi i propri conti correnti, la polizia ha attaccato con le pietre le abitazioni di alcuni e abbiamo due casi di arresti all’interno del comitato amministrativo della nostra organizzazione.
Come difensori dei diritti umani siamo il primo obiettivo, operiamo in una situazione difficile e pericolosa. Inoltre dalla fine del cessate il fuoco i prigionieri politici nelle carceri marocchine soffrono ancor di più per l’aumento di violenze e abusi.
Storicamente la solidarietà internazionale e internazionalista è stata una delle armi in mano ai popoli in lotta. che tipo di forme prende questa solidarietà ora? È ancora importante?
Abbiamo sempre contato sulla solidarietà internazionale, in particolare dei paesi progressisti e delle nazioni che hanno sempre appoggiato la nostra lotta come Venezuela, Sud Africa, Algeria e la Libia (in passato) che ci hanno supportato dall’inizio e durante l’occupazione.
Non dobbiamo affrontare solo l’occupazione del Marocco infatti, ma anche il supporto imperialista che questo riceve, in particolare da Francia e Stati Uniti. Alla loro repressione, fatta di rapimenti, blocchi, imprigionamenti, torture, abbiamo sempre opposto la ricerca della pace.
Il silenzio mediatico che hanno imposto rende poi difficile comunicare quello che succede nei territori.
Dobbiamo quindi inserire la questione saharawi nel suo contesto storico: è una questione di decolonizzazione mancata. Come riconosciuto anche dalla Corte di Giustizia internazionale infatti non ci sono legami storici tra Marocco e Sahara Occidentale, ma anche altre decisioni come quella della Corte di Giustizia Europea che riconosce la validità degli accordi sulla pesca tra UE e Marocco purché questi non siano applicabili nel Sahara Occidentale, così come è stato in passato per quanto riguarda il Sudafrica.
Le base legali insomma considerano il Sahara Occidentale come un territorio occupato. La decisione di Trump va quindi decisamente contro queste base.
Come lo scoppio della guerra cambia la geopolitica della regione e cosa può fare l’attivismo dal basso per influenzare i governi?
Il caso del Sahara Occidentale rimane un caso di decolonizzazione secondo il diritto internazionale e non può essere trattato fuori da questa cornice. Lo scambio di Trump ha avuto l’effetto di mettere saharawi e palestinesi nella stessa lotta. Quello che ci aspettiamo dai movimenti progressisti è di considerare il Sahara Occidentale come una delle priorità, come un fronte aperto nella lotta contro l’imperialismo. Palestina e Sahara Occidentale sono il fronte nella battaglia tra progressisti e imperialismo e dovremmo prendere molto seriamente la difesa di entrambi i casi.
Che cosa possiamo fare quindi dall’Europa per supportare la vostra lotta?
Il nostro è un territorio sotto assedio. Come sapete c’è un muro che ci separa in due parti. Quelli sotto occupazione soffrono la repressione e violenza. Gli altri anche se sono liberi vivono in condizioni difficili, tra clima arido e mancanza di cibo e strumenti per una vita normale.
Siamo completamente bloccati, gli osservatori internazionali non possono entrare, ogni tanto riusciamo a far entrare degli osservatori europei ma non spesso e solo dopo anni di preparazione.
Le forze dell’ordine marocchine sono ovunque.
Per quanto riguarda quello che chiediamo ai movimenti progressisti nel mondo è di unire le forze e lottare insieme contro l’imperialismo. Noi siamo tra coloro che sono in prima linea nella battaglia contro l’imperialismo e abbiamo la necessità di lottare insieme.
Inoltre chiediamo maggiore attenzione nei confronti della causa saharawi, così come della questione palestinese. Abbiamo bisogno di una maggiore copertura mediatica e sensibilizzazione dell’opinione pubblica europea.
Ci sono anche questioni economiche in ballo giusto?
Sì. Un’altra questione fondamentale è proprio quella relativa allo sfruttamento delle risorse naturali del Sahara Occidentale e gli accordi commerciali tra Unione Europea e Marocco che includono illegalmente i territori occupati del Sahara Occidentale ricchi di fosfati, nonché di ampie risorse per la pesca e le energie rinnovabili.
In tal senso bisognerebbe fare pressione a livello europeo affinché vengano rispettate le sentenze della corte di giustizia europea che hanno stabilito che il Marocco e il Sahara Occidentale sono due territori separati e che il Marocco non ha alcuna sovranità nella nostra regione.
Il trattato sulla pesca e sul libero commercio cerca di raggirare tali aspetti, includendo il Sahara Occidentale.
Per quanto riguarda il Codesa noi operiamo con mezzi scarsi perché il nostro essere impegnati contro le forze imperialiste ci ha impedito di ottenere fondi e finanziamenti. In tal senso qualsiasi tipo di aiuto per far sì che riusciamo a portare avanti il nostro lavoro è importante per noi.
Foto di Martine Perret (United Nations Photo) da Flickr