MONDO

Nos están matando: sulla violenza in Colombia dopo la vittoria dell’ultradestra

Scriviamo con dolore e rabbia, due emozioni che si mischiano senza riuscire a dire quale sia più forte. La violenza in Colombia non ha mai cessato di esistere: nei quartieri, nelle campagne, nelle città… la morte come atto quotidiano, che ormai ci sembra una normalità. Paramilitari, guerriglia, stato, bande criminali, narcotraffico. Le vittime sono sempre le stesse: persone comuni, contadini, giovani.

…la saggezza è l’arte di svelare, aldilà del dolore, la speranza.
Subcomandante Marcos

I nostri sogni di pace (trasformati in incubi)

Dopo un processo di accordi di pace tra il governo colombiano e le FARC (2012-2016), per gran parte della popolazione arrivò la speranza: la guerriglia più antica del continente consegnerà le armi e si integrerà nella vita civile. La fine della guerra sarebbe arrivata e dicemmo a Mauricio Babilonia che poteva lasciare andare le sue farfalle gialle [citazione da Macondo, n.d.t.] Però, il 2 ottobre del 2016 il governo di Juan Manuel Santos convocò un referendum per fare approvare gli accordi dalla popolazione e vinse il NO.

 

Fu uno dei giorni più tristi della nostra vita: un dolore comune percorreva nei nostri corpi e le lacrime scendevano senza fermarsi. Perché abbiamo detto di no alla pace?

 

La violenza politica in Colombia è funzionale a una forma di accumulazione che, nel caso colombiano, è orientata alla concentrazione della ricchezza nelle mani delle élite latifondiste regionali, le industrie urbane e, a partire degli anni ‘70, le classi che si sono arricchite con il narcotraffico. A partire da qui, le élite hanno costruito un discorso egemonico che permea tutta la popolazione e abbiamo tristemente naturalizzato la guerra e la dominazione.

E così, nella quotidianità delle persone è calato un discorso guerrafondaio che non ci permette di vedere cosa c’è dietro questa guerra inarrestabile e che scaccia aggressivamente qualsiasi tipo di approccio diverso o alternativo. Le persone che alzano la voce e costruiscono momenti di trasformazione vengono segnalate e uccise. Il passaggio delle nostre vite è attraversato dall’accettazione della morte: l’annientamento dei malvagi,quei «maledetti guerriglieri che tanto hanno fatto male alla Colombia».

Dall’inizio degli accordi di pace questa narrativa si è annidata nei discorsi della gente senza un ragionamento teorico né un’analisi del contesto nazionale o internazionale; ci si appella alla crisi venezuelana, si distorce la realtà cubana (“castrochavismo”), si rigetta ogni prospettiva di genere e – dietro uno sguardo misogino, omofobico, transfobico – si accusa “l’ideologia del genere”, persiste il terrore del comunismo e del socialismo, tra le altre cose.

 

Queste idee che si ripetono finiscono per formare l’opinione pubblica prendendo le redini d’un paese in preda alla disinformazione.

 

La conseguenza è che l’ultradestra colombiana – che ha fatto di tutto per respingere gli accordi di pace – ottenne la modifica degli accordi rispetto alla partecipazione politica di chi consegnava le armi, all’approccio di genere (specialmente in relazione con la vulnerabilità delle diversità), alla “Giurisdizione Speciale per la Pace” [atto legislativo di Giustizia Transitiva, n.d.t.] (che è stata abrogata questi ultimi giorni da Álvaro Uribe al congresso), tra i vari cambiamenti nefasti.

 

Dal NO alla pace fino al trionfo elettorale della ultradestra in caduta libera

Questa dottrina reazionaria si è consolidata durante le elezioni presidenziali per il 2018-2022. Insieme al «bisognava finirla con quest’accordo di pace per fare in modo che la guerriglia paghi per tutto il male che ha fatto», segue un discorso permeato dall’idea che nelle urne bisogna cercare un patriarca che faccia realmente finire la violenza. Finalmente, per ottenere il trionfo si aggiunsero il potere economico e la compravendita di voti, le minacce dei gruppi paramilitari e la macchina politica di ÁlvaroUribe e del suo partito Centro Democratico, i quali hanno scelto un candidato che nessuno conosceva fino a sei mesi prima delle elezioni e che si è presentato dicendo «io voto quello che mi dice Uribe».

 

Così ha vinto in Colombia un discorso violento, guerrafondaio e paramilitare, che condanna le differenze a una morte reale e simbolica.

 

Un paese che, nel mondo, è al terzo posto per disuguaglianze sociali, dove i bambini e le bambine muoiono di fame, ogni 100 colombiani 56 non finiscono l’educazione secondaria, che conta più desaparecidos di quelli che ci furono durante le dittature nel Cono Sud e che è in testa alla lista dei paesi con più rifugiati interni [tra il 1985 e il 2018 all’incirca 7,8 milioni di persone hanno dovuto abbandonare il loro luogo di residenza per spostarsi in altre zone del paese. [Fonti: Governo colombiano].

In Colombia la violenza e la povertà fanno parte della realtà di tutti i giorni e chi le denuncia, si organizza e avanza proposte, soffre lo stigma, gli omicidi, lo spostamento forzoso e le persecuzioni giudiziarie. Secondo Indepaz (Istituto di Studi per lo Sviluppo e la Pace) dall’inizio dell’anno al 5 luglio, 123 leader sociali e/o difensori/e dei Diritti Umani sono stati/e assassinati/e e, dopo il secondo turno delle elezioni presidenziali (vinte del candidato di estrema destra Iván Duque Márquez) c’è stato un allarmante aumento di questi crimini. Quest’anno stiamo assistendo all’acutizzarsi d’una situazione che dal 2016 continua a mietere vittime, ormai sono 262 i leader sociali assassinati.

 

Oggi piangiamo donne e uomini coraggiose/i, che denunciano le ingiustizie, le precarietà delle condizioni di vita e i disastri ambientali, che fanno inchieste e proposte, che si espongono a partire da posizioni sociali e politiche non guerrafondaie e che agiscono e prendono parola per difendere i territori e la vita, esigendo il rispetto dei diritti umani.

 

L’80,48% di queste vittime faceva parte di organizzazioni contadine, Giunte di Azione Comunali e altre organizzazioni etniche. L’altro 13% aveva a che fare con patti di sostituzione e sradicamento forzato di piantagioni di coca. L’83,19% degli omicidi è connesso con conflitti per la terra, per il territorio o risorse naturali.

Specificatamente il 34,14% delle vittime faceva parte delle organizzazioni nazionali che formano il Vertice Agrario, Contadino, Etnico e Popolare (ONIC 18, Marcha Patriottica 17, PCN 3, Congresso dei Popoli 2 e “Fiumi Vivi” 2) e della Confederazione Comunale Colombiana 16. I dipartimenti più toccati dagli assassinati sono quelli dove esistono piani integrali dell’Accordo di Pace, come i PDET (Programmi di sviluppo con approccio territoriale) e le ZOMAC (Zone maggiormente colpite dal conflitto armato) – Cauca (19), Antioquia (18) e Norte de Santander (11), Valle del Cauca (11), Córdoba (9) e Nariño (8). Sono zone con alti livelli di povertà, dove le istituzioni sono fragili e la presenza di gruppi armati illegali è forte; in queste regioni si è provato a sviluppare piani per sostituire le piantagioni di coca e lo sfruttamento minerario (soprattutto oro).

I gruppi armati presenti in questi territori sono i paramilitari (come il Clan del Golfo), i dissidenti delle FARC [nuclei delle FARC che non hanno partecipato agli accordi di pace,n.d.t.], l’ELN [altro gruppo guerrigliero,n.d.t.], le organizzazioni criminali di tipo C (che prestano i loro servizi al migliore offerente e hanno una incidenza locale) e altri attori particolari. Molti di questi posti furono abbandonati dalle FARC dopo la smobilitazione e i nuovi gruppi si contendono il potere e le rendite. In questo contesto di povertà e di bassa presenza istituzionale cominciano ad affacciarsi,approfittando di questa opportunità, i cartelli messicani della droga e l’estrattivismo minerario illegale.

 

Chi ha detto che ormai tutto è perduto?

Anche se l’estrema destra colombiana, incarnata da Álvaro Uribe Vélez e dal suo partito il Centro Democratico,è al potere dal 2002 (anche se nel 2014 è andata all’opposizione visto che il suo vecchio alleato Juan Manuel Santos decise di portare avanti i negoziati con le FARC) e a discapito della vittoria del NO al referendum, da quando sono iniziati i dialoghi di pace una percentuale importante della popolazione ha cominciato a rifiutare la guerra e il suo discorso violento e stigmatizzante.

 

Così nel secondo turno delle scorse elezioni presidenziali il candidato di sinistra Gustavo Petro Urrego ha ottenuto più di 8 milioni di voti, quasi quadruplicando il miglior risultato della storia della sinistra colombiana.

 

L’ex-sindaco di Bogotá, con l’appoggio di organizzazioni sociali, indigene, contadine e afro-discendenti e portando avanti una campagna inedita, riuscì a convincere con il suo programma di governo vasti settori popolari e della classe media ma ha anche raccolto i voti di chi rifiuta la criminalità dell’estrema destra e la retorica della guerra.

 

In questo contesto avverso e doloroso ci restano la speranza, la resistenza e la nostra voce per dire #NiUnMinutoDeSilencio

 

#NosEstánMatando. Venerdì 6 luglio, in migliaia, colombiane e colombiani amanti della vita in tutte le sue forme, della pace e della diversità, abbiamo partecipato a fiaccolate nelle piazze del paese e di tutto il mondo per dare visibilità e per rifiutare la grave situazione umanitaria che si sta nuovamente acutizzando in Colombia.

Denunciamo il nuovo governo che vuole stracciare gli accordi di pace, che rimane zitto di fronte alla morte dei leader sociali e che ha forti legami con i paramilitari. Li denunciamo e li riteniamo responsabili di questa situazione. Ci dichiariamo attenti, impegnati e non accetteremo l’annientamento dei e delle leader sociali in Colombia. NO PASARÁN.

 

Articolo pubblicato sulla rivista femminista, anticapitalista e anticoloniale Revista Amazonas. Traduzione a cura di DINAMOpress.