approfondimenti
ITALIA
Non temere il proprio tempo
Una settimana fa ci ha lasciati Benedetto Vecchi: compagno, giornalista del manifesto, soprattutto grande amico. Da lui abbiamo imparato, con lui abbiamo provato a far cadere il cielo sulla terra. Seguendo le sue tracce, la ricerca continua. Per lui, per noi.
Una nuova percezione del presente
Gli anni Novanta si aprono con il movimento studentesco della Pantera. Anticipazione della grande frana politica che, in Italia, porterà alla fine della Prima Repubblica. Le università occupate per mesi, nella penisola tutta, fanno uso antagonista del fax. Ma soprattutto, nella critica della riforma ideata dal Ministro Ruberti, cominciano a nominare l’epoca nuova. Quale il tratto caratteristico di quest’ultima? Un modo di produzione fondato sul linguaggio, le relazioni sociali, gli affetti. Proprio allora, nella gremite assemblee della Sapienza, si verificava un’intuizione marxiana rimessa all’ordine del giorno dal pensiero operaista e dai movimenti autonomi degli anni Settanta. Se il movimento del Settantasette aveva anticipato la fine del fordismo e del lavoro stabile, con l’irruzione nella scena degli hopeful monsters o “intellettualità di massa”, studentesse e studenti della Pantera, dopo il deserto patinato degli anni Ottanta, confermano: la riforma dell’università pubblica ha come obiettivo principale quello di funzionalizzare la formazione al mercato del lavoro, avviando la produzione del “soggetto flessibile” che è, oramai, perno della contemporanea valorizzazione del capitale.
Benedetto era lì, in quelle assemblee. Ed era nella discussione collettiva che, potente come poche, anima la ripresa del pensiero critico in Italia e in Europa. Traccia ne sono state e ne sono le riviste che Benedetto, assieme a molti altri, contribuì a fondare e a fare. “Luogo comune” e “Derive Approdi”, quelle decisive. Nelle loro pagine ancora attuali, Das Kapital viene descritto a partire da alcune sostanziali discontinuità, con Marx e oltre: il general intellect – non tanto e non solo conoscenze, codici e informazioni, ma generiche facoltà intellettuali, linguaggio, memoria, attenzione, ecc. – «forza produttiva immediata»; il lavoro vivo – attraverso la Rete informatica – vero capitale fisso; «l’individuo sociale pilastro della produzione e della ricchezza»; l’irreversibile crisi della legge del valore-lavoro; coincidenza tra tempo di vita e tempo di lavoro, tra produzione e riproduzione. Una costellazione di idee che, tra Roma e Parigi, ha afferrato il tempo con il pensiero. Diventando feconda risorsa del conflitto sociale e politico.
Ed è questo il punto. Con la costellazione Benedetto apriva spazi nel manifesto, il giornale di una vita. E dialogava con i centri sociali che, dal 10 settembre 1994 – le decine di migliaia che si battono per la riconquista del Leoncavallo – alla Carta di Milano, fino alle Tute bianche, rinnovano radicalmente la prassi antagonista. Sono gli anni dell’affondo neoliberale: dalle pensioni al mercato del lavoro, dalla sanità all’università, riforma dopo riforma muta la costituzione materiale del Bel Paese. Eccedenza del sapere sociale, miseria del lavoro precario: questa, invece, la coppia che orienta dibattiti ed esperimenti organizzativi, lotte e inchieste. A Roma, alla fine degli anni Novanta, tutto ciò diventa la libera università del Rialto occupato (dalle Tute bianche), il documento – brillante come pochi – che propone la fondazione delle camere del lavoro e del non lavoro (Che te lo dico a fare?), al fianco di “Derive Approdi” la rivista “Posse”. Tra successi e battute d’arresto, scazzi – sempre inevitabili, quasi mai utili – e variazioni sul tema, un arcipelago prende forma. Noi che scriviamo, allora, nel 1999 (anno dell’insorgenza di Seattle), ci incontriamo per la prima volta: conoscendo Benedetto e il suo fraterno amico Marco Bascetta, Paolo Virno e Augusto Illuminati, Ilaria Bussoni e Sergio Bianchi, Toni Negri e Judith Revel, Bifo e Nanni Balestrini, Franco Piperno e Christian Marazzi, Sandro Mezzadra e Michael Hardt, Papi Bronzini e Michele Surdi. Generazione di mezzo, Benedetto nel mezzo tesseva. E con la rivolta genovese del 2001, per quel che ci riguarda e per tutti, l’arcipelago cresce a dismisura; tanti, davvero tanti, i nomi che andrebbero ricordati…
Negli atelier della produzione del futuro
Nell’autunno del 2017, abbiamo chiesto a Benedetto di intervenire in un convegno, a Esc of course, dal titolo Interregno: a partire dalla oramai abusata formula gramsciana, volevamo discutere della sparizione del futuro nel dibattito politico e teorico. Benedetto, prendendo la parola, con la solita gentilezza ci correggeva ricordando che il futuro, in realtà, non è affatto scomparso, piuttosto ci è stato espropriato. Questa – lasciava intendere – la mossa del cavallo con la quale il neoliberalismo ha condotto la propria controrivoluzione, imponendosi sul grande ciclo di lotte degli anni Sessanta e Settanta: la “rivoluzione al contrario” ha metabolizzato il diffuso desiderio di libertà e autonomia, costringendolo nell’antropologia del nuovo “individuo proprietario”. A quella constatazione non aveva però fatto seguire alcun tono cupo o rassegnato – il capitale non è in ogni caso riuscito a richiudere il cerchio –, aggiungendo subito che, anche nei confronti del “futuro”, occorre far valere il vecchio adagio marxiano: «espropriare gli espropriatori».
Se volessimo trovare un segno dominante e inconfondibile nella lunga ed eterogenea traiettoria intellettuale di Benedetto Vecchi, questa andrebbe rinvenuta nella sua singolare capacità di arrivare, per primo, negli atelier dove si produce il futuro; e di vedervi, all’interno, l’irriducibile e sempre aperta dicotomia/frattura del desiderio e del comando. Era stato il pensiero operaista ad avergli insegnato a scorgere, dietro l’innovazione tecnologica e sociale, il «doppio carattere della forza-lavoro»: a un tempo merce e soggettività, miseria assoluta e possibilità di ogni ricchezza. Ed era stato proprio questo insegnamento che gli aveva permesso di tenersi a distanza di sicurezza dalle scorciatoie che hanno segnato, fin dall’inizio, le analisi del fenomeno Internet. Di Benedetto non possiamo dimenticare la caparbietà con la quale rigettava tanto le “utopie” quanto le “distopie” della Rete: che si trattasse di denunciare l’ingenuità dei postmoderni – che vedevano nella forma-rete un antidoto vivente alle gerarchie – o che si trattasse, di converso, di rifiutare le mode ultime secondo le quali l’universo delle piattaforme digitali è una vera e propria sorveglianza totalitaria, in entrambi i casi il suo piglio polemico era ostinato e instancabile. Per le stesse ragioni, mentre conferiva massima importanza alle esperienze della cooperazione sociale non mercantile e dell’autogestione, nutriva una radicale diffidenza nei confronti di chi riteneva che, alla loro moltiplicazione e diffusione, dovesse corrispondere una sorta di automatica esautorazione del capitalismo. Così, mentre riponeva una passione estrema nella scoperta delle innovazioni nel campo tecno-scientifico, rifiutava risolutamente qualsiasi determinismo tecnologico.
La Rete, per Benedetto, non era affatto un territorio separato dell’agire sociale, quanto il laboratorio più avanzato nel quale il capitalismo sperimenta inediti rapporti di produzione e di sfruttamento. Questa proprietà anticipatrice e potenzialmente egemonica della forma-Rete rispetto alla natura del capitalismo contemporaneo, non derivava, secondo Ben, dalla semplice superiorità tecnologica, quanto dal fatto che la Rete e le piattaforme digitali esprimono al massimo livello la cattura della cooperazione sociale e l’assoggettamento del lavoro vivo che caratterizza, in generale, il modo di produzione capitalistico. Questa interpretazione gli consentiva di vedere, nelle forme mutanti e più innovative dell’organizzazione dello sfruttamento, quella costitutiva ambivalenza che definisce lo spazio di azione per qualsiasi pensiero rivoluzionario degno di nota.
«Ambivalenza delle forme di vita contemporanee»: acquisizione teorica decisiva alla quale Benedetto era giunto assieme a tante e tanti, e alle riviste, prima ricordati. Lo stesso termine fu la lente attraverso cui, nelle pagine culturali del manifesto da lui straordinariamente dirette, ha passato in rassegna e criticato le opere dei più rilevanti esponenti della sociologia contemporanea: Mike Davis, Saskia Sassen, Robert Castel, Ulrich Beck, Zygmunt Bauman, Richard Sennett, Manuel Castells, solo per citarne alcuni. Analizzate a partire dallo spazio della metropoli o da quello (virtuale) della Rete, le forme di vita contemporanee – anche quelle più spaventose – sono sempre il segno vivente di una lotta, di un rovesciamento mai pacificato; esprimono dentro la «miseria del presente» anche tutta la «ricchezza del possibile» – Ben amava ripetere spesso la bella formula di André Gorz.
Il prisma dell’ambivalenza consentiva di non confinare la diagnosi nella ciclotimia umorale del pensiero radicale à la page, e, al contempo, di forzare la riflessione sull’organizzazione politica: ciò che, in ultima istanza, può decidere dell’infinita apertura del reale, come della costitutiva ambivalenza delle forme di vita, è proprio il “Politico”. Negli ultimi tempi, Benedetto aveva riposto una certa insistenza sul tema. Per sollecitarci in questa direzione aveva addirittura cominciato a usare la “P” maiuscola. Che questo Politico non avesse alcuna familiarità con la sinistra, è quasi un’ovvietà. Benedetto, “ragazzo del Settantasette” e comunista eretico, sapeva che le basi sulle quali la sinistra ha pensato la politica – il “lavoro salariato” e lo “Stato” – sono maledizioni contro cui lottare senza alcuna gentilezza. Per questo riteneva che non vi è scorciatoia a una radicale reinvenzione del Politico a partire dai molti, dalla moltitudine; ovvero organizzazione del lavoro vivo e creazione di una sfera pubblica non statale.
Alla ricerca, ancora
Benedetto era un compagno di Esc. Non perché partecipasse alle assemblee politiche e di gestione dello spazio. Intendiamoci: con noi fin dal primo giorno di occupazione, a organizzare dibattiti e seminari. Così Paolo, Marco, Augusto e tante e tanti altri. Benedetto, più precisamente, ha contribuito a definire la costellazioni di idee, e anche di ipotesi politiche, che con Esc in questi lunghi 15 anni abbiamo messo alla prova.
Non stupisce, allora, che la fondazione della Libera Università Metropolitana, con i suoi seminari annuali, si combini con la ripresa dei movimenti studenteschi alla Sapienza e in tutta Italia, dal 2005 e fino al 2010. Non stupisce che la LUM intrecci da subito la sua ricerca con quella di UniNomade, con Toni e Sandro che svolgono, in questo senso, una funzione decisiva. Non stupisce che la LUM sia occasione di incontro, convergenza e cooperazione con giovani militanti e militanti di un tempo, femministe di tutto il mondo, filosofi sociologi e giuristi ostili agli steccati disciplinari, artisti e battitori liberi, pazzi, editori indipendenti e hacker, inventori di giochi ed eruditi di ogni risma.
Benedetto ci manca e ci mancherà. Tanto, troppo. Non c’è altro modo per combattere la tristezza infinita, nostra quanto di chi lo ha amato, in primo luogo Laura e Marianna, che continuare la sua ricerca. Subito con una giornata di studi – polifonica come a lui, e a noi, sempre è piaciuto fare – che sul capitalismo delle piattaforme, la Rete con le sue trasformazioni ultime, l’inedita estrazione del valore che impoverisce senza posa la società, concentri gli sforzi migliori. Provando a rispondere, però, al rompicapo che fino alla fine ha sollecitato Ben, e che poco fa rimarcavamo: quale organizzazione politica all’altezza del nuovo modo di produzione? Non basteranno le parole, per rispondere; serviranno come sempre i fatti. Ma l’immaginazione collettiva, l’utopia, il desiderio del nuovo: tra fatti e concetti, sono la trama che dobbiamo rimettere quanto prima in movimento. Per Ben, per noi.
E adesso?
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