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Non sono la stupida bionda di nessuno

La notte tra il 4 e il 5 agosto di sessanta anni fa terminava, a soli 36 anni, la vita terrena di Marilyn Monroe: il suo mito è invece a tutt’oggi vivissimo. Proprio perché senza tempo, la mitologia costruita intorno alla sua figura viene continuamente riplasmata dalle epoche che – indenne – attraversa: ma è necessario chiedersi se la visione di una Marilyn tutta contemporanea non sia meno superficiale e svilente di quella della «stupida bionda» in voga negli anni ’50

Just because I’m blonde
Don’t think I’m dumb
Cause this dumb blonde ain’t nobody’s fool

(Dolly Parton, Dumb blonde, 1967)

L’anno scorso, a un tratto, ho avuta chiara la consapevolezza di essere ormai più “grande” di quanto Marilyn Monroe sia mai potuta diventare. Si trattava di appena qualche mese, ma la sensazione era davvero strana per un’adulta che era stata una bambina, e poi una ragazza, e poi una (ancora giovane) donna cresciuta con un’ossessione per il personaggio di Monroe. Un’ossessione iniziata, a mia memoria, da che ho iniziato a leggere: quel personaggio di bionda sensuale e – nelle biografie che leggevo – infelice ha iniziato a intrigarmi trent’anni fa e ricordo chiaramente il mio desiderio infantile di riscriverne la storia “dalla sua parte” e gli appunti sulla sua vita nei miei quaderni e diari delle elementari. Allora, non avevo gli strumenti per capire che aveva partecipato attivamente al milieu culturale e politico della sua epoca, che aveva simpatizzato per gli ideali comunisti e per la rivoluzione cubana e si era fatta negli anni sempre più politicamente radicale (del resto, non sapevo neanche che io stessa mi sarei politicamente collocata dalla stessa parte), che era stata una lettrice vorace e intellettualmente curiosa: eppure, avvertivo istintivamente che l’immagine di dumb blonde, di bionda stupida, con cui era stato veicolato il suo personaggio fosse troppo stretta.

Erano, del resto, i primi anni ’90: la feminist film theory non aveva ancora investito l’interpretazione dei film dei quali era stata protagonista e, almeno per quanto mi era dato sapere, non avevano attecchito molto neanche le riflessioni della femminista statunitense Gloria Steinem, figura di primo piano dell’attivismo degli anni ’60 e ’70, fondatrice della rivista Ms. e autrice nel 1986 di un articolo su Monroe intitolato The woman who died too soon (La donna che morì troppo presto) e, poi, di una bella biografia intitolata Marilyn/Norma Jeani (1988). Anche Steinem aveva voluto scrivere mettendosi dalla sua parte, ma venticinque anni fa io mi imbattevo solo in volumi che riproponevano la concezione secondo cui, per dirla con le parole di Marilyn stessa, «se ti capita di avere i capelli biondi, sei considerata stupida. Io non so perché accada. Penso che sia una concezione molto limitata». O forse, se non stupida, fragile, instabile, ignorante, schiacciata dagli uomini e dalla 20th Century Fox. In Italia, la concezione del suo personaggio era del resto ancora peggiore, anche perché nel doppiaggio, i dialoghi dei suoi film sono stati tradotti in modo da rendere i suoi personaggi ancora più dumb: ad esempio, in Facciamo l’amore, laddove nell’originale inglese la protagonista Amanda studiava per prendere il diploma, nella traduzione italiana deve ancora finire le elementari.

Poiché quello di Monroe è un mito intramontabile, però, da allora di passi avanti se ne sono fatti: come per tutti i personaggi universali, anche la sua figura viene continuamente reinterpretata “con gli occhi di oggi”. Non senza alcune forzature.

Mentre, da un lato, la feminist film theory ha cominciato a occuparsi di alcuni suoi film – ad esempio, evidenziando come Gli uomini preferiscono le bionde sia la storia di un’amicizia e di un sodalizio tra donne –, dall’altro sono fiorite una serie di biografie in cui viene sottolineato il «femminismo involontario» di Monroe: penso principalmente ai volumi di Sarah Churchwell (2004), di Lois Banner (2012), che di lei parla come di una proto-femminista, e di Michelle Morgan (2018), che nel titolo stesso del suo libro la descrive come una unlikely feminist (improbabile femminista). Nessuno dei tre è stato tradotto in italiano, come ancora non tradotta (e neanche sottotitolata) è la docu-serie prodotta e mandata in onda dalla CNN a inizio 2022, Reframed: Marilyn Monroe, che di queste nuove interpretazioni raccoglie tutti gli stimoli e si concentra sull’agency di Monroe.

Vengono così sottolineate la sua forza, la sua intelligenza, la sua indipendenza e la sua continua ribellione alla Fox: il femminismo di Monroe sarebbe direttamente un femminismo della terza ondata – senza passare per la seconda –, il femminismo delle donne che sanno di avere potere attraverso la sessualizzazione del proprio corpo. Riflessioni simili, di recente, sono state argomentate da Sarah Smarsh in un bellissimo volume di storia sociale e culturale su Dolly Parton, un’altra bionda e ipersessualizzata eroina della working class statunitense: una classe sociale le cui donne sanno bene di avere una sola arma a loro disposizione, il corpo appunto.

Questa nuova concezione si fonde a tratti con il perpetuo elogio della vittima del senso comune contemporaneo e ancora si leggono articoli su come la cultura maschilista ha ucciso Marilyn Monroe e su come «in quanto donna, e soprattutto in quanto bella donna, Marilyn fu relegata a essere sempre l’oggetto rappresentato». Una concezione, invero, difficilmente conciliabile con la biografia di Monroe, che fu anzi una self made woman, anche se spesso travolta da forze più grandi di lei: la fragilità derivante da un’infanzia difficile; l’abuso di antidolorifici, barbiturici, sonniferi e anfetamine, spesso mischiati; il dolore provocato dall’endometriosi che la soverchiava ogni mese e che la costrinse a sottoporsi a frequenti interventi chirurgici.

Se è necessario quindi reframe – riformulare, mettere in una nuova cornice – la figura di Monroe, dovremmo chiederci come farlo. Perché se la cultura maschilista impatta sulla vita di chiunque – uomini e donne – e la plasma, forse perpetuare la vittimizzazione di Monroe, come esaltare l’agency di ogni istante della sua vita, potrebbe essere non meno svilente e sovradeterminante dello stereotipo della dumb blonde degli anni ’50 e ’60.

La vita delle persone non è fatta di bianchi o neri, ma di bianchi neri: le semplificazioni, anche se volte a ripulire una rappresentazione stereotipata, sminuente e umiliante, non sono molto utili a fare giustizia. Le lenti, scheggiate, attraverso le quali leggere la figura di Monroe potrebbero e dovrebbero essere quella della complessità e quella del “frammento”, come il titolo – Fragments – di una raccolta di suoi appunti e poesie pubblicata una decina di anni fa.

Alcune fotografie di Bert Stern, giugno-luglio 1962 da flickr

Marilyn Monroe e il rapporto con Hollywood

Se c’è un aspetto nella vita di Monroe in cui la sua agency è evidente è proprio quello relativo alla costruzione della sua carriera: Norma Jean Baker Mortenson – questo il suo vero nome – diventa Marilyn proprio nonostante e controla Fox, la sua casa di produzione, e non grazie a essa. Il suo è un successo che viene dal basso: sono i suoi ammiratori e le sue ammiratrici, il successo dei suoi film, a farla diventare un mito indiscusso della scuderia della Fox, che pure l’aveva inizialmente licenziata perché ritenuta poco fotogenica. La Fox non investe in lei, non crea il suo personaggio: è Monroe stessa che si crea da sola, offrendo un mix di sensualità e fragilità, di malizia e innocenza, di disponibilità e vulnerabilità che costituisce il confine all’interno del quale negli Usa degli anni ‘50 iniziava a essere consentito alludere alla sfera sessuale. Porta all’estremo questo stereotipo di donna, lo tira, lo allarga: e, per questo, lo infrange.

Come riportano in un bel libro di due suoi amici, il fotografo Sam Shaw e il poeta Norman Rosten, lei stessa affermava «che la gente – se io sono una star – la gente ha fatto di me una star. Nessuno studio, nessuna persona singola, ma la gente». Fino all’ultima intervista su Life, pochi giorni prima della sua morte, afferma di amare gli apprezzamenti che le rivolgono i netturbini per strada: è la sua gente, è il suo pubblico.

I bambini, gli anziani e i lavoratori (workingmen) sono gli unici, dice, a trattarla spontaneamente: si tratta delle parole di una donna della working class (quando viene fotografata per la prima volta fa l’operaia in una fabbrica di paracaduti per l’esercito, durante la seconda guerra mondiale), che con essa si sente in sintonia. È questo il pubblico che la “perdona” per aver posato nuda per un calendario, in cambio dei 50 dollari che le servono per riscattare l’automobile dal pignoramento e pagare l’affitto. La classe operaia statunitense conosce bene il valore di 50 dollari quando non si ha di che pagare la cena, come conosce bene il valore dell’automobile, mezzo di indipendenza ed emancipazione per le donne povere: mentre la Fox avrebbe voluto che negasse di essere lei in quelle foto, tornate alla ribalta anni dopo, Monroe – convinta, come disse in più occasioni, di non aver fatto nulla di male – sa che, anche nella pudica America degli anni ’50, con il suo pubblico basta la sincerità.

Dell’ambiente di Hollywood, l’attrice non sopporta, oltre all’ipocrisia, neanche le molestie e le attenzioni non gradite alle quali una ragazza giovane e attraente viene sottoposta all’inizio della sua carriera. Nel gennaio 1953, quando il successo non è ancora arrivato pienamente, su Motion Picture, firma un articolo intitolato Wolves I have known (I lupi che ho conosciuto): non si sente una vittima, esprime disagio, tratta con disprezzo ma anche con ironia le molestie subite (compresa quella di un poliziotto), afferma di aver imparato a gestirle e parla con l’orgoglio dell’astuzia necessaria per far fronte a questi «maschi predatori». Si poteva presagire che non si sarebbe fatta ingabbiare nel ruolo della dumb blonde.

Già nel 1954, dopo i primi successi, rifiuta di fare il film The girl in pink tights, non solo perché Frank Sinatra, il coprotagonista protagonista maschile, avrebbe guadagnato tre volte quello che avrebbe guadagnato lei (1.500 dollari a settimana lei, 5.000 lui), ma soprattutto perché non le è consentito di visionare e approvare preventivamente la sceneggiatura.

Non si presenta il primo giorno di riprese, nonostante le minacce della Fox di sospenderle il contratto e, poi, l’effettiva sospensione. La sua protesa, quasi uno “sciopero” solitario, è vittoriosa: quando finalmente le arriva il copione per la sua pre-approvazione ha la conferma che si tratta di una storia noiosa e sciocca e comunica allo studio che non avrebbe fatto il film.

Dopo il successo, lo stesso anno, di Quando la moglie è in vacanza, con la stessa caparbietà decide di prendere il controllo sul suo destino. Lascia Hollywood, si trasferisce a New York e nel 1955 crea la Marilyn Monroe Production: è la sua dichiarazione di indipendenza. È la seconda donna nella storia statunitense a creare una casa di produzione, la prima a detenerne la maggioranza delle quote (51%). L’obiettivo è quello di avere il pieno controllo sulla sua carriera, scegliendo ruoli, copioni e registi, e di produrre indipendentemente i film che le piacciono: non può smettere di essere Marilyn Monroe, ma vuole dimostrare ciò che Marilyn Monroe può essere. È questo il periodo in cui probabilmente si sente più prigioniera non tanto del personaggio, quanto del successo, tanto che in un appunto personale del 1955 o del 1956 scrive: «Sono M.M. – non mi è permesso: problemi, apprensione, umanità, gaffe, errori e i miei pensieri».

A New York comincia a frequentare le lezioni di recitazione all’Actors Studios di Lee Strasberg, dopo che già dal 1948 le prendeva da Natasha Lytess e poi da Michail Cechov: perfezionista all’inverosimile, vuole diventare un’ottima attrice e non essere un «fenomeno erotico da baraccone» (come disse a Checov), vincendo quell’insicurezza che, in un appunto personale del 1951, le aveva fatto scrivere di avere «paura di farmi dare le battute nuove/ forse non riuscirò a impararle/ forse sbaglierò/ penseranno che non sono brava oppure rideranno o mi criticheranno o penseranno che non so recitare/ Le donne avevano un’espressione severa e critica – ostile e fredda in generale/ paura che il regista pensi che non sono brava. / […] Ho avuto momenti straordinari ma le cose negative sono più pesanti da portarsi dietro e da sentire / non trovo sicurezza/ depressa pazza». Nel corso della sua (tutto sommato breve) carriera vince tre Golden Globe e un David di Donatello: nel 1999 l’American Film Institute l’ha quotata come la sesta migliore attrice di sempre.

I suoi sforzi e la sua battaglia contro la Fox vengono ancora una volta premiati: nel 1957 la Marilyn Monroe Productions rinegozia con la Fox il suo contratto, basandolo sulla non-esclusiva. Le offrono 100.000 dollari per fare altri quattro film in sette anni e ottiene di avere l’approvazione preventiva per ogni progetto, oltre che il diritto di controllo preventivo sulle sceneggiature, sui registi e sui direttori di fotografia. È una vittoria su tutta la linea.

La Marilyn Monroe Production ha una vita breve e produce solo due film: Il principe e la ballerina e, insieme alla Fox, Fermata d’autobus, una delle sue migliori interpretazioni. Ma, alla fine del 1961, Monroe non ha abbandonato i suoi progetti di autonomia e pensa di fondare un’altra casa di produzione, questa volta con l’amico Marlon Brando e con il maestro Lee Strasberg, a Hollywood. Un progetto che non fa in tempo a diventare realtà. 

Ancora nel 1962, fino alla fine dei suoi giorni, Monroe continua ad affermare la sua indipendenza: il 19 maggio vola a New York alla festa di compleanno di John Kennedy mentre la Fox minaccia di licenziarla per le sue assenze dal set di Something’s got to give. E, in effetti, l’8 giugno viene licenziata e il film rimane incompiuto. 

Nelle settimane successiva posa per quelli che sono probabilmente i due suoi servizi fotografici più belli: quello di George Barris e quello di Bert Stern. Ha 36 anni, è appena stata licenziata e ha paura di invecchiare: eppure coi due fotografi si sente a suo agio e decide di posare per il primo in costume e per il secondo nuda, forse per dimostrare alla Fox e al mondo che il suo successo non ha imboccato la parabola discendente. È più magra – e, a mio avviso, più bella – che mai: allegra e spontanea, non ha timore di mostrare rughe, lividi e cicatrici sul corpo e sul viso naturalissimo – nelle foto di Barris quasi struccato – di una donna della sua età. Appare più felice e rilassata di come era sembrata nelle foto di buona parte della sua vita. Oggi parleremmo di body positivity, lei disse a Barris che quelle imperfezioni dimostravano semplicemente che era umana. 

A poche settimane da quelle foto, la notte tra il 4 e il 5 agosto 1962, il suo corpo viene ritrovato senza vita. Di lei e della sua agency, come ultimo atto, rimangono le X arancione, tracciate pare con un rossetto, sulle foto di Stern che non le erano piaciute: la scelta, fino alla fine, rimane la sua.

Foto di George Barris, Wikimedia

Marilyn Monroe, la cultura e la politica

New York non significa solo indipendenza dalla Fox, ma anche luogo in cui affinare la propria cultura e le proprie convinzioni politiche. A New York Monroe – donna ironica e intelligente – è continuamente stimolata: si sente felice e realizzata. 

Per tutta la vita cerca di colmare le lacune lasciate da un’istruzione interrotta dal suo primo matrimonio, all’età di 16 anni. Già nel 1950 inizia a seguire lezioni di storia dell’arte all’università di Los Angeles: i suoi taccuini del 1951 raccolgono appunti sul Rinascimento fiorentino. Arrivata a New York, alla fine del 1954, come prima cosa apre un conto presso una libreria: al momento della sua morte, aveva in casa almeno 430 volumi di vario genere e stava leggendo Il buio oltre la siepe di Harper Lee, il romanzo sull’ingiusta accusa di stupro mossa contro alcuni ragazzini afroamericani. Tra le sue letture più frequenti, le opere e le biografie di Sigmund Freud – che per lei costituiva un vero e proprio punto di riferimento culturale – e le poesie di Rainer Maria Rilke. 

Sono scattate a New York le famose foto mentre legge l’Ulisse di Joyce: durante un servizio, Monroe dice che lo sta leggendo in quel momento e la fotografa, Eve Arnold, le chiede di posare col volume. Del resto, le sue foto di «Marilyn che legge» sono numerosissime: solo quelle con l’Ulisse sono autentiche – nel senso che si tratta dell’unico libro che stava davvero leggendo – ma il fatto che abbia più volte posato – più di ogni altra “diva” – con dei libri o dei giornali dice molto su come abbia voluto costruire il suo personaggio.

A New York, inoltre, comincia a frequentare assiduamente alcune tra le maggiori personalità intellettuali della sua epoca: di alcune diventa una grande amica. A partire dal poeta Norman Rosten, una delle ultime persone che sente telefonicamente la notte dalla sua morte, ma non solo: penso a Truman Capote, Carson McCullers, Carl Sandburg. Incontra in alcune occasioni la poeta Edith Sitwell e Karen Blixen.

Marilyn che legge Joyce. Immagine tratta da Flickr

Queste frequentazioni si riflettono nella produzione poetica di Monroe stessa: parte dei suoi componimenti sono pubblicati nel volume Fragments. Tra le sue frequentazioni, però, probabilmente la sua importante è quella col più famoso drammaturgo statunitense del tempo: Arthur Miller, che nel 1956 diventa il suo terzo marito.

Miller non è solo uno dei più importanti intellettuali statunitensi del tempo, è anche sospettato di essere comunista e – anche se la fase più dura del maccartismo era appena terminata – viene chiamato a chiarire la sua posizione davanti alla HUAC, la Commissione per le attività anti-americane. Monroe, che non è ancora sua moglie, gli sta accanto, silenziosa.

Se, in un’ottica maschilista, si potrebbe pensare che Monroe potesse essere influenzata politicamente da Miller, in realtà la situazione è quasi opposta: nel corso del loro matrimonio, durato poco meno di cinque anni, è lei a farsi sempre più radicale, mentre lui si sposta su posizioni sempre più pacatamente liberal. Del resto, pur senza mai essersi presentata come un’eroina working class, ha ben presente il ricordo della povertà della sua infanzia e della sua adolescenza: i poveri, gli emarginati, gli oppressi sono coloro a cui continua a sentirsi vicina. Il suo collocamento politico non può che essere a sinistra.

In una società dove sono ancora in vigore le Leggi Jim Crow e gli afroamericani sono discriminati sulla scena pubblica, Monroe appoggia le battaglie per i diritti civili. A metà anni ’50, quando le chiedono chi è il suo cantante preferito, risponde che è Ella Fitzgerald, che, aggiunge, «amo come persona tanto quanto come cantante». Nel 1954, chiede al direttore del Mocambo di Hollywood – che non voleva far esibire Fitzgerald non tanto perché nera ma perché come donna nera in sovrappeso non era considerata abbastanza glamour – di farla cantare nel suo locale: in cambio, Monroe va per molte sere di seguito a sentirla dal vivo, assicurando sicure entrate al locale e un successo duraturo a Ella. 

Inizialmente esprime le sue posizioni politiche attraverso lo stereotipo della dumb blonde: a una svampita è concesso di dire di più di quanto sarebbe concesso a qualsiasi altra persona, nella fase più dura dello scontro tra Usa e Urss. Così a chi le chiede cosa pensi dei comunisti risponde “innocentemente” «Sono a favore del popolo, non è vero

E quando, nel 1950 le fanno notare che non è il caso di farsi vedere in giro mentre legge l’autobiografia del giornalista d’inchiesta statunitense Lincoln Steffens – che dopo un viaggio in Urss nel 1919 era rimasto affascinato da Lenin, prima di appassionarsi a Mussolini negli anni ’30 – finge di non comprendere cosa ci sarebbe di male a passare per “radicale” o per “comunista”, perché – dice – lei sui giornali legge solo quello che le interessa. Quest’ultimo aneddoto è raccontato anche nella sua supposta autobiografia My story, parzialmente pubblicata già nel 1954 e sulla cui autenticità permangono molti dubbi.

Dal 1955, quando chiede un visto per un viaggio (mai fatto) in Russia, viene sorvegliata dall’FBI – i rapporti su di lei sono oggi in parte consultabili online – e nel 1959 è tra gli invitati al ricevimento in onore di Nikita Kruscev, in viaggio negli Usa: «Un pomeriggio molto interessante», così commenta l’evento scegliendo ancora una volta consapevolmente di mostrarsi come una svampita, probabilmente per lo stesso motivo per cui Miller aveva scelto di non partecipare con la moglie. Eppure, al momento della sua morte, tra i suoi libri c’era The roots of American Communism di Theodore Draper, messo in mostra a Roma nel 2017 nell’esibizione Imperdibile Marilyn. Donna, mito, manager. E, poco prima di morire, nei primi mesi del 1962, effettua un viaggio in Messico, dove frequenta Frederick Vanderbilt Field, comunista statunitense autoesiliatosi a causa delle sue idee, e la sua cerchia.

Ma, al di là delle frequentazioni, ha sempre meno remore a esporsi pubblicamente. Nel 1960 aderisce con Miller al SANE, il Committee for a Sane Nuclear Policy che si propone di far pressione sul governo statunitense per mettere al bando gli esperimenti nucleari: nell’estate 1962, nella sua ultima intervista per Redbook Magazine, afferma che il suo incubo più grande era costituito dalla bomba H. Del 1960 è anche la lettera (privata) al redattore del New York Times Lester Markel, nella quale esprime il suo appoggio a Castro e alla rivoluzione cubana per aver abbattuto il regime di Batista, rammaricandosi per il mancato sostegno statunitense alla lotta cubana e per il modo distorto e non imparziale con cui i media rappresentavano gli eventi sull’isola.

Ma si espone su fronti meno radicali. Nel 1960 sostiene la campagna elettorale per le presidenziali di John Kennedy: negli anni successivi partecipa a diverse cene in suo onore e, al di là della relazione sessuale che può aver intrapreso a un certo punto con lui, la sua vicinanza è prima di tutto politica. Sempre nel 1960, con Miller, viene eletta come alternate delegate al Quinto congresso distrettuale del Partito democratico in Connecticut: tale attività politica sembra quasi troppo moderata alla luce delle sue opinioni.

Il 2 febbraio 1962 scrive a Robert e a Isidore Miller, rispettivamente figlio e padre dell’ormai ex marito Arthur, di aver partecipato, la sera precedente, a una cena in onore di Robert Kennedy, fratello del presidente e Procuratore generale, e di avergli posto molte domande sul suo programma in materia di diritti civili: il tema che, evidentemente, aveva più a cuore.

Marilyn Monroe e l’essere donna

Se difficilmente una conoscenza approfondita della sua biografia può ridurla a donna «sfruttata dall’industria cinematografica che la fagocitò», tanto meno si può affermare con sicumera che lo fu anche «dagli uomini che incontrò nella sua vita, come John e Robert Kennedy, passata da un fratello all’altro come una bambola non appena diventò troppo pericolosa per la reputazione del Presidente». Monroe aveva un atteggiamento libero e disinvolto rispetto al sesso, ebbe – come chiunque – diversi amanti: pensare che per lei i fratelli Kennedy dovessero rappresentare qualcosa di diverso dagli altri vuol dire leggere la sua vita attraverso gli occhi paternalisti e maschilisti di chi vede nelle donne le perpetue vittime innamorate di qualcuno.

Il suo rapporto coi Kennedy riguarda l’affinità politica, le conoscenze comuni (era amica e spesso ospite dell’attore Peter Lawford, allora sposato con una delle loro sorelle), probabilmente anche il sesso, nello stesso periodo in cui frequenta certamente anche altri uomini. Immaginare una Monroe innamorata quasi nello stesso periodo di entrambi i fratelli Kennedy, e distrutta per entrambi, è un’interpretazione che ha molto a che fare col retaggio maschilista negli occhi di chi guarda.

Certo è che l’attrice dovette attraversare tutte le difficoltà delle donne del suo (e a volte ancora del nostro) tempo: la leggerezza con la quale si prescrivono psicofarmaci alle donne, considerate «isteriche» e non ascoltate quando parlano dei propri problemi di salute; la difficoltà di trovare una terapia per i dolori causati dall’endometriosi, che la rendono sempre più dipendente da morfina e altri oppiacei di vario genere; la scelta di divorziare da un uomo – Joe Di Maggio – che ama, ma di cui non vuole accettare le esplosioni di gelosia che, oltre a limitare la sua carriera, sfociano forse nella violenza fisica; il rapporto difficile con la maternità, da un lato cercata e frustrata dagli aborti spontanei, dall’altro forse evitata in alcuni periodi della sua vita (alcuni hanno parlato di diverse interruzioni volontarie di gravidanza, allora peraltro illegali). 

E poi, come abbiamo visto, la denuncia – 65 anni prima del #metoo – delle molestie di cui è oggetto una ragazza all’inizio della sua carriera. E, soprattutto, il racconto delle molestie e delle violenze sessuali subite: quelle avvenute quando era una bambina di otto anni e non credute dalla “zia” che l’aveva in affido, in un destino comune a molte donne; quelle capitatele nel 1961 quando, ricoverata in una clinica psichiatrica, uno psichiatra la visita, come raccontato in una lettera al suo psicoanalista Ralph Greenson, «compreso il palparmi il seno per controllare che non ci fossero noduli. Mi sono risentita, non violentemente ma solo spiegando che il medico che mi aveva fatto ricoverare lì dentro […] mi aveva già fatto una visita completa meno di un mese prima».

Si tratta di esperienze comuni a molte donne. Ma le donne, con alcune eccezioni, non sono tenere con lei: per tutta la vita, anzi, Monroe si rammarica non per le difficoltà con gli uomini – nonostante le violenze subite e le attenzioni non richieste – ma proprio con le donne, come dimostrano le parole sprezzanti che le rivolge Joan Crawford.

Non sappiamo se, se non fosse morta troppo presto, il femminismo avrebbe cambiato la sua percezione delle donne e quella delle donne di lei: il ritardo con cui il suo personaggio è stato rivalutato dalla teoria femminista mi fa temere di no.

Una donna del suo tempo, avanti per il suo tempo

Ella Fitzgerald disse che Monroe era «una persona speciale, avanti per il suo tempo». È sicuramente vero, come è vero anche che le contraddizioni facevano parte del suo essere, come di quello di chiunque: era infatti anche una donna del suo tempo (era nata nel 1926, sette anni prima delle mie nonne), di cui esprimeva solo alcune delle posizioni più avanzate. 

Simpatizza per il comunismo, ma nel 1953 si esibisce per i militari statunitensi di stanza in Corea, che proprio al comunismo si stanno opponendo. Ha una mentalità aperta in materia di sessualità e di diritti civili, ma – memore forse della sua infanzia da figlia illegittima cresciuta da una madre sola – non ritiene opportuno che una donna single abbia o adotti dei bambini, ritenendo che debbano esserci sempre una madre e un padre.

Mostra empatia per i lavoratori e le lavoratrici, ma durante le riprese la sua ansia e il suo perfezionismo, uniti alla confusione determinata talvolta dall’abuso di alcool, morfina e psicofarmaci, rendono necessario ripetere le scene innumerevoli volte, esasperando chiunque sia sul set.

Ancora una volta è la complessità la cifra della sua figura. La complessità di una donna terribilmente insicura – in un appunto del 1955 o del 1956 si chiede «perché vivo questo tormento? O perché mi sento un essere umano inferiore agli altri (sempre stato così, sentito in un certo senso di essere sub-umana) perché in altre parole sono il peggio perché?» –, che teme di essere pazza come le altre donne della sua famiglia (sia la madre sia la nonna morirono in ospedale psichiatrico) e che, eppure, sa che recitare è tutta la sua vita e chiede di essere considerata solo un essere umano e di non sembrare ridicola. In un’intervista ad Allan Grant, a poche settimane dalla sua morte, prega: «Please, don’t make me look like a joke».

E forse, per non richiuderla in uno stereotipo o in un altro, per prenderla davvero – come chiedeva – sul serio, si dovrebbe farla definitivamente uscire tanto dal personaggio della vittima, quanto da quello della femminista ante litteram, restituendola al suo tempo e raccontandola per come era e voleva essere rappresentata.

Si potrebbe pensare a costruire una storia sociale e culturale del suo mito e dell’influsso del suo personaggio negli ultimi settanta anni: che donne sono diventate le bambine che si sono confrontare con la sua figura negli anni ’50 e ‘60? E quelle che – come me – si sono confrontate col suo mito negli anni ‘90? Che influsso ha avuto la sua immagine di donna sessualmente libera, disinvolta rispetto al corpo e alla nudità, professionalmente realizzata e che forse abortì molte volte? È stato più un modello emancipatorio (come io credo) o più un modello sessista di compiacenza verso le aspettative maschile? 

E, ancora, perché è stata copiata da così tante attrici – dalla quasi coetanea Jayne Mansfield a Madonna, che non solo nel video di Material Girl del 1985 ha riproposto la Marilyn che canta Diamonds are the girl’s best friend in Gli uomini preferiscono le bionde, ma che ancora nel 2021 ha posato vestita come lei in un letto costruito come quello in cui è morta, a suo dire per celebrare la sua “fragilità incandescente” e pubblicizzare il cortometraggio Un affare privato ispirato alla relazione tra un fotografo e la sua musa (Stern e l’attrice)? Perché ancora oggi Kim Kardashian dimagrisce 7 kg in pochi giorni per tentare di entrare nell’abito indossato da Monroe nel 1962 mentre cantava Happy Birthday a Kennedy?

In cosa sta, ancora oggi, la forza di questa attrice meravigliosa e donna intelligente e risoluta, dotata di uno straordinario senso dell’umorismo, che non era la stupida bionda di nessuno, né di quelli che la consideravano tale, né degli alfieri della “povera Marilyn” perpetua vittima di qualcosa, né dei paternalisti che, come Pasolini, l’hanno ingabbiata nel ruolo di «piccola sorellina minore»?

In copertina: due fotografie di George Barris, giugno 1962, tratte da Flickr Foto 1Foto 2