cult
CULT
Non chiamatele «Fake news»: un libro sul giornalismo
Il libro di Valentina Petrini è il racconto delle scelte che qualsiasi giornalista deve compiere nel suo percorso, rigorosamente sul campo, perché solo il lavoro d’inchiesta può allontanare il pericolo delle “fake news”
Non chiamatele «Fake news» (Chiarelettere, 2020) è prima di tutto un libro su una passione, la passione per il giornalismo. Raccontando le diverse tappe del suo lavoro Valentina Petrini restituisce uno spaccato di storia recente, con lo sguardo che dall’Italia si sposta in Tunisia, Regno Unito, Brasile, Stati Uniti, e ricostruisce un pezzo importante del dibattito che ruota intorno al tema delle notizie false.
Dalla passione per il giornalismo si vede così emergere quella per la verità, che non è intesa in quanto fatto oggettivo o posizione neutrale ma come il contrario delle notizie e informazioni utilizzate per controllare e manipolare l’opinione pubblica.
«Non sto scrivendo un manuale, ma un libro partigiano dove racconto il perché delle mie scelte professionali sul campo e la mia visione del giornalismo». La visione del mestiere è tutta centrata sull’essere in prima linea, l’andare a vedere, il consumare gli stivali, boots on the ground. Così anche se il testo non è un manuale, il giovane giornalista o l’appassionato della professione troverà tra le pagine consigli, suggerimenti e stimoli che hanno maggiore valore proprio perché non sono offerti con superiore distacco, ma nelle contraddizioni stesse del fare inchiesta.
Nella necessità che a volte si pone di dover cambiare una parola o smorzare un tono per avere la possibilità di rendere pubblica una notizia. Nei problemi che originano dalla diffusa condizione di precarietà, che nel giornalismo significa estrema debolezza nella risposta a denunce e procedimenti legali. Negli episodi che lasciano l’amaro in bocca, fanno soffrire e poi aiutano a crescere.
È uno di questi ad aprire il viaggio del libro: le accuse di aver confezionato un servizio falso che la stessa autrice ha ricevuto per un reportage televisivo su una particolare rotta di contrabbando e migratoria tra Tunisia e Italia. Sulla vicenda, in cui dinamopress sbagliò a inserirsi non avendo neanche particolare cognizione di causa, Petrini ha avuto ragione anni dopo, quando un’inchiesta giudiziaria ha svelato l’esistenza di ciò che la giornalista aveva reso pubblico.
Affrontato l’incubo «vissuto sulla propria pelle», il tema delle fake news viene portato in giro per il mondo, mettendolo in relazione con eventi politici che hanno segnato la storia recente, dalla Brexit all’elezione di Bolsonaro e Trump, e con fenomeni decisivi per il futuro della società e del pianeta, dalle migrazioni internazionali al cambiamento climatico.
Volta per volta, caso per caso, Petrini dispone sul tavolo gli strumenti utilizzati per riconoscere e poi smontare le notizie false.
Così il lettore si trova immerso in questo laboratorio che cerca un metodo mettendolo già in pratica, verificandolo di volta in volta anche rispetto alle innovazioni tecnologiche e mediatiche che sopraggiungono, su tutte la grande novità dei social network. Rapporti di centri di studi, documenti istituzionali, strumenti e conoscenze informatiche, osservazione diretta e raccolta di testimonianze compongono questa macchina di ricerca della verità, che la giornalista ha anche concretamente messo in funzione nella trasmissione «Fake – La fabbrica delle notizie».
Il libro si conclude all’interno della più grande pandemia della storia contemporanea che ha avuto come effetto collaterale la più massiccia produzione di notizie false, mostrando per l’ennesima volta la centralità del tema negli assetti politici, sociali e persino sanitari del presente. «Non sono solo fake news quelle che circolano su fatti come la pandemia da Sars-CoV-2 o l’immigrazione – scrive Petrini – Se così fosse, sarebbero più innocue. Sono invece armi di distrazione di massa, fenomeno più complesso e preoccupante, strategia per la raccolta del consenso».
Foto di copertina di Paul Sableman da Flickr