MONDO
Netanyahu senza maggioranza, Israele torna al voto
Netanyahu non è riuscito a trovare un accordo tra i partiti di destra e sfuma la possibilità di comporre un governo di maggioranza. Si torna ad elezioni, per l’attuale premier potrebbe essere la fine della carriera politica
In Israele tra meno di tre mesi si tornerà al voto, le elezioni del 9 aprile non hanno prodotto un governo di maggioranza. Secondo la legge israeliana, infatti, il presidente della nazione è costretto a sciogliere la Knesset qualora il leader del partito di maggioranza relativa non sia riuscito a formare una coalizione di governo durante i termini stabiliti: solitamente si tratta di un mese più un prolungamento di altre due settimane. Pur essendosi alleato perfino con l’estrema destra più oltranzista, Netanyahu non aveva i 61 seggi che gli avrebbero potuto assicurare una maggioranza stabile e pertanto ha dovuto rimettere l’incarico.
Questo fatto potrebbe produrre la fine della parabola politica del falco israeliano. Tra le prime leggi che sarebbero state emanate dal mancato nuovo governo, ce n’erano alcune ad personam già pronte in bozza per permettergli di essere assolto in un’ampia serie di processi per corruzione che lo vedono imputato. Non riuscendo a formare un governo e dovendo riprovarci tra tre mesi è possibile che i procedimenti a suo carico giungano a conclusione con la sentenza di condanna. Questo potrebbe comportare il suo ritiro definitivo dalla scena politica. Nessuno, all’indomani del voto di aprile si sarebbe aspettato un epilogo simile. Cosa è accaduto?
La figura chiave, l’ago della bilancia di questo momento turbolento è Avigdor Lieberman, presidente del partito Israeli Beitenu, 4% alle elezioni e 5 deputati. Lieberman non è certo di sinistra, anzi, vive in una colonia della West Bank, Nokdim, e ha posizioni oltranziste su tantissime questioni, dai diritti dei palestinesi che vivono in Israele fino alla costruzione di colonie. È già stato ministro di Sharon, Olmert e dello stesso Netanyahu.
Il partito di Lieberman, però, rappresenta una minoranza specifica: i russi emigrati in Israele nella seconda metà degli anni ’80 e nei primi anni ’90, quando il disfacimento dell’URSS permise loro di lasciare le repubbliche sovietiche.
I russi di quegli anni furono l’ultima immigrazione di massa pianificata e favorita dal governo israeliano. Erano però una minoranza particolare. Venivano da un paese in cui avevano vissuto una serie di discriminazioni e soprattutto avevano negli anni “annacquato” il proprio legame con l’ebraismo, tanto da essere estremamente laici e secolari nelle abitudini sociali. I russi portarono questo loro laicismo nello stato israeliano.
Da un lato erano visti positivamente perché la loro immigrazione avveniva in un paese razzista dove la maggioranza “bianca” stava lasciando spazio alle minoranze, con non poche preoccupazioni da parte dell’establishment. I russi, almeno, erano “altri bianchi” che venivano a popolare lo stato. Ricordiamo pure che la precedente migrazione di massa pianificata era stata quella degli ebrei etiopi qualche anno prima, che dall’élite askhenazi (ebrei di origine centro europea) era stata “accettata a malincuore”, per usare un eufemismo. Gli etiopi non erano per nulla “bianchi.”
Dall’altro, però, questi russi erano troppo laici per un paese che stava diventando sempre più teocratico. Un esempio su tutti è che trasferendosi non smisero di mangiare carne di maiale e l’industria relativa, prima inesistente, nacque nel paese solo per soddisfare il loro bisogno. Pertanto la diffidenza, il pregiudizio o la vera e propria discriminazione cominciarono ad essere notevoli nei loro confronti: nell’opinione pubblica sono visti come rozzi ignoranti mangiatori di maiale. Gli ebrei russi, pertanto, si inseriscono in quel complesso sistema aberrante di stratificazione sociale blindata militarizzata e reazionaria che compone lo stato israeliano.
Le minoranze, nel “sistema-laboratorio Israele”, sono separate con la violenza dell’apartheid sociale (in qualche caso anche fisico) dagli altri gruppi sociali e sono spinte a vivere cercando di difendersi da chi sta al di sotto di loro e aspirando ad avere il potere di chi sta sopra di loro. Ognuno sopravvive provando a sopraffare chi è situato al di sotto del proprio gruppo sociale.
In questo splendido e illuminante articolo, che ben spiega la natura dello stato israeliano, Lia Tarachansky racconta cosa volesse dire crescere come ebrea di origine ucraina nell’Israele di fine anni ’80. Soprattutto Lia confuta un assunto consolidato del centro sinistra israeliano già dai tempi di Rabin. Il Labour Party ha sempre raccontato che «abbiamo progressivamente virato a destra per colpa dell’arrivo dei russi, conservatori e oltranzisti, che hanno spostato l’ago della bilancia verso partiti di destra a partire dagli anni ’90». Lia, arrabbiandosi contro uno dei simboli intellettuali della sinistra sionista che condivide questa lettura, cioè Uri Avnery, denuncia che non è stata colpa dei russi, ma del sistema Israele che strutturalmente determina situazioni di violenza e sopraffazione grazie all’apartheid e alla stratificazione tra minoranze. I russi sono vittime di quel sistema (e di quel perverso laboratorio politico) come tanti altri: è proprio per questo che è estremamente limitante pensare al “sistema Israele” come un “bianco e nero” tra israeliani e palestinesi. Il laboratorio creato in quel pezzo di terra è molto più articolato e spietato: coinvolge e stratifica chiunque viva tra il Mediterraneo e la Giordania.
Veniamo alle ultime elezioni. Lieberman aveva fatto una promessa netta e chiara ai suoi elettori: anche gli ebrei ortodossi avrebbero dovuto fare il servizio militare. A suo dire non possono essere esentati perché anche loro «devono portare il peso di difendere il nostro paese». Netanyahu però si è alleato con l’estrema destra degli ortodossi, che hanno bisogno della tutela del premier per riuscire a difendere l’insieme di leggi sociali ed economiche che permette loro di vivere. Ad esempio, gli ortodossi non solo non fanno il militare ma neanche lavorano (vivono di sussidi pubblici per poter dedicare il tempo allo studio e alla preghiera), hanno casa popolare di diritto e molti altri vantaggi. Pertanto gli alleati di Netanyahu non avrebbero mai permesso che passasse la legge voluta da Lieberman per obbligarli alla leva. Così Lieberman ha posto l’aut aut: o l’approvazione della legge o non sarebbe entrato nel governo. Non ha avuto nessuna certezza in tal senso e pertanto ha deciso di far cadere l’ipotesi di un governo di coalizione con Netanyahu, che in questo modo ha mancato l’obiettivo dei 61 seggi che garantiscono la maggioranza alla Knesset.
Anche in una vicenda del genere, si è rivista la miopia politica del centro sinistra che ha cantato vittoria dipingendo un razzista privo di scrupoli come Lieberman come un grande difensore di diritti liberali.
Pertanto a breve si ritornerà al voto. Non sarà un voto che sposta gli equilibri né che fa cambiare politica al paese. Intanto, però, qualche piccola novità si intravede. Da quelle parti anche le piccole luci devono dare speranza.
Le liste che rappresentano i palestinesi di Israele hanno capito che devono unirsi e stanno ipotizzando di riformulare una lista unitaria come accadde nel 2015, scelta che al tempo permise loro di avere 4 deputati in più di quelli eletti ad aprile 2019.
Il Meretz, partito di sinistra storicamente su posizioni sioniste, sta ipotizzando al suo interno di diventare un partito congiunto di palestinesi ed ebrei. Sarebbe una piccola rivoluzione interna ma non di poco conto in un paese in cui ogni iniziativa bi-nazionale che scalfisca il sistema della stratificazione tramite apartheid è vista con estremo sospetto.
Più di tutto, però, il segnale positivo che si intravede da questa battuta di arresto per Netanyahu è la dimostrazione che il sistema di violenza e stratificazione sul quale si basa lo stato può avere dei corto circuiti interni e l’odio reciproco tra due minoranze in lotta per il potere può avere delle ripercussioni a livello sistemico: la fine della vita politica dell’attuale primo ministro. Normalmente russi e ortodossi sono accomunati dall’odio per chi occupa l’ultimo gradino della stratificazione sociale, cioè i palestinesi, e quell’odio funge da collante. In questo caso, però, l’odio razzista non è bastato.
Sarà questo un segnale che anche uno stato violento e aggressivo come quello israeliano può avere segni evidenti di cedimento interno, cioè può avvicinarsi a implodere sotto il peso della propria violenza e del proprio razzismo? Non è detto, ma se guardiamo alle trasformazioni geopolitiche di lungo periodo, potrebbe non essere un’ipotesi da escludere.