TERRITORI
Nessun passo indietro contro la crisi ecologica: votiamo NO!
A poche ore dal referendum, quale può essere l’impatto sull’ambiente della riforma costituzionale?
Il 4 dicembre è finalmente dietro l’angolo, e lo aspettiamo in un clima politico scaldato dall’avvicinarsi del momento decisivo. La campagna per il No è stata in gran parte dominata dalla figura del presidente del consiglio e dalla necessità di delegittimarne l’operato. E a ragione, dal momento che non ha senso parlare del futuro del paese, e votare su di esso, se non a partire dal giudizio sulle politiche promosse da Renzi, sulle sue responsabilità sulla precarizzazione del lavoro giovanile, sull’alternanza scuola-lavoro, sui 23 miliardi l’anno di spese militari, sulle trivellazioni dei mari e sul commissariamento di interi quartieri. Ma è proprio a partire da questi ultimi provvedimenti che si vede la coerenza fra l’indirizzo politico neoliberale del governo e la riforma costituzionale, e quindi le ragioni di merito per cui questa va rifiutata. Una partita importante, quella di cui forse si è parlato di meno, si gioca infatti intorno alle forme di governo del territorio, e riguarda il modo in cui le istituzioni locali potranno intervenire su decisioni e progetti dall’elevato impatto ambientale. Il fatto che l’Italia sia disseminata di conflitti e mobilitazioni locali su questioni che hanno al centro l’ecologia non deve piacere al governo, specialmente per il fatto che i vari movimenti e comitati riescono spesso a esercitare sulle autorità regionali e locali una pressione significativa, facendole mettere di traverso alle scelte governative (e ai connessi interessi delle multinazionali estrattive). E’ per questo che la parte della riforma dedicata al Titolo V consegna allo Stato centrale la competenza esclusiva su energia, infrastrutture e beni culturali, introducendo in più la “clausola di supremazia”, con la quale il parlamento nazionale (ormai abituato a esercitare funzioni amministrative direttamente sui territori, come nel caso del decreto Sblocca Italia) potrà intervenire a piacimento sul governo locale[1].
Se domenica dovesse vincere il Sì, i partiti di governo disporrebbero quindi di un’ulteriore, potente arma da usare contro i progetti politici, autenticamente democratici, che si muovono nell’ottica del diritto alla città, dell’ecologia sociale e del neomunicipalismo, che si stanno dimostrando capaci di innovare le forme di partecipazione dal basso. La riforma Renzi-Boschi andrebbe invece a tutto vantaggio delle mafie e delle multinazionali già pronte a spartirsi il paese[2]. Si tratta di una seria minaccia rivolta alla possibilità delle comunità locali di prendere parte alle decisioni che riguardano i loro luoghi di vita, le loro attività economiche e la loro salute. Questo fatto è tranquillamente ammesso, fra l’altro, dalle stesse classi dirigenti, per bocca dei loro giornalisti: risale a pochi giorni fa un editoriale[3] apparso sul Corriere del Mezzogiorno, in cui Paolo Macry plaude all’accentramento di poteri promosso dalla riforma, con il quale lo Stato potrebbe finalmente opporsi al miope “localismo” tipico del Sud.
Quella proposta da Macry è una falsa scelta fra povertà ed estrattivismo[4], del quale vengono però minimizzati o ridicolizzati gli impatti sull’ambiente e sulle economie locali. Nel riassunto di Macry, per esempio, il ceto politico pugliese “si oppone anche al gasdotto che porterebbe grandi vantaggi energetici per non sacrificare 230 ulivi”. Il riferimento è al Trans-Adriatic Pipeline, la grande infrastruttura che dovrebbe trasportare gas dall’Azerbaijan all’Europa attraverso il Salento. Posto che ci sentiamo molto più solidali con i 230 ulivi e i coltivatori salentini che con gli interessi delle multinazionali coinvolte nel progetto (fra cui figurano alcune campionesse dell’inquinamento, del calibro di Statoil, BP e Total), forse i rischi del progetto dovrebbero essere indicati con maggiore precisione, come il movimento No Tap è impegnato a fare da anni. Non fa male ricordare, infatti, che la Puglia è già la prima regione italiana per le emissioni di diossido di carbonio, benzene, e ossidi di zolfo, oltre che per l’incidenza di tumori polmonari, proprio a causa delle politiche industriali promosse dal governo nel corso dei decenni. Il gasdotto, inoltre, è progettato per passare in prossimità di aree protette, rischia di danneggiare sia la pesca e il turismo delle zone costiere che la salute delle persone, considerando l’ampio record di incidenti accumulati da questi condotti in tutto il mondo[5].
Ha ragione Macry a dire che la riforma renderebbe più semplice la realizzazione di impianti di questo tipo, prescindendo dalla volontà delle popolazioni locali, ed è per questo che essa va rifiutata, per opporsi alle pratiche di aggressione estrattiva che interessano la penisola, in primo luogo a Sud, dalla Val d’Agri all’Adriatico, dall’Irpinia a Gela. I territori commissariati sono quelli in cui si scorgono con maggiore chiarezza gli obbiettivi dell’accentramento di poteri: il commissario Nastasi, a Bagnoli, non ha ancora fatto altro che spendere 550mila euro per ripulire temporaneamente il tratto di litorale in mano ai privati[6], distribuendo favori al gruppo Caltagirone e a tutti i poteri forti cittadini già responsabili del disastro ambientale.
Questo accentramento di poteri rappresenterebbe non solo uno sviluppo antidemocratico a livello nazionale, ma anche un atto reazionario rispetto agli sviluppi internazionali in tema di protezione dell’ambiente. Decenni di mobilitazioni di Organizzazioni non governative, di popoli indigeni, di comunità in lotta per la giustizia ambientale hanno lasciato un’impronta positiva sui trattati internazionali dedicati all’ambiente, mettendo al centro “la partecipazione di tutti i cittadini interessati, ai diversi livelli”[7]. E’ evidente, inoltre, che le volontà politiche emerse dalle mobilitazioni locali in materia di estrazione e trasporto di idrocarburi sono quelle più coerenti con gli impegni presi dall’Italia nell’accordo sul clima concluso a Parigi. In questo contesto, gli interessi delle comunità locali si dimostrano coerenti con l’obbiettivo globale di contenere il cambiamento climatico, mentre la concentrazione di poteri a livello nazionale vi porrebbe nuovi ostacoli.
Votare No alla riforma significa difendere ogni minimo spazio politico in cui le istanze delle comunità rurali, delle periferie metropolitane e di tutti i territori in lotta possano farsi valere. E’ vero che, forzando ai limiti l’architettura costituzionale attuale, il governo si è dimostrato capace di imporre la sua autorità a livello locale, ma dobbiamo comunque essere chiari sulla necessità di non fare alcun passo indietro. La lotta alla crisi ecologica passa per la democrazia e l’autogoverno, e sarà sempre più dura.
[1] Non è un caso che proprio su questo aspetto della riforma sia stato lanciato un appello dal Coordinamento Nazionale No Triv e da numerose altre realtà associative e di movimento impegnate nella difesa dell’ambiente http://territoriperilno.jimdo.com/
[2] Come spiega bene qui Salvatore Altiero http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/11/22/referendum-un-si-a-sostegno-di-finanza-e-grandi-opere/3209654/
[4] La stessa di cui parla Naomi Klein nell’introduzione del suo ultimo libro sul cambiamento climatico, This Changes Everything
[5] Michael Pereira, Pipeline map: Have there been any incidents near you? From small to large-scale spills to fires, explosions and worker deaths, CBC News, October 22, 2013 http://www.cbc.ca/news2/interactives/pipeline-incidents/
[6] Comunicato stampa Assise Bagnoli https://www.facebook.com/assise.bagnoli/posts/1239455239411284
[7] Dichiarazione di Rio, 1992, Principio 10