OPINIONI
Nella crepa del mondo
La guerra ucraina si aggiunge alla pandemia, alla crisi climatica, alla stagnazione secolare dell’economia. Sono ormai troppi, e troppo importanti, i traumi e i cambiamenti che ci stanno sovrastando. Che il cervello collettivo torni a pensare, a incontrarsi nelle piazze, a disertare, a disobbedire
Facciamo nostra una mossa teorica della Rinascenza ai suoi inizi: la forza dell’ignoranza. No, il problema non è la conoscenza di Dio, ma la conquista di uno sguardo d’insieme sull’interregno. È senz’altro qualcosa di più, di un semplice interregno, ciò che stiamo vivendo: non c’è solo la crisi dell’egemonia americana, con i suoi colpi di coda che destabilizzano un po’ ovunque e senza sosta dall’autunno del 2001 in poi; c’è che siamo ancora immersi in una pandemia per nulla risolta, nonostante vaccini e terapie farmacologiche più efficaci; c’è che la pandemia ha generato uno shock economico con rari precedenti, dal quale il mondo tutto, l’Europa in particolare, non si sono ancora ripresi. Il Blitzkrieg (o quasi) del despota del Cremlino, con la Cina silente che pensa a Taiwan, giungono dunque nel mezzo del disastro, nella crepa che sembra senza fondo.
Si tratta allora di condividere appunti, semilavorati, idee annusate, digressioni, lampi e visioni offuscate, con ignoranza quanto più possibile dotta.
Tutto ci spinge a pensare che viviamo in un “momento Polibio”. La carestia, la pestilenza, la guerra, il corpo collettivo si corrompe, una civiltà tramonta: così lo storico greco-romano esordisce nel VI libro delle sue Storie. Nel vuoto e nella rarefazione, continua Polibio, i dispersi ricominciano, con loro il «ciclo costituzionale», dalla monarchia all’oligarchia, alla democrazia, con le degenerazioni delle tre costituzioni che scandiscono il movimento, il ritorno, il cerchio necessario e naturale. Come noto, Polibio è lettura decisiva nel Rinascimento ed è Machiavelli a farne un uso irregolare e fecondo. Il Nostro aveva letto e tradotto Lucrezio, che pure e più di Polibio di peste aveva scritto, prima che il suo capolavoro si fermasse inconcluso. Dal De rerum natura, e dunque dall’epicureismo, Machiavelli riprende il clinamen, la deviazione infinitesimale che genera l’incontro tra gli atomi; dall’incontro, le combinazioni e i corpi; dall’incontro, l’avvelenamento e la decomposizione; di corpo in corpo, di combinazione in combinazione, si fa il mondo; così, in eterno (senza origine né fine). Eternità e necessità sono, e ciò non è banale né intuitivo, continuamente segnati dall’indeterminazione. I corpi muoiono, le civiltà deperiscono, ma il ciclo non è più chiuso, per il lucreziano Machiavelli: la politica della libertà, ovvero la «repubblica tumultuaria», combattono la corruzione della città, la disunione fonda istituzioni espansive.
Le cause della guerra in corso sono più o meno note. Senza gerarchie: transizione ecologica e questione energetica; la grande occasione russa dopo la fuga scomposta dell’Occidente da Kabul; l’avventurismo nazionalista di Putin, motore insaziabile del suo autoritarismo; la spregiudicatezza nonché la permanente provocazione USA nell’Est Europa, quella di Zelenskij con la NATO. Senz’altro la lista è lacunosa, ma, pur completandola, non si spiega l’invasione di queste ore drammatiche, l’assedio di Kiev. Si tratta per tutti, anche per chi da mesi prevedeva gli esiti della crisi ucraina, di un «cigno nero». Come tale, chiede uno sforzo del pensiero e una prassi inediti, anche perché, al momento, è tutt’altro che facile prevedere gli effetti dell’invasione. Vero, gli Stati Uniti non interverranno direttamente o così dicono; vero, la resistenza ucraina pare non potere nulla nei confronti dell’esercito russo; vero, è molto probabile che Putin si fermi all’Ucraina e non stia pensando ai Paesi baltici: ma è proprio tutto così vero e indubitabile?
Ciò su cui è lecito dubitare da subito sono le sanzioni. In primo luogo perché, come chiarisce Thomas Piketty, per colpire davvero oligarchi e multimiliardari russi e sodali di Putin servirebbe un «catasto finanziario internazionale»; operazione, questa, che di certo non piacerebbe ai multimiliardari d’Occidente i quali, al pari dei loro colleghi russi, usano opacità e assenza di regole per arricchirsi senza freno e per sfuggire alla morsa fiscale. In secondo luogo perché – e ciò è stato chiarito in Italia, tra gli altri, da Romano Prodi – perché le sanzioni colpirebbero fortemente l’Europa, Germania e Bel Paese in particolare. E il problema non è solo energetico, l’import di gas che Gazprom ha ripreso a pompare proprio in questi giorni, dopo mesi di strategico razionamento; il problema riguarda più in generale l’export di tecnologie industriali, essendo la Russia uno degli sbocchi di mercato più rilevanti della manifattura tedesca e italica. Una eventuale sostituzione cinese all’export italo-tedesco vanificherebbe, nel giro di pochi mesi, gli sforzi per la ripresa di Next Generation EU, il «cataclisma occupazionale» sin qui arginato tornerebbe a scuotere la già precaria fiducia nelle istituzioni degli europei tutti.
Poniamoci dunque la domanda: e se il vero obiettivo di Putin, e tutto sommato anche quello di Biden, fosse la destabilizzazione dell’Unione Europea e, più in particolare, dell’Eurozona? Il despota russo sa che l’Europa non potrà che soffrire delle sanzioni, dalle quali la UE d’altronde non può sottrarsi – l’ostilità americana di fronte alle iniziali timidezze di Scholz e Draghi parla chiaro. Biden sa che l’Europa, senza il gas russo, senza Nord Stream 2, avrà bisogno del suo gas liquefatto; conosce bene, e avversa, la significativa apertura a Est, dalla Russia fino al Guangdong, della Germania e non solo; sa già che la nuova crisi dei rifugiati solleciterà fratture nel corpo politico e sociale europeo, già provato dalla crisi dei debiti sovrani e da quella imposta dalla pandemia. All’America, l’Europa a trazione tedesca non piace; dal punto di vista geopolitico, poi, è un ostacolo nel confronto competitivo con la Cina. Lasciar accadere, stimolare in modo non sempre diretto ed esplicito il nazionalismo di Putin: questa, pare, la mossa americana – le parole di Papa Francesco, che ha raggiunto di persona l’Ambasciata russa a Roma, e del Cardinal Bagnasco, rafforzano gli indizi.
Al “momento Polibio”, allora, dovremmo contrapporre un “momento Machiavelli” (o Lenin, il nemico di Putin) e uno “Hamilton”. Secondo il primo dei due, dovremmo pensare la «congiuntura», cogliere l’occasione, rovesciare la catastrofe in combattimento politico, per la pace, per la libertà. Pace e libertà, contro guerra e autoritarismo, ma anche contro l’economia di guerra che si imporrà da subito, e dopo lo shock pandemico non ancora superato. E pace vorrà dire anche, oltre la mobilitazione d’opinione e di piazza che dovrà essere costante, conoscere e disertare la macchina bellica nelle sue articolazioni retoriche, sicuritarie, produttive. Il “momento Hamilton” riguarda l’Europa: è ora di dire basta al Patto di stabilità, come aggravato dal Fiscal compact; è ora di pretendere un vero bilancio federale, la piena mutualizzazione dei debiti pubblici; è ora di estendere in tutta Europa il salario minimo legale di 12 euro approvato da Scholz, in Germania, pochi giorni fa; è ora di eliminare i paradisi fiscali, dal Lussemburgo all’Irlanda, e di costituire il pilastro fiscale continentale; è ora – perché non dirlo? – di sciogliere la NATO e avanzare verso una forza di difesa, e non di attacco, europea. Infine, ma all’inizio, accoglienza dei profughi «senza se e senza ma».
Tutto ciò è folle? Non è dietro l’angolo, senz’altro. Necessiterà lotte assai radicali e al momento per nulla scontate, anzi. Ma la follia è un’altra cosa, è la guerra nucleare minacciata, potenziale, che nessuno può del tutto escludere.
Poche battute ancora, sulla follia, su quella di Putin in particolar modo. Le élite americane, in generale occidentali, adorano stigmatizzare i leader all’America ostili definendoli pazzi. Da Hitler in poi, c’è sempre un pazzo che, pur essendo stato ampiamente foraggiato dalle borghesie locali, poi prende in mano il potere, lo gestisce in modo assoluto, e nessun può più far nulla. Domanda: come fa il Paese di Donald Trump – che tra l’altro ritiene Putin «un genio» –, quel Paese che faceva buoni affari con Bin Laden e Saddam Hussein, lo stesso che non disdegna gli affari con Bolsonaro, ad affibbiare al solo Putin l’epiteto, Vlad the mad? Il lungo discorso storico di Putin, come la diretta del Consiglio di sicurezza, indubbiamente hanno esibito segni poco convenzionali. Ma siamo certi che l’ispirazione nazionalista, il riferimento alla maschia patria ferita, da contrapporre virile alla mollezza morale dell’Occidente consumistico, alla «banda di drogati» di Zelensky, sia farina del sacco del nuovo Zar e di nessun altro?
Per chiudere. Le lacune e le forzature di quanto scritto sono palesi. Serve un cervello collettivo, che torni a incontrarsi nelle piazze e nelle strade, nel picchetto e nello sciopero, per afferrare un orientamento possibile. Viviamo in una crepa del mondo, il nostro XIV secolo. Con l’augurio di uscirne Ciompi, apriamo la discussione, procediamo per approssimazioni, facciamo giri larghi. È troppo tempo che affermiamo che le bussole non funzionano più. Era vero già dieci anni fa, camminiamo nel buio è abbiamo bisogno di luce: mondana, dei corpi che disobbediscono e dicono “Signor no, Signore”.
In copertina “Il mercato della nostra democrazia”, di Ilya Sergeevich Glazunov (1999). Il quadro preferito di Putin