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Nella catastrofe, “da dentro”. Riprendere Marx, dimenticare i falsari

Nel nuovo libro di Roberto Finelli e Marco Gatto, “Il dominio dell’esteriore” (Rogas, 2024), il capitalismo emerge come forza astratta e onnipervasiva, che svuota il concreto e seduce con effetti di superficie. Una critica radicale alle filosofie postmoderne e un invito a ripensare Marx per affrontare l’impoverimento delle esistenze. La proposta? Scuola e università come strumenti di rivoluzione culturale

Sondare la catastrofe del presente, la sua profondità. Nell’epoca in cui il neoliberismo si fa blocco storico, diventa sintesi di tre catastrofi – ecologica, geopolitica, antropologica o “mentale’” – a interessare non sono le prospettive di liberazione, i nuovi presunti soggetti rivoluzionari del “fuori”, ma il marxismo dell’astrazione reale, che più lucidamente restituisce la drammaticità di questo passaggio storico.

Roberto Finelli e Marco Gatto hanno scritto a quattro mani Il dominio dell’esteriore. Filosofia e critica della catastrofe (Rogas, 2024), con una decisa presa di posizione. Rispetto ai marxismi della contraddizione, della centralità dell’homo faber, delle classi e delle moltitudini «presupposte come soggettività già compiute e alternative al divenire della società del capitale», viene riproposto il canone dell’astrazione. Obiettivo? Cogliere il capitale come vettore di socializzazione astratto e impersonale, cioè come Soggetto onnipervasivo che produce merci, rapporti sociali e immaginari collettivi, uniformando la realtà naturale e sociale alla sua crescita a tendenza illimitata.
Si recupera un Marx forse passato in secondo piano, quello della teoria scientifica del valore: il capitale è valore in astratto, quantità in espansione che si fa soggettività storica a tendenza universale.

Non c’è un “fuori“, una forza ribelle e oppositiva, un’idea fuorviante di un Altrove eccedente, ma anzi un impoverimento delle esistenze prodotto dall’interno, prodotto dall’astratto, inteso sia come processo di colonizzazione delle leggi di produzione dei beni e dell’inconscio sociale, sia come principio con cui pensare il nesso tra l’economico e il simbolico.

Nella propria valorizzazione, il capitale procede con un doppio movimento: 1) di interiorizzazione, di svuotamento del concreto, del mondo della vita, e simultaneamente produce una superficie, un luccichìo, 2) esteriorizza cioè e dissimula alcuni effetti trovando nella cultura un suo strumento. In questa tessitura tra ipermodernità economica e postmodernità che ne valorizza culturalmente gli effetti di superficie, insomma nel nesso tra interiorizzazione ed esteriorizzazione culturale, si coglie il blocco storico del nostro tempo. È il tempo del capitalismo planetario, cioè dell’avanzata del capitale universale, in cui l’astratto svuota da dentro il concreto, lasciandone solo effetti di superficie; effetti distorsivi, che occultano le relazioni interne di diseguaglianza. Ed è il tempo in cui, ad accompagnare questo avanzamento, è una sovrastruttura culturale resa da filosofie che diventano articolazioni del capitale, anziché produrne un distacco critico.

Filosofie serve del capitale

Gli autori arrivano così a una tesi radicale: la cultura, parte di questa esteriorizzazione, si estetizza, si “postmodernizza”. Si presta a una mera registrazione di questa superficie, ne diventa una “serva devota” incastrandosi in maniera aderente al principio di valorizzazione. Da questo punto di vista le filosofie dell’ultimo quarantennio, comprese le teorie della sinistra radicale e antagonistiche, si mostrano aderenti alla logica dell’astrazione. Da questa altezza, i rapporti si invertono: a essere oggettivizzato da queste filosofie non è il capitale, ma è la dialettica del capitale che oggettivizza le filosofie, per quanto “radicali”, perché ridotte a conferma dell’esistente.

Una conferma che passa nella loro pulsione antidialettica, nel processo di assolutizzazione del linguaggio e dell’informazione, lungo un fil rouge che per gli autori lega la cultural turn fino all’attuale “ideologia dell’infosfera”. A partire dalla svolta linguistico-comunicativa e quindi dallo scardinamento di quel rapporto tra linguistico ed extralinguistico, perfino la riflessione materialistica viene esteriorizzata e depotenziata sotto forma di parvenza “linguistica”: l’elaborazione teorica di soggetti nomadi e moltitudini, spesso condotta attingendo a una tradizione francese anti-dialettica, non fa che confermare il tempo storico, rendendone una cartina al tornasole che non può produrre distanza da ciò che descrive, non può maturare pretese di cambiamento reale, perfino quando vorrebbe apparire come un’esaltazione della lotta politica.

Marco Gatto, nel solco di Fredric Jameson, ne individua i sintomi generali: il paradigma linguistico ed ermeneutico, l’enfasi sulla relazionalità, il rifiuto di un’attitudine trasformativa di una realtà di cui si rifiuta qualsiasi oggettività e nesso causale, la rinuncia a una finalità universalistica della filosofia, l’antifondazionalismo militante, l’orizzonte di relativismo, che nega alla radice qualsiasi dimensione oggettiva e materiale e il tramonto delle categorie di sistema e dialettica.

Ciò che si consuma con la postmodernità è anche la fine della categoria totalità, intesa come «strumento di comprensione sistematica del reale e dei nessi che stringono il particolare all’universale». In particolare, la spinta anti-totalistica, portata avanti dal pensiero francese e dalle tendenze ermeneutiche e “deboliste” spesso facendosi forza con l’omologia tra ‘totalità’ e ‘totalitarismo’, avrebbe effettivamente trovato come punto di condensazione antihegeliana la pubblicazione di Egemonia e strategia socialista (1985),di Laclau e Mouffe.

Con questo sguardo il terzo capitolo passa in rassegna alcuni autori, scorgendone i vettori di una ‘metafisica del fuori’ deformativa della realtà: le reintroduzioni dell’Altrove nell’immanenza (Heidegger), del Grand Autre (Lacan), le estetiche della liberazione (Agamben), l’idea di una soggettività operaia al di fuori dei rapporti sociali in cui opera (Tronti), l’universalizzazione dei soggetti rivoluzionari (Virno), accumunate dal depotenziamento della logica dialettica.

L’impoverimento delle vite

Insieme alla decadenza dell’egemonia americana e al multipolarismo globale, alla crisi pandemica che ci ha mostrato il nesso tra sfruttamento delle risorse naturali e privatizzazione delle sanità, tra virus biologico e virus sociale ed economico, si preannuncia l’astrazione più evidente dei nostri tempi, quella “mentale”: l’impoverimento del pensare e delle esistenze. Nel momento in cui si celebra l’intelligenza artificiale e va di moda pensare il cervello umano come un computer, la logica dell’astratto opera un appiattimento del senso, confonde la tecnologia con l’ontologia, l’informazione con l’interpretazione che è fatta da un corpo vivente, da esistenze concrete.

Gli autori offrono dei riferimenti alternativi ben precisi: il Marx riletto secondo il paradigma dell’astrazione, Gramsci, la psicoanalisi materialista di Freud. Rispetto alle alternative del presente, il libro si chiude con un’appendice. Un manifesto, una proposta utopica, sulle sole istituzioni che possano riabilitare le pratiche del conoscere e del riconoscere: la scuola e l’università. Il primo passo che non postula soggettività “esterne” e già compiute, ma ha di fronte un lungo processo di costruzione e di rivoluzione culturale.

Immagine di copertina: still frame del film “La Chinoise”, di J.L. Godard, 1967 

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