PRECARIETÀ
Nell’economia on demand sono necessarie forme creative di organizzazione e conflitto
Una riflessione sulle recenti evoluzioni del mercato del lavoro, dalle dinamiche di uberizzazione e smartificazione al largo uso del lavoro autonomo. Con lo sguardo rivolto alla necessità di rinnovare i dispositivi organizzativi e conflittuali.
Come favorire processi di autorganizzazione che siano in grado di rovesciare i rapporti di forza nel mondo del lavoro e facilitare l’accesso al reddito? Rispondere a questa domanda in un’epoca già connotata dallo smantellamento radicale di diritti, è diventato ancor più difficile alla luce dei nuovi modelli di mercato del lavoro e delle nuove forme di sfruttamento.
Ci riferiamo all’avvento dell’on-demand economy, dove il tempo effettivo della prestazione lavorativa non è previamente stabilito: si lavora solo quando alla piattaforma, che gestisce la domanda e l’offerta, arriva una richiesta di servizi o prodotti (“lavoro on-demand”, appunto). La così detta gig economy, con le sue nuove e allo stesso tempo antichissime forme di sfruttamento, non sarebbe stata pensabile senza l’erosione delle tutele tipiche del lavoro subordinato, avvenuta in tempi diversi ma con risultati simili in tutta Europa. Si è resa così possibile l’espansione di forme di micro-imprenditorialità prive di tutele.
Più in concreto, il lavoro nelle piattaforme si fonda, da una parte, su un modello caratterizzato dalla presenza di un’azienda tecnologica che gestisce l’intermediazione tra clienti e fornitori del servizio mediato e, dall’altra, sull’assunto che l’azienda non si configura come datore di lavoro per i prestatori, dovendosi invece considerare questi ultimi come lavoratori autonomi e occasionali. Dovrebbe essere proprio la mancanza di un datore di lavoro a cui sottostare, e quindi di tempi e luoghi di lavoro unilateralmente stabiliti dall’alto, la novità più accattivante per la on-demand workforce.
Sembrerebbe una premessa davvero invitante, peccato che nella sostanza del rapporto lavorativo questa venga completamente disattesa. Siamo di fronte a prestazioni lavorative dove l’eterodirezione è, infatti, molto accentuata, mentre bassissimi sono i livelli di autonomia organizzativa. Dallo status formale di lavoratore autonomo, però, discendono una serie di conseguenze giuridiche, soprattutto in ambito reddituale, funzionali a massimizzare il profitto aziendale, tutte a discapito dei lavoratori.
Prima di tutto, essendo formalmente lavoratori autonomi, i lavoratori dell’on-demand economy non hanno diritto a un salario minimo orario e sono di fatto retribuiti a cottimo. Non hanno poi diritto al rimborso delle spese sostenute (la benzina per le consegne a domicilio per esempio) e agli altri trattamenti retributivi indiretti tipici di un rapporto subordinato (come ferie e permessi pagati). Soprattutto, fuoriescono dai sistemi di sicurezza sociale, come l’indennità di malattia. La mancanza di qualsiasi tutela della salute – peraltro in un settore dove i rischi per la stessa sono più alti, avendo a che fare per lo più con autisti e riders – unita all’assenza di una normativa che regoli l’orario lavorativo garantendo e obbligando a riposi adeguati, aumenta in maniera esponenziale le probabilità che il lavoratore subisca danni psico-fisici.
Come se non bastasse, nella gig economy è frequente il sistema del ranking, basato su graduatorie stilate in base ai livelli di disponibilità e di consegne, che ovviamente premia chi lavora e produce di più. Queste graduatorie premiali, assieme al cottimo, diventano un vero e proprio strumento di regolamentazione e di controllo dei lavoratori in mano all’azienda: meno lavori, meno sarai chiamato, meno guadagni. Tutto ciò spinge il lavoratore/prestatore all’over-working, con ovvie ricadute sulla sua salute.
Nell’on demand economy, poi, tutto il rischio di impresa viene spostato sul prestatore di lavoro: attraverso lo strumento del cottimo, l’azienda è in grado di far ricadere sul lavoratore le fluttuazioni del mercato determinate dal calo degli ordini, semplicemente diminuendo a sua volta la domanda interna all’azienda. Si può affermare che siamo di fronte a un “nuovo mercato del lavoro”, dove la classica allocazione di rischio e profitto è stravolta, essendo il primo posto interamente a carico del lavoratore. Un nuovo mercato del lavoro che, come diversi autori hanno sottolineato, ricombina in maniera inedita controllo e autonomia, uso delle risorse altrui ed espropriazione, tempi di vita privata e tempi di lavoro.
Per questo si parla di uberizzazione del lavoro – da Uber, la prima piattaforma on-demand -, di parcellizzazione e individualizzazione del lavoro generata dal capitalismo delle piattaforme. Per questo, è oggi più che mai necessario creare connessioni e reti mutualistiche tra i lavoratori. Anche le grandi piattaforme come Foodora e Deliveroo sono consapevoli che, fino a quando i riders saranno frammentati e non si riconosceranno in una condizione comune, potranno stare relativamente tranquille. Infatti, dopo le prime manifestazioni e scioperi avvenuti quest’estate in alcuni Paesi europei sono ricorse a delle contromisure: Foodora ha eliminato il gruppo aziendale su WhatsApp che i riders avevano iniziato a utilizzare per comunicare tra loro e mobilizzarsi, mentre Deliveroo ha dismesso l’uso aziendale che vedeva i runners riuniti in punti di incontro prima dell’inizio delle consegne.
Per aprire questo nuovo campo di conflitto è anche necessario rompere con l’ideologia della “smartificazione” del lavoro, mostrando come dietro la sbandierata neutralità dell’algoritmo si celino precise scelte politiche, meccanismi di controllo e di sfruttamento. Bisogna disarticolare e invertire i termini di quella retorica contenuta nella storica frase della Tatcher economics are the method, the object is to change the soul (“l’economia è il metodo, l’obiettivo è cambiare l’anima”) che spinge a plasmare sé stessi attraverso l’incorporazione del modello economico.
È chiaro come quello della rivendicazione di diritti nel lavoro delle piattaforme non sia un processo facile, anche perché il lavoro autonomo è privo di molte tutele ed è quindi spuntato il principale strumento di lotta, lo sciopero. Occorre quindi adottare un approccio creativo, riadattare vecchi dispositivi di lotta e inventarne di nuovi, sia sul piano sindacale che legale.
È una sfida difficile, ma non impossibile. Lo dimostra la recente vertenza vinta dagli autisti di Uber, che ha portato al riconoscimento della natura subordinata e delle relative tutele. È una sfida che va subito affrontata, altrimenti, per dirlo con le parole di Irvine Welsh, «presto non ci sarà nessuna divisione fra il lavoro e il tempo libero. Ogni cesso verrà dotato di unità interna, con computer, email e webcam, così nessuno sarà mai disconnesso o non contattabile».