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Nel trauma della guerra con “La ragazza d’autunno” di Balagov

“La ragazza d’autunno” (titolo originale “Beanpole”) del regista russo Kantemir Balagov, dopo aver vinto la sezione del Festival di Cannes, Un Certain Regard, arriva nelle sale cinematografiche italiane. Il film narra la storia del trauma postbellico attraverso la vicenda di due donne sopravvissute al fronte. Un racconto sul significato dell’amore nel trauma, del desiderio nella ferita

È la storia potentissima di due donne, del loro amore e della loro amicizia, durante l’autunno successivo alla fine della Guerra a Leningrado, quella che il regista russo ventottenne Kantemir Balagov ha presentato alla sezione di  Un Certain Regard del Festival di Cannes, ottenendone il titolo di miglior film.

Il film si apre sul nero. In sottofondo un gorgoglio, una voce strozzata che si innesta su un suono continuo ad alta frequenza. Forse il ricordo degli aerei o delle bombe o più probabilmente il segno di una disconnessione dall’ambiente circostante. Tornerà più volte durante il racconto a determinare delle impossibilità. Una sorta di acufene che bisogna avere la pazienza di riassorbire. E che fa soffrire anche noi. È una storia importante e raccontata in maniera potente. Ciò che sorprende è lo sguardo lucido e privo di imbarazzi del regista russo, per altro co-sceneggiatore del film. Il filo rosso attraverso cui incede il racconto è l’universo del materno, come routine e comportamento ma anche come desiderio e bisogno soggettivo.  Le due donne Lya e Masha (le bravissime Viktoria Miroshnichenko e Vasilisa Perelygina) si aiutano, si scambiano di ruolo, si sostituiscono in una danza di liberazione dalla violenza della guerra e degli uomini. Un allenamento più che una risoluzione che però è in grado di generare vitalità e di dischiudere l’immaginazione in un universo ancora miserabile in cui nemmeno la violenza è vissuta come tale, silenziata dall’esperienza della guerra.

 

 

Lo scenario dunque è storico: siamo ancora nel 1945, gli ospedali sono pieni di feriti e convalescenti, manca il cibo e corpi esili e bianchi sono avvolti da abiti pesanti per il freddo. La fotografia, però, è tutt’altro che al servizio dell’ovvio. Luminosa, dai colori saturi, rivelati dalla luce che penetra negli ambienti e che si riflette in una sorta di pasta chiara come base del pigmento puro: del verde, del rosso, del giallo. Ricorda la pittura olandese del Seicento, le atmosfere riflessive e intime di Vermeer, le sue giovani donne borghesi bagnate dalla luce. C’è una maestosità della composizione pittorica delle scene (la fotografia la firma Ksenia Sereda) che contrasta ciò che si sta fotografando. Ed è questa la chiave del film: il conflitto tra immagine e racconto, tra forma e senso, tra sentimenti e gesti, come strategia per raccontare il desiderio di normalità nel trauma ancora pieno della Seconda Guerra Mondiale.

I contrasti sono ovunque e in maniera più materialista in una bellissima sequenza di un pranzo. A dominare è il lungo tavolo che al pari di una trincea separa due inconciliabili mondi sociali. La camera è fissa, una sorta di establishing shot, uno sguardo neutro e d’insieme che lascia spazio alle dinamiche autoevidenti. Da un lato Masha, vestita per l’occasione da un verde cangiante, dall’altro una dirigente dell’alta società russa, una donna elegante accompagnata da uno splendido levriero borzoi bianco. Ci sono anche due uomini a tavola ma il conflitto e il gioco delle differenze, come in tutto il film, passa per le figure femminili e, in questo caso, davanti a un piatto di patate e carne.

 

 

Balagov, più in generale, serve così i suoi personaggi e il senso del racconto, senza esibire mai il dispositivo seppur guidato da una regia forte e attenta alla composizione dell’immagine. Macchina a mano, carrelli, inquadrature fisse si alternano al servizio del personaggio e del racconto.

Sono diversi i momenti in cui la camera ci mette in posizione d’ascolto e ci fornisce un privilegio distaccato d’osservazione. Ma non c’è voyeurismo e, più che mostrare la scena, dimostra l’esito possibile dei microeventi che hanno fatto la Storia. L’equilibrio espressivo tra gli umori del film è impeccabile e molto lontano dal favorire l’emozione empatica con il dramma.

È una storia raccontata attraverso l’esperienza delle donne; sul fronte come in casa o in ospedale. La Russia come grande madre è invece assente. Non c’è un sentimento patriottico a incorniciare il racconto; assistiamo piuttosto a una storia d’amore, una possibile vie d’Adèle russa settant’anni prima.