approfondimenti

Daniele Napolitano

MONDO

Natale a Beirut

Il Libano fin dall’inizio della guerra a Gaza è stato coinvolto nelle operazioni militari che hanno causato morti e feriti fra la popolazione. La vita nei campi profughi è divenuta insostenibile nonostante gli aiuti e la solidarietà di chi non ha abbandonato quei luoghi

Beirut ha vissuto questo Natale con un sospiro di sollievo, qualche speranza, ma molta paura.

Dal 27 novembre 2024 è in vigore un cessate il fuoco con Israele della durata di 60 giorni, anche se di fatto quest ultimo lo viola con continui attacchi nel sud del paese, l’ultimo la notte del 25 dicembre. «Qua hanno distrutto, qua anche, qua pure, ma ricostruiremo», mi spiega il tassista che mi accompagna dall’aeroporto al centro della città.

Una tregua che arriva dopo un escalation di eventi che hanno visto il coinvolgimento del Libano nella guerra a Gaza, sempre più alto. Già dal 7 ottobre 2023 il Libano è rimasto coinvolto nella guerra a Gaza, da allora si contano circa 4.000 morti e 16.000 feriti, secondo il ministro della salute libanese.

Fino a qualche mese fa però il coinvolgimento riguardava solo il confine sud, quello che confina con Israele, che è anche la zona controllata dall’UNIFIL, la Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite, una forza militare di interposizione dell’ONU, creata il 19 marzo 1978 con le risoluzioni 425 e 426 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Negli ultimi mesi la situazione è cambiata rapidamente con un escalation velocissima, dovuta a diversi attacchi sulla capitale libanese, Beirut. 2 gennaio 2024 a Beirut, secondo fonti della sicurezza di Hezbollah, il vicecapo del politico di Hamas, Saleh al-Arouri, è stato ucciso in un attacco israeliano con un drone, nel sobborgo di Beirut. Arouri era vice-capo del direttivo di Hamas, secondo solo a Ismail Haniyeh, e capo della divisione operazioni in Cisgiordania. Il 17 settembre migliaia di persone sono rimaste ferite e almeno 11 sono morte nell’attacco hacker in Libano che ha portato all’esplosione simultanea di centinaia di cercapersone.

Per Hezbollah Israele è «pienamente responsabile» dell’attacco. Secondo il “New York Times” i cercapersone che Hezbollah aveva ordinato all’azienda taiwanese Gold Apollo sarebbero stati manomessi prima di raggiungere il Libano. Secondo il quotidiano newyorkese gli esplosivi sono stati piazzati accanto alla batteria di ogni dispositivo ed è stato inserito un meccanismo per causare le esplosioni a distanza. I cercapersone sono stati fatti esplodere simultaneamente con un messaggio.

Il 27 settembre lo storico leader del partito di Dio Hassan Nasrallah è stato ucciso dall’esercito israeliano con un attacco di portata eccezionale contro il quartier generale di Hezbollah in un bunker sottoterra, nel quartiere sciita a Beirut. L’esercito israeliano ha confermato e dagli Usa, Joe Biden ha dichiarato che l’uccisione di Nasrallah è «una forma di giustizia» per le molte vittime di cui si è macchiato.

Mentre Teheran giura vendetta evocando la possibilità di inviare le sue truppe in Libano «per combattere contro Israele, proprio come nel 1981». Intanto è emerso che con il segretario generale sono stati assassinati anche il vice-comandante della Forza Quds dei Pasdaran in Libano Abbas Nilforoushan, il numero tre di Hezbollah Ali Karki, comandante delle unità in Libano meridionale, e altri alti ufficiali.

Il raid dell’Aeronautica è avvenuto durante una riunione, in un complesso sotterraneo sotto un edificio a più piani del quartiere sciita di Dahiyeh, convocata per decidere passi ulteriori contro lo Stato ebraico. Una potenza di fuoco praticamente senza precedenti ha distrutto un intero isolato di palazzine. Gli F15 hanno lanciato in sequenza 83 bombe anti-bunker da un quintale, per penetrare in profondità nel sottosuolo.

Ordigni spaventosi, usati per la prima volta nel 2016 per distruggere i tunnel nella Striscia di Gaza. L’attacco ha polverizzato almeno sei condomini. Sotto le macerie, secondo le stime israeliane, ci sarebbero almeno 300 vittime. Per la sicurezza libanese sono stati recuperati 11 morti. Il 30 settembre Fateh Sherif Abu el-Amin è morto in seguito a un bombardamento israeliano nel sud del paese: intanto Israele ha attaccato per la prima volta dal 2006 il centro di Beirut.

Attacchi che sono avvenuti non solo su confini di guerra o postazioni militari, ma in zone residenziali attraversate da centinaia di civili ogni giorno, come il quartiere di Ras el Nabeh, dove vivono circa un milione di persone e dove sono stato accompagnato per un veloce giro: «Sotto queste macerie c’era la vita delle persone, guarda i giocattoli dei bambini, riesci a immaginare cosa significa perdere la casa così all’improvviso?» – mi racconta un fotografo locale che mi accompagna.

In questa zona lavora anche l’associazione Amel, che supporta la popolazione locale con beni di prima necessità, aiuto psicologico e supporto scolastico per i bambini; ci mostrano il palazzo davanti alla loro aula, colpito più volte, secondo loro nessuno di importante viveva lì. «Serve solo per spaventarci», ci racconta la maestra del centro.

Questi eventi ci dicono che la strategia israeliana in Libano è stata quella di decimare la linea di comando e la leadership di Hezbollah e Hamas con attacchi mirati, diversamente da Gaza dove con la motivazione di cercare gli ostaggi e fermare Hamas, da oltre un anno e mezzo, Israele sta compiendo un genocidio che a oggi conta più di 40.000 morti ufficiali e oltre 100.000 feriti, ma sono incalcolabili i danni dovuti alla mancanza di tutti i beni di prima necessità. All’interno di questo contesto, chi già viveva in condizioni precarie, vede peggiorare la situazione.

Ne sono un esempio il campo profughi palestinese di Shatila, situato a nord di Beirut, ospita circa 20.000 rifugiati dei circa 2 milioni presenti in Libano, divisi tra palestinesi e siriani, stipati in due chilometri quadrati, senza acqua e luce, la sofferenza e la paura è ancora più alta.

Ce lo racconta Majdi, allenatore della squadra femminili di Basket del campo di Shatila e animatore del centro culturale che organizza diverse attività per bambini e adulti, messe in piedi in questi anni grazie al prezioso supporto di alcune squadre di basket italiane che si riuniscono sotto il nome di “Basket Beats Borders” e la ONG italiana “Un Ponte Per”.

Nonostante la paura, Majdi rimane qua e continua ad aiutare chi ne ha più bisogno, supportato da una rete di palestre popolari in tutto il mondo, dalla Spagna alla Francia, passando per il Brasile e l’Italia, chiamata “Sport Beats Borders”. Perché «lo sport ci ha insegnato che giocare insieme è un modo per conoscerci e superare le difficoltà, sperando che Israele la smetta di fare la guerra a tutti noi», come ci dice Majdi.

Con questo spirito da mesi Majdi organizza distribuzioni di beni di prima necessità, attività sportive per adulti e bambini e molto altro.

Insieme a lui, la figlia Razan fa la maestra del centro e segue una numerosa classe di inglese, con lei parliamo di cosa significa essere mamma, dover gestire la paura dei bombardamenti. «Cerco di dire che va tutto bene, ma ho paura come loro»  – e continua – «Cosa vogliono da noi? Dopo Gaza non c’è più un posto sicuro, dove dovremmo andare? Vogliamo solo poter vivere».

Ci salutano augurandoci buon Natale e sperando di poter festeggiare il prossimo in pace, tutti quanti.

Tutte le immagini sono di Daniele Napolitano

SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS

Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno