approfondimenti
ITALIA
Napoli, la guerra ai murales abusivi e il disprezzo dei “lazzari”
Luigi Cafaia, Ugo Russo, Davide Bifolco: il Comune partenopeo si scaglia contro i murales dedicati alle vittime dalla repressione poliziesca. Come succede spesso nella storia della città, le condizioni di miseria materiale e culturale delle classi subalterne, prodotto di precisi rapporti di classe, vengono trasformate dalla narrazione dominante in una sorta di fenomeno genetico
«Dell’imago, poi che del ver m’è tolto, assai m’appago»
(Giacomo Leopardi)
A Napoli nell’aria freddissima di questa stranita primavera, uomini in divisa arrestano le foto dei morti, poi si voltano verso i giornalisti al seguito che li ritraggono con in mano i corpi del reato. Corpi fittizi, icone, fotografie, residui immateriali. Quello che resta.
La notte del 1 marzo del 2020 il quindicenne Ugo Russo viene ammazzato a colpi di pistola da un carabiniere fuori servizio durante un tentativo di rapina. Ugo è poco più che un bambino, dalle foto mostra uno sguardo fiero e una rasoiata sul sopracciglio in omaggio a quella immagine da duro che affascina tanti ragazzini, anche quelli dei quartieri “bene”.
Secondo le ricostruzioni ufficiali, il militare avrebbe sparato dopo essersi qualificato e in reazione alla pistola puntata alla sua testa, contrariamente a quanto afferma, invece, il ragazzo che era in sella con Ugo quella notte. Una tentata rapina, una sparatoria, un omicidio.
Materia da tribunali che diventa elemento di conflitto sociale per i suoi numerosi angoli bui e le reticenze dell’autorità giudiziaria.
A distanza di un anno, infatti, i risultati sull’autopsia e della perizia balistica sono ancora segreti, alimentando comprensibili sospetti e rabbia, anche perché si parla di diversi colpi esplosi, di cui due avrebbero raggiunto il ragazzo all’altezza del petto, un altro alla nuca. Nonostante questo velo opaco, che dovrebbe provocare un minimo sussulto in una società “civile”, cresce come un fiore velenoso il malanimo dei moralisti, solerti a imbrattare le pagine dei social di cattiveria, superficialità e un finto senso civico che riempie un’indignazione più posticcia delle foto taroccate che campeggiano sui profili Facebook.
Quel piccolo balordo se l’è cercata, a quell’ora di notte avrebbe dovuto stare a casa non in giro a compiere rapine. Ben gli sta, invece di un povero ragazzo da rapinare ha trovato un militare e ha ricevuto la giusta punizione. Le rapine si pagano con la vita, secondo molti, animati da una fame bavosa di giustizia sommaria, opportunamente alimentata da certa miserabile politica.
La vicenda di Ugo è rimasta viva grazie all’impegno dei suoi genitori e del “Comitato Verità e Giustizia”, che da un anno chiede di fare luce sulle troppe ombre di questo “fattaccio”, ma l’attenzione pubblica si è soffermata, più che su questa legittima richiesta, sull’ormai famoso murale che ritrae il ragazzo, “scandalo” contro cui una parte della città ha levato la sua indignazione.
(dalla pagina Facebook del comitato “Verità e Giustizia per Ugo Russo”)
Uno “schiaffo alla città onesta” affermano i “professionisti della legalità” che in nome di questo feticcio costruiscono carriere politiche altrimenti inconsistenti.
In realtà non c’è niente, in quel dipinto, che autorizzi il sospetto di un’apologia del crimine, a parte il ricordo di una giovinezza ormai perduta e la manifestazione del diritto alla memoria, che non ha ceto sociale. Forse la pietra dello scandalo sono le due parole, «verità e giustizia» che accompagnano il ritratto e reclamano un diritto di tutti, anche di chi decide di improvvisarsi rapinatore e finisce sul selciato freddato a colpi di pistola.
Una richiesta civile che evidenzia il paradosso di una città in cui le “persone per bene” non appaiono turbate da un opaco iter giudiziario e la richiesta di giustizia viene proprio dal popolo dei “lazzaroni”.
È questo lo scandalo, in una città in cui quelle parole sono considerate appannaggio esclusivo di classi sociali che vivono lontano da questi vicoli e considerano la giustizia solo nel suo ambito formale e repressivo.
Dal versante politico istituzionale, invece, la guerra iconoclastica delle autorità napoletane, cui ha aderito anche il “Municipio ribelle”, è l’ultima trovata da professionisti della vendita di fumo, utilissima a coprire l’inettitudine delle classi dirigenti di fronte al disastro sociale di Napoli, l’ennesimo gioco di specchi che solletica, a scopo elettorale, i peggiori istinti della borghesia cittadina con una guerra ridicola.
Come se Napoli non avesse altro di cui preoccuparsi, per l’Amministrazione la guerra alle immagini è diventata una priorità e con grande soddisfazione della “città per bene” è stato rimosso il murale “abusivo” dedicato a Luigi Caiafa, diciassettenne ucciso da un poliziotto durante una rapina nella notte del 4 ottobre, insieme ad altre pericolosissime fotografie di defunti in una guerra che, al netto del ridicolo, ripropone una tarda versione dello scontro fra la pietas, per quanto popolana e a tratti kitsch, e l’Autorità di un Creonte collettivo con le pezze al culo.
Luigi Caiafa ha una storia simile a quella di Ugo Russo, al centro di una serie di ricostruzioni contrastanti sulla dinamica dei fatti e affogata dentro la solita gazzarra alimentata da chi, dimenticando il criterio di proporzionalità della pena, giustifica una pena di morte (peraltro sommaria) per una rapina e si accende di furore iconoclastico nei confronti di un dipinto che ritrae quel ragazzino in una via del centro.
Si sono scagliati in molti, contro questo omaggio «davvero di cattivo gusto», «un vero e proprio schiaffo sul viso a tutti i cittadini per bene di Napoli» – come hanno commentato alcuni politici locali, senza dire una parola sui drammi sociali e culturali dei quali la politica dovrebbe occuparsi, invece di inseguire le foto dei defunti.
(dalla pagina Facebook del comitato “Verità e Giustizia per Ugo Russo”)
La rimozione del murale che ritrae Luigi, sbandierata come una vittoria del diritto, è avvenuta in un clima surreale, mentre il ritratto dedicato a Ugo Russo per decisione del Tar non è stato rimosso, anche grazie alle attività del Comitato che ne segue le vicende, ma a Napoli la guerra alle immagini continua e le forze dell’ordine sono impegnate quotidianamente in questa opera di damnatio memoriae che sottomette la possibilità di essere ricordati post mortem alla propria fedina penale.
La Prefettura ha fatto sapere che queste attività per «il rispetto della legalità con la progressiva rimozione di manufatti o altri simboli che insistono abusivamente sulla pubblica via» proseguiranno. La città ringrazia.
È facile comprendere, in questo triste declino della Giunta arancione, con le elezioni alle porte e niente ma proprio niente da dire o da promettere, la funzione di questa campagna grottesca e del mantra della legalità recitato a fini elettorali, il suo ruolo di tappeto sotto cui nascondere i detriti di una società in pezzi nei confronti della quale la politica è muta e disinteressata. Per coprire questa inconsistenza, una classe politica cialtrona pesca dentro un pantano culturale alla cui viscosità le classi dirigenti affidano il compito di conservare a ogni costo lo status quo. Non sia mai si parli di giustizia sociale.
Se da un lato, però, è semplice comprendere le ragioni pratiche della solerzia istituzionale nella guerra ai ritratti, scavando più a fondo si trova il cuore nero di questa vicenda, affondato dentro le strategie di sopravvivenza delle classi egemoni, anche di quella borghesia che si compiace del proprio essere “illuminata”, concordi nel mantenere intatta la frattura fra le “diverse società”, tenendo a bada quella “del mondo di sotto”.
La guerra iconoclastica napoletana, strumento di quelle strategie, è animata da quel disprezzo per le “plebi”, del quale innumerevoli sono le manifestazioni storiche, per averne un’idea basti andare alla vicenda di Davide Bifulco che senza aver compiuto rapine, dopo essere fuggito di fronte a una volante perché privo di documenti è finito riverso nel suo sangue con una pallottola nel petto.
Anche in quel caso la fedina penale dei suoi familiari e la sua appartenenza a un ghetto sociale della periferia gli valsero accuse, insulti e una campagna di odio alimentata a mezzo stampa che trovarono in città ampio consenso.
Il disprezzo per i “lazzari”, del resto, percorre l’intera storia di Napoli e le condizioni di miseria materiale e culturale delle classi subalterne, prodotto di precisi rapporti di classe, sono state trasformate dalla narrazione dominante in una sorta di fenomeno genetico, racchiuso da Croce nel termine “lazzarismo”, non «una semplice condizione economica, ma un atteggiamento psicologico e una condizione morale che conferivano un carattere spiccato», che ne avrebbe favorito lo schierarsi, durante la breve stagione giacobina del 1799, per il «ritorno delle armi borboniche» che «li disonorò per sempre».
Micco Spadaro, L’eruzione del Vesuvio (da commons.wikimedia.org)
Questo stigma è rimasto dentro la coscienza collettiva sedimentando sulle due sponde, opposte ma ugualmente venefiche, della pietà e del disprezzo con cui la città guarda alla «plebe, mostro orrendo, simile a sé, indomabile», come scrive Pietro Colletta nella sua Storia del Reame di Napoli.
Questo orrore per le classi subalterne, presente già in Hegel nei confronti di una folla che conserva nei riguardi dello Stato il “punto di vista del negativo” e costituisce un’opposizione al suo stesso fondamento è un elemento culturale consolidato nelle classi egemoni napoletane e di conseguenza nell’agire della classe politica che le rappresenta.
Dentro questo giudizio, prima morale e poi politico, le classi dominate permangono dentro una bolla che non permette alcuna emancipazione, scansate come una peste anche da quelle forze politiche che venivano dal Movimento Operaio, almeno fino agli anni Settanta quando, in un controverso quanto potente processo politico, si crearono le condizioni per i “lazzari” di svestire i loro cenci e bussare finalmente alle porte “del piano di sopra”.
Per il resto, il ruolo riservato a queste masse è storicamente assai angusto e interno a un ghetto culturale che è un altro prodotto della cultura dominante, chiamata “popolare” per poterla far assumere alla plebe come propria. Un immaginario che sorregge quella «napoletanità» di cui scrive La Capria in L’armonia perduta, che orienta il modo di vivere e di pensare, le scelte pratiche e gli orientamenti politici delle classi subalterne e che altro non è che il prodotto della paura della plebe, ammansita con un immaginario posticcio che agisce da sedativo per evitare che quella folla, «da sempre acquattata nell’inconscio di questa città», si svegli e morda.
È inevitabile, infine, osservando i tutori dell’ordine a caccia di icone, pensare a questa “guerra alle immagini” come una tarda, patetica riedizione dell’iconoclastia bizantina. Non appaia come un esercizio pedante, questo scavare dentro il passato ma un semplice escamotage utile a trovare elementi di lettura del presente.
Tantomeno si vuole, qui, proporre paralleli impropri tra periodi lontanissimi per condizioni storiche e consistenza degli interpreti. Guardare alle scialbe figure degli attuali rappresentanti delle Istituzioni di fronte alla statura degli imperatori bizantini farebbe ridere.
(da commons.wikimedia.org)
Esistono però alcuni temi di fondo che possono aiutare a leggere questa riedizione “pane e puparuoli” della guerra alle immagini. Sicuramente la crisi, elemento ormai insanabile, almeno con gli strumenti logori di questa democrazia, di fronte alla quale il potere risponde trincerandosi dietro la muraglia dell’Autorità, che lo difende dal disprezzo che gli portano classi sociali escluse dalla vita politica e abbandonate da un welfare svenduto come un orpello costoso e inutile.
Un disprezzo che non è esclusivo appannaggio di quella “plebe” ma è diffuso in differenti settori della città, fra quel ceto medio impoverito da decenni di austerità e oggi impaurito dalla crisi economica e in buona misura anche fra le “classi agiate”.
L’avversione allo Stato è una componente della cultura di massa con radici nel processo malato dell’Unità d’Italia che, al di là di ogni retorica ha significato, per Napoli, un lungo e inesorabile declino.
Questa frattura con uno Stato percepito solo attraverso il prelievo delle tasse o la galera, passaggio obbligato per la grande maggioranza degli abitanti della “Napoli di sotto”, è una minaccia costante che era stata tenuta a bada con le ultime stagioni in cui era piovuto sulla città qualche fetta di benessere economico, al solito distribuito in maniera diseguale: la renaissance bassoliniana e l’ultima controversa stagione del turismo di massa.
L’irrompere della furia iconoclastica in questa città impoverita, disorientata e confusa, quindi, non c’entra niente con la legalità, è solo l’ultimo sussulto di un Basso Impero che risponde alla sofferenza dei ceti subalterni e alla propria crisi di autorità riaffermando la tradizione dello Stato “forte”. La decrepita sceneggiata di una restaurazione politica che punta a preservare gli iniqui equilibri che ne sorreggono l’impalcatura.
Governare con la forza è decisamente più economico e digeribile, per le élites, che non intervenire con politiche sociali in grado di ribaltare gli assetti di una società fondata su squilibri che la pandemia rende sempre meno governabili.
Nel momento in cui la crisi economica stritola la città e si instaura a Roma l’ennesimo Governo a trazione settentrionale, i satrapi meridionali rispondono con una guerra iconoclastica che ha il volto della scalcagnata classe politica che governa queste terre, a partire da un’Amministrazione cittadina che si manifesta nella sua pochezza culturale, inconsistenza politica, grigiore. L’ennesimo fallimento politico che Napoli proprio non meritava.